Pasolini senza
di LA FIONDA (Onofrio Romano)

È difficile avventurarsi nell’opera di certi monumenti, di certi classici contemporanei come Gramsci o, appunto, Pasolini. Non tanto per la complessità teorica, quanto per la loro eccessiva presenza. Sono figure che continuano a riverberare, a riempire il campo visivo con un bagliore che disturba la vista. Di Pasolini si è detto tutto e il suo contrario, eppure resta qualcosa di inassimilabile, di non digerito. La sua opera, sterminata, sembra espandersi all’infinito, come se ogni parola, ogni film, ogni articolo non facesse che aprire un nuovo cratere di senso. In poco più di vent’anni egli ha prodotto una quantità di testi e immagini tale da sfidare qualsiasi tentativo di catalogazione. Era un grafomane e insieme un “poli-grafo”: adoperava tutti i linguaggi, sperimentava ogni registro, cercando una verità che nessuna forma poteva contenere. Romanziere, poeta, cineasta, pittore, editorialista, saggista: ogni veste gli stava addosso come una camicia strappata. Di fronte a questo magma, la critica ha costruito un monumento di carta — un’enorme macelleria filologica, direbbe Carmelo Bene — che non ha fatto che moltiplicare il rumore intorno alla sua figura. Franco Cassano suggeriva di concedere una tregua riflessiva a Pasolini, lasciar decantare il suo pensiero, permettere al tempo di separare l’essenziale dal superfluo. Ma quella tregua non è mai arrivata: Pasolini continua a pulsare come una ferita aperta nella coscienza italiana.
Eppure, il paradosso è che quest’uomo così prolifico risulta, a suo modo, illeggibile. Le sue opere, considerate una a una, sembrano fragili, persino mediocri. La poesia di Pasolini, per molti versi, è povera, vicina alla prosa d’arte, come diceva Fortini, ossia un cascame della tradizione letteraria italiana; i suoi romanzi, disordinati e a tratti sgraziati; i film, spesso inguardabili, non per lo scandalo che producevano ma per virtù di goffaggine. Di Pasolini si potrebbe dire quel che Carmelo Bene diceva di sé: “del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”. Incarnava quel singolare paradosso per cui l’intelligenza, l’intuizione, la potenza dello sguardo eccedono ogni possibile traduzione artistica. Il suo genio, insomma, non poteva alienarsi in un’opera: traboccava dai margini, erompeva, lasciando solo macerie simboliche, graffi, frammenti, segnali. Le sue opere non sono mai compiute: sono indizi, tracce di un pensiero che non riesce a diventare forma. E tuttavia, proprio in questa sproporzione, in questa impossibilità di incarnarsi compiutamente, risiede la sua grandezza. In un tempo saturo di talenti senza genio — di opere impeccabili e vacanti (come certi ricci di mare), di prodotti perfetti e senza nocciolo — la mancanza di forma di Pasolini è una benedizione.
Difficile parlare di un autore senza opere, eppure così traboccante di visioni. Difficile, anche, collocarlo. Come osservatore della società, Pasolini agiva all’inverso di ciò che prescriverebbe la metodologia delle scienze sociali. Il suo sguardo non era neutrale, non era analitico: era radicalmente partecipe. Per lui la conoscenza del mondo passava attraverso l’amore per il mondo. Non si può comprendere ciò che non si ama, sosteneva; ma per un sociologo — o per chiunque creda nel distacco come condizione di verità — questa è un’eresia metodologica. Pasolini non osservava: partecipava. Non sezionava: sentiva. Guardava la realtà con una sim-patia viscerale, con uno sguardo che penetrava nei corpi, nei volti, nei gesti. Quando parlava di “mutazione antropologica”, non intendeva solo una trasformazione dei costumi o dei valori, ma una metamorfosi fisica: la scomparsa di volti umani, delle facce segnate dalla fatica, rimpiazzate da maschere levigate e truccate della società dei consumi. La sua repulsione per la nuova umanità plastificata non era un giudizio morale: era una reazione estetica, quasi carnale.
Per questo, sul piano metodologico, Pasolini è inaccettabile e, al tempo stesso, indispensabile. La sua soggettività gli impediva di essere uno studioso, ma gli permetteva di essere un veggente. Nel suo sguardo parziale, ferito, innamorato, si apriva la possibilità di vedere oltre — di scorgere ciò che la sociologia, accecata dal piccolo cabotaggio neutralista, non poteva vedere. Pasolini, invece, vedeva la società italiana mutare nella sua carne, e con essa intravedeva il destino dell’Occidente: la dissoluzione dei legami, la fine della diversità, l’omologazione del desiderio. Molti sociologi continuano ancora oggi a rincorrere quei fenomeni che lui aveva già intuito con l’intelligenza di chi sente prima di capire.
Nel suo modo di guardare il mondo, si possono distinguere due fasi: una “materna” e una “paterna”, come ha scritto Gianfranco Ferretti. La prima, quella degli anni giovanili, è un’esaltazione della vita contro le forme, della natura contro la Storia e le istituzioni. Pasolini vede nella vitalità popolare, nel corpo e nel desiderio, una forza sovversiva capace di rovesciare l’ipocrisia borghese e l’ordine del discorso imposto dal potere. La sua poesia e il suo cinema di quegli anni — da Accattone alla cosiddetta “trilogia della vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte) — sono inni alla carne redenta di una povertà felice, alla vitalità che sgorga dai margini, dalle pieghe della società. Ma già qui si manifesta la tensione insanabile tra la sua ispirazione e la sua appartenenza ideologica. Marxista, Pasolini non riesce a credere fino in fondo nella Storia: ne Le ceneri di Gramsci parla al padre nobile del Partito comunista dandogli del tu (e beccandosi, per questo, i rimbrotti di Fortini), rimproverandogli di essere rimasto nella Storia, mentre lui sceglie la Natura, l’immutabile, la vita che resiste al divenire. Cassano lo designerà per questo come un “intellettuale meridiano”: uno che, pur nato nel profondo Nord, portava in sé la luce obliqua e struggente del Sud, quella che privilegia la lentezza, l’attaccamento al corpo, la fedeltà al limite.
E tuttavia, Pasolini non abbandona mai del tutto la Storia. Rifiuta l’idea di ritirarsi, di sottrarsi, di fondare comunità alternative. Persino come omosessuale, rifiuta di auto-relegarsi in una nicchia identitaria. Non vuole vivere all’ombra (come il suo antagonista poetico, Sandro Penna): vuole portare la sua colpa, la sua diversità, dentro le istituzioni, dentro il partito, dentro la Chiesa, dentro il mondo. Per questo può scrivere che “le istituzioni sono commoventi”: non perché innocenti, ma perché, nonostante tutto, restano luoghi in cui gli esseri umani si incontrano, si riconoscono, trovano protezione. Pasolini difende la vita contro le forme, ma anche dentro le forme.
Poi viene il 1968, e con esso la metamorfosi. Pasolini, che aveva sempre voluto essere figlio, si scopre costretto a diventare padre. Di fronte alla rivolta giovanile, che sembrava portare avanti la sua battaglia per la liberazione del desiderio, egli si schiera, scandalosamente, con la polizia. Non per reazione, ma per intuizione. Capisce che quel desiderio, ormai, non è più forza di rottura ma ingranaggio del potere. Il nuovo potere non reprime, seduce; non vieta, invita; non disciplina, stimola. È la logica biopolitica che Foucault avrebbe analizzato: il dominio che si esercita non contro la vita, ma attraverso la vita stessa, moltiplicandone i bisogni e i desideri. La modernità, scopre Pasolini, non è più il tempo della repressione, ma quello dell’eccitazione infinita. Il desiderio, anziché opporsi al potere, lo alimenta. La ribellione diventa complicità. È tempo di abiurare apertamente la “trilogia della vita”.
Da qui il capovolgimento: la tradizione, il sacro, le istituzioni — un tempo simboli di oppressione — diventano per Pasolini gli ultimi avamposti di resistenza contro l’entropia del consumo. L’ordine, il dovere, perfino la disciplina, appaiono come forme di difesa contro la dissoluzione. Quando Pasolini esalta il carabiniere che si uccide per non aver custodito il suo prigioniero, non celebra l’obbedienza: celebra la fedeltà a un legame, a una forma che ancora trattiene la vita dal precipitare nel nulla.
Questo passaggio segna la fase “paterna” del suo pensiero: la consapevolezza tragica che non si può più stare soltanto dalla parte della vita. La vita, lasciata a se stessa, diventa consumo, dissipazione, godimento cieco. Il vero progresso non è accumulare libertà, ma assumerne la responsabilità. Pasolini continua a credere nel progresso, ma non nello sviluppo. Lo sviluppo è quantità, è produzione di bisogni, è moltiplicazione dell’uguale. Il progresso è coscienza, è l’atto di riconoscere i propri limiti. In questo senso, la frase che il compianto Paolo Bonacelli, nei panni dell’aguzzino, pronuncia in Salò — “noi fascisti siamo i soli veri anarchici” — diventa la sintesi del pensiero pasoliniano: il potere e la liberazione sono destinati a convolare a giuste nozze, a confondersi, a scambiarsi di posto.
Pasolini muore prima di vedere la piena realizzazione di ciò che aveva intuito. Ma la sua visione ci consente di affilare meglio la diagnosi del passaggio dal modello socialdemocratico al modello neoliberale. Quello che la maggior parte dei sociologi ha letto come un processo di liberazione — la fine delle costrizioni, la crisi delle istituzioni, l’individualismo come trionfo della libertà — Pasolini lo avrebbe interpretato come un rovesciamento regressivo. Non il passaggio da una società che reprime a una società che libera, ma il crollo di una società realmente liberata, quella del welfare, sostituita da un ordine che riduce la libertà a consumo e la dignità a precarietà. La precarizzazione non è un effetto collaterale del capitalismo avanzato, ma il suo progetto: il mezzo attraverso cui il potere riporta i soggetti all’obbedienza, concedendo loro in cambio la libertà di autodistruggersi. In questo senso, la nostra epoca è la conferma della sua profezia: una società di individui formalmente liberi, ma incapaci di scegliere; saturi di diritti, ma privi di orientamento; emancipati, ma senza più un’idea di felicità che non coincida con il mercato.
L’ultimo scritto di Pasolini, il discorso mai pronunciato al congresso del Partito Radicale, contiene forse la sua intuizione più scandalosa. Dichiara di amare coloro che non hanno la consapevolezza dei propri diritti. Non per masochismo, ma perché in quella inconsapevolezza sopravvive ancora una forma di alterità. I diritti, quelli civili in particolare, diventano per lui il segno dell’assimilazione definitiva: i subalterni che ottengono il diritto di vivere come i dominanti non si emancipano, si integrano. Rinunciano alla possibilità di un’altra vita, di un’altra idea di felicità. L’uguaglianza, così intesa, è una vittoria del potere, non dei dominati. È il compimento dell’omologazione. Pasolini intuisce ciò che la sinistra, allora come oggi, fatica a vedere: che non ogni progresso è emancipazione, e che una società può essere piena di diritti e, al tempo stesso, svuotata di senso.
Per questo la sua disperazione è così attuale. Pasolini smonta l’illusione provvidenzialista del marxismo — l’idea che lo sviluppo delle forze produttive porterà naturalmente alla società liberata. Non c’è automatismo nella storia, non c’è redenzione nella crescita. L’accelerazione non emancipa: uniforma. E noi, inseguitori della Storia, finiamo per accettare un modello di vita senza alternative, una felicità prefabbricata. Quando, nel 1975, Accattone viene riproposto in tivvù, Pasolini ci avverte che il suo mondo è morto. Le borgate che aveva amato non esistono più, le facce che aveva filmato sono state cancellate. Il sottoproletariato è diventato piccolo borghese. Il genocidio antropologico che aveva annunciato si è compiuto. Quel film è diventato realmente“inguardabile”.
Il pensiero di Pasolini non offre soluzioni, e forse è proprio questo il suo lascito più autentico. È un pensiero tragico, privo di consolazioni. Non indica una via d’uscita, ma la necessità di restare nella contraddizione. La tensione tra vita e forma, tra natura e storia, non si risolve: si attraversa. E in questo attraversamento sta l’unica forma possibile di resistenza. Non smettere di agitarsi. Non smettere di pensare, di disturbare, di denunciare le nuove forme del potere, anche quando sembrano benevole, anche quando si travestono con gli abiti della libertà.
Molti hanno tentato di rendere edificante la sua lezione. A conclusione del suo libro su Pasolini, Recalcati afferma che accanto al “fantasma dell’origine” (ossia il legame “uniano” e annichilente con la madre) c’è il Pasolini del desiderio che invece ci conduce verso un “mondo migliore” e una vita più piena. Egli scorge questa traiettoria in Teorema (un altro aborto di film): il bellissimo ospite inatteso che piomba nelle vite di questa famiglia iper-borghese sarebbe un fattore di fecondazione del “desiderio” di ciascuno dei suoi componenti (cameriera compresa). Le sue sollecitazioni sessuali e amorose lasciano il segno e, quando all’improvviso va via, ciascuno intraprende una sua strada per ribaltare il modello di vita borghese e insensata in cui era invischiato. È difficile comprendere in quale senso si darebbe questa sorta di liberazione. La si potrebbe leggere completamente al contrario: quello cha accade è che ciascun componente della famiglia va a infrangersi a modo suo. La figlia impazzisce e viene ad essere prelevata dagli infermieri in auto-ambulanza; il figlio si mette a orinare sulle tele che egli stesso dipinge; il padre, dopo essersi letteralmente denudato di tutti i suoi beni in un delirio di francescana generosità si mette all’inseguimento di un giovane ragazzo da concupire; la madre si dà alle orge coi ragazzi di vita; la cameriera ritorna ad una sorta di mondo magico contadino, dove qualcuno prende a levitare come il santo cretino di Carmelo Bene (Giuseppe Desa da Copertino). È, insomma, molto fantasioso intravedere qualcosa di edificante in queste derive. Tutto finisce un pura dépense. Anche Franco Cassano, a conclusione del suo bellissimo saggio su Pasolini, ci invita a fare un buon uso “progressista” dei richiami al sacro e alle istituzioni formulati da Pasolini, ma non si capisce davvero come e con quale dosaggio.
La verità è che Pasolini ci consegna un mondo senza uscita, e che la sua stessa fine tragica ne è il sigillo. Ma in quella disperazione resta un insegnamento: la lucidità come ultimo atto d’amore. Vedere la rovina senza distogliere lo sguardo, sentire la fine e tuttavia continuare a cercare nella cenere un residuo di vita, un gesto umano, un volto. In questo sguardo, che è insieme empatico e spietato, si cela forse la sua ultima forma di pietà.
Pasolini è, in fondo, il nostro contemporaneo più radicale perché è il più irriducibile. Ci ricorda che il pensiero non serve a pacificare, ma a ferire. Che la critica non deve consolare, ma riaprire la ferita. Che la libertà, quando diventa forma, rischia di morire; ma che senza forma, la vita si disperde. In questo equilibrio impossibile tra carne e parola, tra innocenza e sguardo lucido, si consuma la tragedia della modernità. E Pasolini, profeta senza tempio, vi abita ancora.





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