La Germania precipita. E si porta dietro tutta l’Europa
di OTTOLINATV (Giuliano Marrucci)
Era solo questione di tempo; dopo i drammatici piani di ristrutturazione annunciati prima da Siemens e poi da Volkswagen, tutti si stavano chiedendo quando sarebbe arrivato il turno anche del terzo anello della sacra triade dell’industria tedesca nel mondo: Bosch, il cuore pulsante dell’industria automobilistica europea e l’anima del modello tedesco, tutto industria e produzione e poca o niente finanza. Nonostante i 400 mila dipendenti e i 100 miliardi di fatturato l’anno, Bosch, infatti, non è manco quotata in borsa: per l’8% è di proprietà della famiglia Bosch; per il restante 92, di una fondazione no profit – che, quindi, non può distribuire dividendi e deve impiegare gli utili in opere benefiche. Proprio come Volkswagen, è l’azienda più labour intensive del suo settore: significa che, rispetto al suo fatturato, crea più posti di lavoro di tutti e quasi il doppio rispetto ai principali competitor – la giapponese Denso e la canadese Magna International – e ogni anno investe circa il 10% del suo fatturato in ricerca e sviluppo, che gli ha permesso, per un secolo e mezzo, di rimanere sempre all’avanguardia. Sin dal 1887, quando dal cilindro di Bosch sbucò fuori il Magnete ad Alta Tensione, il sistema di accensione a magnete per i motori a combustione interna che si affermò subito come lo standard di mercato e catapultò quello che allora non era altro che un piccolo laboratorio per la meccanica di precisione di un sobborgo di Stoccarda alla ribalta dei mercati mondiali.
Da allora, l’azienda non ha fatto che crescere e aumentare i dipendenti e quando – con la crisi finanziaria del 2008, prima, e con il Covid, poi – si è parlato per la prima volta di piani di ristrutturazione, si parlava comunque di poche migliaia di posti, da gestire di comune accordo con i sindacati tra pensionamenti anticipati, part time e cassa integrazione straordinaria; fino a settembre di quest’anno, quando, dalla sede centrale, è arrivata una vera e propria doccia fredda: -13 mila posti entro il 2030, 3.500 dei quali nella sede centrale e altri 5 mila abbondanti nel resto della Germania, compresa la chiusura tout court di almeno uno stabilimento. Ed è solo la punta dell’iceberg: “L’annuncio di licenziamenti significativi in Bosch”, ha dichiarato Marcel Fratzscher dell’Istituto DIW a Bloomberg, “è solo l’inizio di una profonda ristrutturazione industriale in Germania. Nei prossimi anni assisteremo a molti altri licenziamenti, e anche a numerosi fallimenti”; secondo l’associazione di categoria VDA, l’automotive tedesco ha già perso oltre 55 mila posti di lavoro negli ultimi due anni e altre decine di migliaia di posti sono destinati a scomparire entro il 2030. Sempre Bloomberg ha pubblicato questo vero e proprio bollettino di guerra: 35 mila posti Volkswagen, 18 mila e 500 Bosch, altri 25 mila dagli altri due colossi della componentistica Friedrichshafen e Continental. E così via, per un totale di quasi 100 mila posti di lavoro; d’altronde, ricorda il Financial Times, “Gli stabilimenti di produzione automobilistica, che nel 2017 hanno prodotto quasi 6 milioni di veicoli, tre quarti dei quali destinati all’esportazione, ora ne producono 4 milioni”.
E l’automotive è in buona compagnia: come riporta sempre il Financial Times, “La produzione di acciaio tedesca è diminuita del 12% nella prima metà di quest’anno rispetto all’anno scorso”, e quando, a inizio ottobre, sono usciti i dati sugli ordinativi industriali di agosto, riporta Bloomberg, “inaspettatamente, si è registrata per il quarto mese di fila un’altra diminuzione dello 0,8%”; gli economisti intervistati nelle settimane precedenti da Bloomberg avevano previsto un aumento dell’1,2%, “con un solo analista che aveva previsto l’ennesimo calo”. Si erano fidati di Merz: pochi giorni dopo la travagliata nascita del suo governo di coalizione, aveva annunciato trionfale che “famiglie e aziende avvertiranno una ripresa entro l’estate”. A invertire la direzione di marcia ci avrebbero dovuto pensare i 2 mega-pacchetti di investimenti concordati dal governo di coalizione: 500 miliardi in 12 anni per rimettere in sesto le infrastrutture devastate da 20 anni di austerity e altri 500 per il riarmo. Erano il frutto di un travaglio lungo e tormentato: prima Merz aveva dovuto convincere i suoi che, viste le condizioni, uno strappetto alle regole era necessario (le regole sono quelle che aveva introdotto la Merkel per mettere a bada il debito pubblico). Contro ogni logica, vietavano al governo federale di fare spesa in deficit, a prescindere dalle condizioni macroeconomiche: una roba che impedirebbe di passare un esamino for dummies alla triennale, ma che ai tedeschi era piaciuta assai perché gli forniva la scusa perfetta per, come si dice in gergo, aumentare la competitività – che, tradotto, significa mettere in ginocchio i lavoratori fino a sfruttarli quel tanto che basta per essere competitivi con i coreani, i messicani (e anche i cinesi) sui mercati internazionali; una ricetta per il suicidio, ma che, negli anni, ha permesso alla Germania di trasformarsi dal malato d’Europa a una superpotenza delle esportazioni.
Per convincere i padroncini tedeschi che era arrivata l’ora di fare a meno di quel vincolo esterno, Merz l’ha dovuta buttare sul complottismo: “I russi ci stanno invadendo” – che, evidentemente, dopo gli schiaffi che hanno preso nella seconda guerra mondiale è ancora un tasto dolente; fatto sta che, alla fine, hanno ceduto: uno strappettino al dogma dell’austerità si può fare, basta che sia finalizzato a costruire cose che servono per uccidere i russi. Ma, purtroppo per Merz, la faccenda non era ancora finita, perché dopo aver convinto i padroncini russofobi tedeschi, bisognava convincere anche i partner della coalizione; intendiamoci: non che l’SPD sia meno russofobo e guerrafondaio, ma dopo decenni di rigore e austerity, per non scomparire, si ritrova costretto a inseguire quel che rimane del voto operaio e a fare almeno finta di avere ancora un cuore non dico socialista, ma per lo meno keynesiano. Ed ecco, così, che per approvare il terrificante piano di riarmo del Reich ha chiesto che di miliardi ne venissero cacciati altri 500, ma questa volta, appunto, per rifare strade, ponti e ferrovie, che ormai assomigliano a quelli del Burkina Faso (o della Calabria). Non ho ancora capito esattamente perché, ma fatto sta che, alla fine, Merz ha accettato; i padroncini tedeschi un po’ meno: ed ecco, così, che alla prima occasione i politici conservatori più vicini agli imprenditori più conservatori, gli hanno fatto un bello sgambetto. Ricordate? Era il 6 maggio scorso: Merz si presenta al Bundestag per chiedere la fiducia al suo governo di coalizione. Gli servivano 316 voti; si fermò a 310: era, in assoluto, la prima volta che succedeva in tutta la storia della repubblica federale tedesca.
In realtà, Merz un’alternativa ce l’avrebbe avuta: si chiama AfD; dai media (non senza ragioni) viene definito come partito di estrema destra – e, effettivamente lo è, eccome, ma anche pezzi consistenti della CDU lo sono. In realtà, AfD e CDU condividono più di quanto non si pensi: soprattutto, la fede nel neoliberismo più feroce, come dimostra l’infatuazione dell’AfD per un sociopatico come Elon Musk, amico personale della leader Alice Wiedel e osannato dal loro elettorato come una rockstar. Perché non abbiano ancora trovato una quadra, rimane un mistero: che sia semplicemente perché tra le fila dell’AfD c’è anche qualche sociopatico nostalgico del nazismo, mi pare difficile; figurati se non ce ne sono anche tra gli amici di Schauble. Al limite, penseranno che se sono così coglioni da farsi sgamare, non sono ancora pronti per condividere responsabilità di governo: devono prima imparare, le cose, a farle di nascosto, come i veri professionisti; fatto sta che Merz, alla fine, ha tenuto la barra dritta, dopo poche ore è tornato a chiedere la fiducia e, a questo giro, l’ha ottenuta. Quindici voti che sono sbucati dal niente, per magia; un segnale piuttosto chiaro: non fare scherzi, ti teniamo per le palle.
Con 1000 miliardi da spendere e la certezza che Merz li avrebbe spesi tutti per fare un favore a chi i soldi ce li ha già, e non a dei mangiacrauti qualsiasi, finalmente si poteva partire di slancio: come ricorda il Financial Times, “Per un breve periodo” si respirò quasi una certa aria di “ottimismo” che, però, è durato poco e “A quasi sei mesi di distanza, l’economia mostra pochi segnali di ripresa, e la frustrazione sta aumentando”; “L’istituto Ifo di Monaco di Baviera prevede una crescita del PIL di appena lo 0,2% quest’anno, seguita da una modesta ripresa all’1,3% l’anno prossimo grazie alla spesa pubblica”. Come sottolinea Bloomberg, “Le speranze che alcuni posti di lavoro nel settore automobilistico possano essere salvati grazie ai nuovi contratti per il comprato della difesa non si sono ancora concretizzate” e “Ogni barlume di speranza emerso in passato tra i produttori di beni strumentali è svanito“.
Merz lo ha toccato con mano quando, il mese scorso, è andato alla riunione annuale di un’altra associazione di categoria, la VDMA: con 3600 associati, rappresenta la più grande e influente organizzazione dell’industria dei macchinari della Germania e di tutta l’Europa, un luogo dove i leader conservatori si sono sempre sentiti a casa. Ma non questa volta: “Sembra di essere 30 metri sottoterra”, ha dichiarato tetro Merz quando è salito sul palco. Era stato redarguito a dovere: “Il clima nel nostro settore non è solo teso. Siamo infuriati e delusi” aveva tuonato, pochi secondi prima, il presidente Bertram Kawlath; “Gli imprenditori siedono accanto ai loro dipendenti e sono costretti ad annunciare tagli dei posti di lavoro, mentre la politica rimanda le riforme necessarie”. L’economia tedesca “è impantanata nel più lungo periodo di stagnazione dalla seconda guerra mondiale”: “piccole correzioni non sono più sufficienti”; dovete dimostrare che “questo governo sa davvero agire”. Tradotto: dovete dire chiaramente che state dalla parte delle imprese, e non del lavoro.
E gli effetti si cominciano a sentire; la grande stampa ha lanciato la sua campagna: Una nazione di fannulloni? titola il Financial Times. Bisogna terminare il lavoro iniziato da Schroeder e Merkel: fare il mercato unico europeo – che, ovviamente, non significa far diventare i lavoratori greci come quelli tedeschi, ma esattamente il contrario, comprese le 13 ore di lavoro al giorno recentemente approvate ad Atene; non è detto che i lavoratori tedeschi lo accettino con serenità. Durante le ultime elezioni comunali nella Renania Settentrionale-Vestfalia, che è lo Stato più popoloso della Germania, tutti gli occhi erano puntati sulla potenziale esplosione elettorale dell’AfD: la crescita c’è stata, ma molto al di sotto delle aspettative; quello che, invece, nessuno ha segnalato è che, nel frattempo, c’era un’altra forza politica che era cresciuta considerevolmente. Die Linke si presentava per la prima volta dopo la scissione del partito della Wagenknecht; se sommiamo le due formazioni nelle principali città rispetto al 2020, il dato è eclatante: a Duisburg sono passati dal 5,5 a oltre l’8%, a Dusseldorf dal 4 all’8, a Dortmund dal 5,6 al 10, a Colonia dal 6,5 a poco meno del 13.
Invece che piangersi addosso, sarebbe il caso di partire da qui e non darsi per vinti prima ancora di giocare la partita: dalla Germania all’Italia, per non dargliela vinta a tavolino ancora prima di giocare la partita, ci sono da ricostruire tante cose; tra queste, in cima alla lista, un vero e proprio media che, invece che ai ai sacerdoti dell’austerità, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Matteo Salvini
FONTE:https://ottolinatv.it/2025/10/22/la-germania-precipita-e-si-porta-dietro-tutta-europa/





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