In lode a Francesca
di LA FIONDA (Matteo Parini)

Il contesto. Francesca Albanese ha un mandato istituzionale e come lei sono altre cinquantasette le persone nel mondo designate in egual misura dall’ONU. Per inquadrare la situazione, di questi incarichi sono quarantacinque quelli “tematici”, dedicati a questioni globali come possono essere la tortura, i flussi migratori o l’ambiente, e tredici quelli “specifici”, attribuiti per il monitoraggio di un Paese in particolare. Mandati che non piovono dal cielo ma sono conferiti, appunto, dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite in qualità di esperti e in relazione a determinate tematiche. Morale, non ci si inventa “Special Rapporteur”, questo il nome, dalla mattina alla sera, a monte ci sono anni di studio e accrescimento della competenza. L’ONU, pur non avendo fissato dei requisiti ufficiali, pretende che alcune imprescindibili peculiarità, morali, tecniche e culturali siano comprovate. Padronanza dei diritti umani, indipendenza politica ed economica, imparzialità, conoscenza del contesto internazionale, capacità di dialogo multilaterale e di mediazione fra parti in conflitto, sono solo alcune delle doti ritenute necessarie all’espletamento di un ruolo di spessore come può essere quello di un garante di umanità e giustizia sociale nonché referente autorevole per conto delle Nazioni Unite. Francesca Albanese, all’interno di questo auspicabile modello che si potrebbe definire di vigilanza sovranazionale, è la “Relatrice speciale per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati”. In carica dal maggio del 2022, il suo mandato inizialmente biennale è stato rinnovato e, pertanto, attualmente risulta in corso. A perorare la sua candidatura è stata una risoluzione proposta dal Pakistan per conto dell’OIC, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, sul tema dello “Stato dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, e l’obbligo di garantire giustizia e responsabilità”. Pakistan che, per il principio dell’indipendenza politica del candidato di cui sopra, nella persona di Bilal Ahmed ha agito per conto dell’OIC stesso e non per un desiderata personale. Un concetto, questo dell’indipendenza, che risulta centrale nella stretta attualità di questi giorni che vedono Francesca Albanese sotto il fuoco incrociato delle cancellerie dell’Occidente collettivo eterodirette da Washington, nel tipico atteggiamento delle sedicenti democrazie plutocratiche di avversare chi non è in vendita. Per distruggerne immagine e credibilità.
Il perché L’ONU abbia scelto proprio Francesca Albanese lo racconta esaustivamete il suo curriculum. Una sintesi: avvocato internazionale specializzato in diritti umani e Medio Oriente, Affiliate scholar presso l’Institute for the Study of International Migration della Georgetown University, responsabile del programma di ricerca e assistenza legale su migrazioni e richiedenti asilo nel mondo arabo per il think tank Arab Renaissance for Democracy and Development, co-fondatrice del Global Network on the Question of Palestine. Una coalizione, quest’ultima, fatta di accademici regionali e internazionali impegnati attivamente nella questione israelo-palestinese. Risulta pertanto evidente la sua adeguatezza nel perseguire gli obiettivi di un incarico che verte sostanzialmente su tre capisaldi. Uno: indagare sulle violazioni da parte di Israele dei principi e delle basi del diritto internazionale umanitario e della Convenzione di Ginevra. Due: ricevere comunicazioni e ascoltare testimoni. Tre: riferire alla Commissione per i diritti umani nelle sue future sessioni. In tre parole, monitoraggio, denuncia e proposta.
Se improvvisamente si è iniziato a parlare di lei a reti unificate, e non per i conclamati meriti professionali o per il coraggio d’essersi collocata senza riserve dalla parte degli ultimi, è perché in quello che si può genericamente chiamare Nord Globale – per affinità sociopolitiche non sempre edificanti e includendo nel medesimo sottoinsieme di umanità anche Israele che geograficamente ne sarebbe escluso – si vive un’epoca che annovera tra gli argomenti da maneggiare con discrezione, pena censura, la postura genocidaria del governo di Tel Aviv. Un clima tossico, quello che si appiccica sulla pelle di chi approccia all’argomento senza paraocchi, da propaganda goebbelsiana degna dei peggiori regimi reazionari, che veicola urbi et orbi una narrazione ufficiale. Unica e indiscutibile, che non scontenti più di tanto l’apparato egemonico del potere statunitense più i relativi accoliti. Francesca Albanese, nell’esercizio del suo mandato professionale, il confine del consentito, agli occhi dei gendarmi del mondo unipolare che l’hanno tracciato, lo ha colpevolmente scavalcato. Da qui, la sua odierna sovraesposizione mediatica. Un linciaggio, il pubblico ludibrio imposto dall’alto, favorito dai menestrelli senza scrupoli dell’informazione, sempre così solerti nell’accondiscendere chi ha il portafoglio e tira i fili. In Italia, per fare qualche esempio, c’è un personaggio pubblico e di robusta influenza come Enrico Mentana che alla lettura della notizia dell’ennesima strage di innocenti non riesce nemmeno a pronunciare la parola “coloni”, i responsabili, balbettando la meno comprensibile locuzione anglofona “settlers”. Chi pensa sia una sciocchezza è in nalafrde. C’è pure uno come Maurizio Molinari, direttore di giornale, che definisce Israele una “democrazia aggredita”. La filastrocca aggressore-aggredito di quelli che deliberatamente scambiano l’ordine degli addendi secondo convenienza. Oppure, c’è uno come Paolo Mieli, tra i vari mestieri che esercita c’è anche quello dello storico quale aggravante, che dichiara che “l’accusa di genocidio nei confronti di Israele legittima la violenza”. Una sequela inesausta di mistificazioni di massa.
Francesca Albanese, sbattuta proprio l’altro giorno in prima pagina dal quotidiano “Libero”, nome ossimorico considerata la contenutistica di uno dei più fedeli rotocalchi atlantisti del panorama italiano, con la peggiori infamie – ma la testata diretta da Mario Sechi è in nutrita compagnia – ha fatto drizzare le antenne, che è aspetto decisamente più rilevante, all’amministrazione statunitense che, per bocca del Segretario di Stato Marco Rubio, ha annunciato con piglio da gangster non meglio precisate sanzioni a suo carico. Qualcosa che somiglia da vicino ad un avvertimento mafioso, l’atteggiamento caratteristico di chi governa nell’area dollarocentrica imperniata sulla legge del più forte. Scampoli di democrazia muscolare. Sanzioni, quelle promesse, che fanno sponda sul cosiddetto “Executive Order 14203”, un provvedimento vergato di recente da Donald Trump allo scopo di avversare le disposizioni della Corte Penale Internazionale (CPI) a carico dei cittadini USA e dei loro alleati. In soldoni, un condono. Disposizioni e accuse che, evidentemente, non sono gradite agli apparati di potere. L’EO 14203, dal nome sinistro di “Imposing Sanctions on the International Criminal Court”, ha per genesi il mandato d’arresto della CPI a carico di Netanyahu, primo ministro israeliano, e Gallant, il suo ministro della Difesa. Il decreto, firmato lo scorso 6 febbraio, prevede sanzioni finanziarie e blocco dei visti non solo per gli effettivi della CPI ma per chiunque vi collabori. Senza distinzioni, la ghigliottina prende di mira ONG, avvocati, accademici. Così, su Francesca Albanese si è abbattuta la scure dell’intimidazione, perché giudicata colpevole di aver incitato la CPI ad intraprendere, in virtù del suo operato, azioni ostili nei confronti degli ufficiali di USA e di Israele impegnati nel massacro di Gaza e, insieme, delle aziende coinvolte in parallelo nelle operazioni di sciacallaggio sul medesimo scenario bellico. Un problema di sicurezza nazionale, l’ha definito Trump riferendosi a Francesca Albanese. Succede anche questo e non si capisce se ad essere più surreale sia l’accusa in sé o il silenzio delle principali cariche di governo italiane che scaturisce dall’attacco vigliacco ad una connazionale. Silenzio che muta in azione concreta e degenera in complicità. Per rendere l’idea a beneficio dei più distratti, la Camera, ed è storia recentissima, ha bocciato la mozione di richiesta al Governo di sospendere il Memorandum di cooperazione militare tra Italia e Israele. L’Italia persevera nel macchiarsi la reputazione compartecipando ai crimini compiuti da uno Stato terrorista. A fissarlo è il Parlamento, nelle intenzioni dei padri costituenti un baluardo di giustizia finito per diventare un pied-à-terre dell’impero nordamericano nella colonia-Italia.
Comunque, motivo di tanto astio nei confronti di Francesca Albanese è il rapporto ufficiale delle Nazioni Unite intitolato “Anatomy of a Genocide” da lei redatto e presentato al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite il 1° luglio del 2024. Epicentro del documento è la parola proibita, quella che la narrazione mainstream che non accetta deviazioni dalla linea di pensiero unico ha fatto sparire dal dizionario: genocidio. Nel lavoro scrive, in conclusione, che “a Gaza sussistono ragionevoli motivi per ritenere che siano stati commessi atti che potrebbero configurare un genocidio”. Tanto è bastato per far scomodare l’accusa orwelliana di antisemitismo in assenza dello stesso. Che nell’accezione sottosopra filo-israeliana significa non voltarsi dall’altra parte, non essere fiancheggiatori di una pagina di storia inqualificabile. Più che benaltrismo, un salto mortale intorno alla realtà fattuale. Perché, se gli fai notare che giocare alla roulette russa con i bambini palestinesi in fila per ore sotto al sole nell’attesa che le forze di occupazione concedano loro un bicchiere d’acqua non sia tipicamente un atteggiamento da gentiluomini, l’accusa di rimando è immancabilmente quella di antisemitismo. Una sorta di lasciapassare, la strumentalizzazione della tragedia della Shoah a turpi fini opportunistici, nel nome della quale ogni atteggiamento terroristico diventa automaticamente lecito. La panacea di ogni mal di coscienza per le anime candide dello spicchio egemone di pianeta. Israele ammazza ventimila bambini nella Striscia, tanto da risultare oggi la prima causa di mortalità infantile, e si appresta a deportare quelli che sopravvivono ma è antisemita l’atteggiamento di chi, come Francesca Albanese, denuncia il crimine. Una corruzione del pensiero con pochi precedenti, fortuna che i regimi sono quelli degli altri.
Genocidio, ancora a proposito di imparzialità, è qualcosa di indelebilmente perimetrato già dalla Convenzione di Ginevra del 1949, non una definizione coniata di recente per dare addosso ad Israele, che ha provveduto a definirlo legalmente obbligando gli Stati, sebbene in linea teorica, a prevenirlo e punirlo. Affinché si configuri proprio quel reato occorre, come recita testualmente l’Articolo 2 della suddetta Convenzione, l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Francesca Albanese, a partire dalla traccia solcata dalla sua definizione e al fine di provare agli occhi del mondo l’intento genocidario degli esponenti dell’establishment israeliano, ha raccolto testimonianze sul campo. Prove incontrovertibili della disumanizzazione dei palestinesi, di ordini militari impartiti all’esercito che autorizzano massacri indiscriminati sui civili, di creazione deliberata di condizioni di vita incompatibili con la dignità umana. L’insieme di ciò configura il “dolus specialis”, l’intenzione speciale. Quella, appunto, di uno sterminio. Non un generico atto violento. Non un crimine di guerra, poiché a fronteggiarsi non sono due eserciti che si bombardano reciprocamente coinvolgendo aree civili. La lucida consapevolezza di distruggere un popolo, quello palestinese in quanto tale. Non gliel’hanno perdonato a Francesca Albanese, che è stata intimorita ed in maniera nemmeno troppo velata, ma ciò non lha impedito proseguisse con l’attività di denuncia.
Perché, in occasione della cinquantanovesima sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, la Relatrice Speciale italiana ha presentato, non più tardi di qualche settimana fa, il suo ultimo rapporto dal titolo “From economy of occupation to economy of genocide”. Nell’occasione, con il genocidio sempre in primo piano, ha analizzato da vicino il fenomeno del profitto che diversi colossi aziendali stanno traendo dall’economia dell’occupazione illegale israeliana della Palestina. Dualmente, ha puntato il dito sulla complicità delle multinazionali delle armi, dei sistemi di sorveglianza biometrica, delle analisi predittive a mezzo intelligenza artificiale, con la politica sciovinista israeliana. Alfieri della globalizzazione capitalistica, questi ultimi, più influenti sullo scacchiere internazionale degli stessi Stati nazionali, cifra stilistica della più feroce globalizzazione capitalistica. Quelli come Google, come Amazon o come Microsoft, che non lesinano tecnologia e logistica bellica, in cambio di evidenti benefici, alla causa genocidaria.
Nuovi e sempre più strutturati nemici attendono al varco un’encomiabile Francesca Albanese che, grazie ai risultati dell’attività di ricerca compendiati nel succitsto ultimo rapporto, ha fatto sì che anche il mondo accademico occidentale perdesse pubblicamente la sua verginità, spogliato dell’indipendenza pedagogica e scientifica che sta, anzi starebbe, alla base delle istituzioni deputate alla formazione superiore. Università del sapere derubricata a università di guerra. Molti dei principali atenei del cosiddetto Global minority, la minoranza del pianeta Terra che detiene un disproporzionato potere economico e detta l’agenda del diritto internazionale, collaborano attivamente con le istituzioni israeliane che operano ai danni della Palestina e, più in generale, contro la stabilità del Medio Oriente. Israele, uno Stato capace di essere in guerra a vari livelli di intensità con almeno cinque nazioni in contemporanea – è di queste ore l’ultimo bombardamento illegale su Damasco in una Siria fatta a brandelli sulla falsariga dell’Iraq, della Libia, dell’Afghanistan, del Libano – fa della sua università l’impalcatura concettuale di un suprematismo endemico. Dal supporto ideologico alla discriminazione sociale e religiosa, sancita anche in via ufficiale dalla legge fondamentale dello Stato-Nazione del popolo ebraico per la quale Israele è nazione dei soli ebrei e non di chi la abita, alla cancellazione sistematica della tradizione autoctona palestinese, all’introiettamento nelle nuove generazioni della cosiddetta cultura dell’occupazione, affinché percepiscano lo status quo come normalità se non come auspicabile evenienza e senza tentennamenti morali. Sbaglia, pertanto, chi pensa che il male perpetrato da Israele sia imputabile al solo Netanyahu o alla sua cricca balorda di potere. Il sostegno alle politiche criminogene, infatti, continua ad essere maggioritario in seno alla società civile israeliana, non deve stupire. Secondo un recente sondaggio riportato dal quotidiano Haaretz, poi citato da Reuters, più dell’ottanta per cento degli ebrei israeliani sarebbe favorevole ad espellere i palestinesi da Gaza una volta terminata la guerra. Ça va sans dire. La banalizzazione della deportazione, acme di pensieri aberranti insiti nella maggioranza bulgara di una popolazione statisticamente aggressiva. Nonostante ciò, la tiritera del sacrosanto diritto di Israele alla difesa, benché nessuno dei suoi fautori chiarisca mai nei confronti di chi o da cosa, continua a convincere, qui nell’Occidente collettivo, una moltitudine di persone. Probabilmente, perché a ripeterla a sfinimento sono gli esponenti apicali delle cancellerie che, è bene ribadirlo, sebbene non provengano da Marte finiscono lo stesso per essere imposti, indipendentemente dalla volontà popolare. Il recente caso rumeno, ma è solo l’ultimo della lista, con il rifacimento delle elezioni per via di un esito iniziale non soddisfacente la linea euroinomane e l’arresto del candidato inviso che ha fatto seguito alle votazioni, chiarisce meglio il concetto. Se per Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio, “Israele ha il pieno diritto a difendersi”, e chissà se allude al pericolo avanzato dai gazawi disperati in coda per una ciotola di farina, per Licia Ronzulli, vicepresidente del Senato, “Israele ha diritto a sopravvivere”, sottintendendo sussista addirittura un pericolo esistenziale incipiente per la nazione ebraica. La devastazione della Palestina che va da Gaza al West Bank per mano dell’esercito regolare o dei coloni, per usare un neologismo tanto familiare ai pirati a stelle e strisce, è classificata come “danno collaterale”. Locuzione macabra, coniata ormai un certo numero di guerre imperialistiche fa, che edulcora i bombardamenti alla cieca, ridicendoli a fortuita e inevitabile conseguenza, di una forza egenomone sui malcapitati di turno che non si allineano supinamente. Regime, secondo il vangelo occidentale, è il governo di chi non è in vendita mentre terrorista è chi non accetta passivamente la prevaricazione.
Francesca Albanese, alla quale si augura di restare in salute in questo clima torbido da Cosa Nostra che non lascia più nessuno al sicuro – all’uopo basti ricordare le famigerate liste di proscrizione stilate da un noto quotidiano italiano includenti i fantomatici “putinisti”, di fatto coloro i quali ritenessero autolesionistico per l’Italia accodarsi alla guerra per procura in Ucraina e, quindi, messi alla berlina mediatica – è una ventata d’aria fresca in una stagione arida. Fatta di assordanti e reiterati silenzi, nella migliore delle ipotesi, dinanzi allo sterminio di Gaza. Con la tenaglia di morte Trump-Netanyahu che tenta di soffocarla, nel contesto di una demonizzazione del dissenso senza quartiere proprio degli autoritarismi come il nostro. Che ha pure la spocchia di celebrarsi moralmente superiore ed ergersi a modello universale.
Un piccolo motivo di speranza, come spesso accade, arriva però dall’America Latina. Gustavo Pedro, presidente della Colombia, ha convocato il Gruppo dell’Aia nella Conferenza di Bogotà con lo scopo di tradurre in azioni concrete la risoluzione dell’ONU contro l’occupazione l’israeliana. Presente al meeting anche Francesca Albanese che, in veste di Relatrice Speciale, ha aperto i lavori e fissato i due punti chiave della Conferenza. La richiesta ai trenta Stati presenti di “passare dalla retorica all’azione”, nell’ottica di fermare la nebbia di complicità internazionale. La definizione della contingenza come un “test esistenziale” per la sopravvivenza del diritto internazionale. Azione che può essere tradotta, ha aggiunto, dall’applicazione di sanzioni finanziarie alle aziende delle guerra e nell’embargo totale alla vendita delle armi alla junta criminale di Netanyahu. Mentre Gustavo Pedro annunciava l’uscita della Colombia dallo status di partner globale della NATO, perché il suo paese – ha dichiarato – deve smetterla di sostenere un’organizzazione responsabile del massacro di civili. Embrioni, quelli fuorusciti dalla Conferenza dello scorso 15-16 luglio, di coraggio e umanità.
Dal giorno della sua nomina, il merito più grande conseguito da Francesca Albanese è di aver elevato il suo ruolo da quello di osservatrice/relatrice, svolto in maniera encomiabile, a quello di baluardo concreto. A punto di riferimento istituzionale per chi non si rassegna a vivere dentro una civiltà infestata dalla piaga della corruzione del diritto internazionale, stuprato dalle mire imperiali dei custodi del mondo unipolare e dalla recrudescenza del relativo sciovinismo, quella tipica dei colpi di coda della bestia morente. Donna di coraggio, fermezza e autonomia, Francesca Albanese, tra guerre della NATO illegali e politiche terroristiche degli Stati dell’Occidente collettivo, con un’azione di advocacy a più livelli fatta di strategie tangibili capaci di generare consenso, ha puntellato il principio per il quale un sistema internazionale di tutela dei diritti umani, connesso alla ricollocazione della centralità del diritto quale imprescindibile strumento di giustizia globale, non debba piegarsi alle dinamiche di potere. Il tempo per mettere fine all’impunità internazionale di uno stato terrorista come quello israeliano, responsabile della sofferenza di milioni di persone e alla comprensibile disillusione collettiva che si accompagna assistendo impotenti ad una tragedia storica come quella palestinese, è scaduto. L’azione di Francesca Albanese, sintetizzando con una parola, significa speranza. Nel diritto, quale grimaldello di giustizia universale; per gli oppressi, ai quali finalmente è data voce; nell’ordine internazionale, perché non sta scritto da nessuna parte che dovrà essere asimmetrico per l’eternità. Speranza, quindi, tridimensionale e concreta. In definitiva, Francesca è oggi una figura chiave che, in un’epoca autenticamente terribile per chi siede dal lato debole del mondo, incarna una via d’uscita che proietta i popoli in lotta per l’autodeterminazione verso un futuro possibile. Nel quale dignità, giustizia, coraggio collettivo, imparzialità e coerenza smettano di essere parole vuote e si affilino come spade di Damocle sui potenti.
FONTE:https://www.lafionda.org/2025/07/22/in-lode-a-francesca/





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