La scomparsa del senso del ridicolo: l’ordine del tempo di Liliana Cavani
di FERDINANDO PASTORE (Pagina Facebook)

Il film più demenziale che mi sia capitato di vedere è un film corale, ormai un vero e proprio genere di marca italiana. La coralità dell’impianto narrativo, in uso nelle pellicole nostrane, non è scelta perché si presta a determinate esigenze tecniche o a esperimenti rivoluzionari nel campo della poetica così da generare una vera e propria scuola cinematografica. Viene preferita per necessità clientelari e per esigenze politiche. Il film a più voci permette indubbiamente di accrescere possibilità di scritturazione per l’amichettismo gruppettaro che ha egemonizzato il cinema italiano, ormai permeato da un’articolata ramificazione di legami tribali che, con sprezzante ma sorniona disinvoltura, occupa militarmente le prime visioni. Ma l’impellenza di collocare questa comitiva di amici non spiega a sufficienza l’ossessione per soggetti ricalcati da “Il grande freddo”.
Difatti l’esistenza di una pluralità di protagonisti permette di inserire con facilità grossolana sermoni pedagogici e ideologici sulla realtà sociale e sulla vita quotidiana. Grandi case con discesa privilegiata a mare offrono innumerevoli opportunità di conversazione: femminismo aristocratico che straparla di gender pay gap tra star dello show business o tra CEO di multinazionali, ambientalismo di maniera corredato da sguardi contriti e severi sui comportamenti individuali dei tanti illetterati che abitano le periferie, meritocrazia individualista infarcita da esegesi autoreferenziali sulle carriere professionali dei protagonisti, fluidità sessuale giovanile ma anche scoperta o riscoperta in età avanzata quale vero fattore di emancipazione personale e, infine, traumi psicologici che indirizzano il corso delle esistenze, tanto per far capire che alla fin fine ricchi e poveri abitano la stessa barca.
“L’ordine del tempo” di Liliana Cavani, liberamente tratto da un saggio di Carlo Rovelli, condensa in un solo respiro tutti questi automatismi ideologici, enfatizzandoli con tale seriosa convinzione da trasformarli in parodia. Un gruppetto di pariolini progressisti, perennemente incantati dal suono delle proprie voci, affronta con consapevole leggerezza l’avvento di un asteroide che distruggerà la terra. Nell’attendere l’impatto si susseguono, in un vortice incalzante di confessioni scabrose sul passato dei singoli personaggi (tutti ovviamente stimatissimi professionisti), gare prestazionali su chi è più aperto mentalmente rispetto al resto della cricca. Dal marito consapevole dell’amore latente della moglie per un altro uomo, alla lesbica single ma genio della fisica in odore di Nobel se non fosse che una donna non potrà mai ricevere un Nobel; dalla moglie che confessa il suo amore lesbico di gioventù davanti al marito dal passato fedifrago e che quindi con aria appagata accetta questa sincera dimostrazione di modernità illuminata, all’altra moglie che insulta il marito psicanalista non in grado di curarla da uno stupro di gioventù, ma tutto sommato funzionale perché omosessuale represso, o ancor meglio bisessuale inespresso, e quindi innocuo nella continua riproposizione del trauma.
Fino ad arrivare al gran finale: una volta salvi, direi purtroppo salvi per la poca mira dell’asteroide che manca di un soffio l’impatto con la terra (si fa un gran tifo per la catastrofe quando si ascoltano le farneticanti parole scritte nella sceneggiatura), arriva all’improvviso il figlio clandestino del padrone di casa che, senza troppi giri di parole, viene subito riconosciuto come tale dalla sorellastra e dalla moglie tradita, le quali, in quanto fiere liberal-progressiste, si preoccupano esclusivamente del suo benessere, regalando sguardi complici al resto del gruppo e abbracci consapevoli e compassionevoli al marito traditore.
Il politicamente corretto è, nell’opera della Cavani, un vero e proprio prontuario per la costruzione del buon cittadino addomesticato dall’imposizione di un “saper essere”, l’escalation di affettazioni istruite e civilizzanti che non riconoscono mai il limite segnato dal senso del ridicolo è amplificata da conversazioni didascaliche sul rapporto tra scienza e fede, tra ragione e preghiera che contribuiscono a esaltare l’ambientazione di sempreverdi gite liceali, tipica ostentazione briosa del gruppetto di personalità identificate con il cinema italiano. Un progressismo così a modo, così intellettualmente saporito che tutti i personaggi, in maniera indifferenziata, non riescono proprio a farsi un caffè con le loro mani. Devono rivolgersi, con educazione impeccabile, ci mancherebbe, alla serva peruviana; una di famiglia così come lo fu la “Mammy” di “Via col vento”, quando il razzismo non si nascondeva tra le crepe della meritocrazia di sinistra ma utilizzava orgogliosamente il proprio nome.
FONTE: https://www.facebook.com/share/p/1CEzSfGQgy/





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