Filosofie dell’anticonformismo
DA LA FIONDA (Di Marco Scognamillo)

È noto che il motto “L’unica regola è che non ci sono regole” è il motto dell’anti conformismo. È possibile che, dietro a uno slogan così scialbo, si possano isolare le correnti filosofiche che conducono alla disgregazione del rapporto sociale, alla conflittualità con l’alterità e alla precarizzazione dell’identità?
Proviamo a isolare quattro correnti di pensiero: scetticismo, relativismo, soggettivismo e individualismo. Lo scetticismo e il relativismo isolano la soggettività rendendola detentrice di una verità personale, inaccessibile e perciò insindacabile, declinandosi in soggettivismo e individualismo per la loro realizzazione sociale. È dal clima generato dalla combinazione di queste quattro che sorgono meritocrazia e anticonformismo.
A fondamento di tutta l’impalcatura teoretica vi sarebbe lo scetticismo, il quale, preso nella sua declinazione più radicale, afferma che non esiste alcuna verità. La verità non è un problema, perché la verità stessa non esiste. D’altra parte, si potrebbe obiettare, una tesi scettica meno impegnativa a sostenersi è quella metodo-epistemologica, per cui la verità esiste, ma non saremo mai in grado di conoscerla o per un limite teoretico o per l’inadeguatezza degli strumenti che adoperiamo. Eppure, uno scetticismo simile si pone ancora il problema della verità e potrebbe sposare una tensione asintotica verso di essa, un continuo tentativo di avvicinarvisi, pur nella ferma consapevolezza che non raggiungerà la meta. Come si accennava, ciò è meno problematico e forse non può nemmeno dirsi propriamente scetticismo: per fare un esempio, il noumeno kantiano è teoreticamente inaccessibile, eppure Kant non si annoverava fra gli scettici. Insomma, lo scetticismo epistemologico potrebbe avere una certa utilità, come del resto lo stesso Kant sostiene a più riprese nella Critica della ragion pura: pretendendo una scepsi approfondita sulla modalità di acquisizione del dato, si procederebbe con cautela a qualunque riflessione su di esso e metterebbe in guardia verso ragionamenti o procedure frettolosamente e indebitamente accettati. Quindi, escluderei questa e simili attenuazioni dello scetticismo e mi soffermerei sulla sua accezione più radicale, quella metafisico-ontologica. Tuttavia, lo scetticismo radicale è impossibile a sostenersi teoreticamente, come già abbondantemente dimostrato dalla critica filosofica. Che non esistano verità ha, infatti, la pretesa di essere una verità. Di conseguenza, lo scettico cade in autocontraddizione, negando però al contempo qualsiasi alterità, ad eccezione di sé: la coscienza scettica dovrebbe esprimere un gradiente di verità eccezionale rispetto a quello di tutte le altre coscienze. L’alterità è nel falso, mentre la soggettività nel vero. La negazione di questo rapporto con l’alterità è descritta da Hegel nella Fenomenologia dello spirito in chiusura alla riflessione sullo stoicismo, nel capoverso immediatamente antecedente a quello sullo scetticismo:
“Questa coscienza pensante [la coscienza stoica], così come essa si è determinata, in quanto libertà astratta, è dunque soltanto la negazione ancora imperfetta dell’essere-altro.”[1]
La realizzazione perfetta di questa negazione è, appunto, la coscienza scettica, una negazione radicale di qualunque pretesa di verità avanzata dall’alterità.
Ora, essendo una contraddizione immanente, ossia interna allo scetticismo stesso, affinché la coscienza scettica ne prenda consapevolezza, non è necessaria un’alterità che se ne faccia portavoce. La proposizione che esprima la contraddizione sarebbe una verità di un’alterità che peraltro lo scettico negherebbe. Egli può trovare in sé la propria contraddizione. Questa si gioca su due polarità: da una parte l’universalità della negazione della verità, dall’altra la particolarità che la coscienza scettica rappresenta di fronte alla verità universale che lei stessa sostiene. Per venirne fuori può compiere due mosse: o ridurre l’universalità della tesi alla particolarità della coscienza, oppure estendere universalmente l’eccezionalità della propria condizione. Se si percorre la prima strada, la verità scettica è peculiare della coscienza che la esprime. In tal senso, però, diventa accidentale. Perciò, ogni coscienza può avere la sua verità. Percorrendo la seconda, si arriva direttamente a questo risultato: se ogni coscienza è eccezionale, allora ciascuna ha la sua verità. In entrambi i casi, la verità viene rapportata alla soggettività e a questa relativizzata. Il risultato finale è peraltro lo stesso: lo scetticismo trapassa nel relativismo.
È peraltro possibile ribaltare il ragionamento: dal relativismo può essere dedotto lo scetticismo. Infatti, Husserl si esprime in questi termini:
“se questo è vero, se qualsiasi cosa che viene caratterizzata come “vera”, come “necessaria”, come “legge”, “dato di fatto” o in qualsiasi altro modo, riceve una simile caratterizzazione solo nel mio “rappresentare”, […] allora non ha senso ipotizzare un essere in sé, cioè qualcosa che si presume sussista, indipendentemente dal fatto di essere rappresentato o meno.”[2]
Così, lo scetticismo si dissolve nel relativismo e viceversa: l’uno conclude che tutto è vero, l’altro che nulla lo è. Per il relativista esistono tante verità quanti sono i soggetti, ciascuno dei quali professerà la propria. Eppure, se un soggetto afferma qualcosa e un altro ne afferma l’esatto contrario, ci troveremmo in una situazione assai spiacevole: se vale “a” non può contemporaneamente valere anche non “a”, a meno che non si vogliano eliminare i principi di identità e quello di non contraddizione, come già Platone aveva affermato a suo tempo nel Teeteto in risposta ai primi relativisti, lì rappresentati da Protagora.
Sebbene il relativismo sia meno netto dello scetticismo, forse più sofisticato, più aperto all’alterità, comunque degrada la verità e la riduce a uso e consumo del soggetto. Tuttavia, se lo scettico era in autocontraddizione, il relativista lo è esclusivamente nel rapporto con l’alterità. È l’altro che deve dire al relativista che ha torto perché la crisi abbia inizio. La relazione relativista-alterità assume connotazioni conflittuali, perché l’alterità potrebbe da un momento all’altro riproporre la contraddizione entro cui il relativista vive. Pertanto, anche conservando al relativista quell’apertura verso l’alterità che lo distingue dallo scetticismo, e ammesso, ma non concesso, che il relativismo sia la conditio sine qua non ogni inclusione e ogni sano confronto, come alcuni sostengono, prima o poi il rapporto con l’alterità è destinato a incrinarsi o, almeno, a risentire di quella latente conflittualità verso l’alterità.
Il risultato del relativismo, dunque, è un rapporto conflittuale con l’alterità, colpevole di poterne minare le fondamenta. Da qui prendono le mosse tanto il soggettivismo quanto l’individualismo. Avendo il soggetto un’importanza capitale, egli è detentore della verità, l’unica accettabile. Così, la soggettività non tratta con l’alterità da pari a pari: l’alterità deterrà la propria verità, che la soggettività non può accettare in quanto differente dalla propria. Non solo, ma l’alterità sarà incapace di comunicarla, perché il mondo da essa esperito è ontologicamente incompatibile con quello del relativista, e viceversa. Soggettività e alterità sono incommensurabili. Allora la soggettività è preminente rispetto all’alterità. Questa, tuttavia, conserva ancora il potere di ripresentare al relativista l’intima contraddizione che porta in sé e, per questa ragione, il relativista vi guarda con terrore e sospetto. Ecco la conflittualità che si trasforma in individualismo: l’io esige di prevalere sul noi per ridurre il tu al silenzio. Passare da questo punto all’anticonformismo è quasi immediato.
Se moralmente per verità intendiamo una qualsivoglia regola, una proposizione insomma che affermi la correttezza o la giustizia di un comportamento, è facile intuire quanto l’anticonformismo sia interpretabile entro il quadro appena tracciato. La proposizione “L’unica regola è che non ci sono regole” o l’analoga “Ciascuno abbia la sua regola” rispondono rispettivamente a una logica scettica, per cui “L’unica verità è che non esistono verità”, e a quella relativista per cui “Ciascuno ha la sua verità”. Anzi, a essere più precisi, l’anticonformismo non potrebbe concepirsi, strutturarsi e realizzarsi all’infuori di uno scenario di questo tipo.
Al che, quando una soggettività anticonformista che porta in sé queste premesse decide di determinarsi entro una categoria, non può rimanerci a lungo, proprio perché, in quanto categoria, dev’essere governata da una regola, la quale è esclusa al contempo da quella sociale di riferimento. Allora, dismessi i panni di questa prima identità, la soggettività ne abbraccia un’altra per disfarsene poco dopo e così ad infinitum in totale solitudine. Ogni identità diventa possibile, nessuna necessaria. In questo senso, all’anticonformista potrebbe essere diagnosticata la disperazione della possibilità, di cui Kierkegaard parla ne “La malattia per la morte”:
“La possibilità diventa sempre più intensa, ma nel senso della possibilità, non della realtà; infatti, nel senso della realtà l’intensità è che qualcosa di ciò che è possibile diventi reale. Nell’istante si mostra qualcosa come possibile, poi si mostra una nuova possibilità, alla fine queste fantasmagorie si susseguono così rapidamente che è come se tutto fosse possibile, e questo è proprio l’ultimo istante, in cui l’individuo stesso è diventato in tutto e per tutto un miraggio.” [3]
Infatti, per agire, l’identità necessita di un’architettura attorno alla quale costituirsi, sia questa individuale o sociale. Per questo secondo ambito, Costa parla di “riduttori di complessità”: delle strade da percorrere per realizzarsi, già battute da altri e scoperte sicure. Senza simili riduttori, le possibilità di determinazione che la soggettività è chiamata a contemplare sono troppe. Ma l’anticonformismo nega proprio questi riduttori di complessità, sicché le possibilità esistenziali si affollano di fronte alla soggettività, incapace di gestirle tutte insieme e costretta da sé stessa a passare dall’una all’altra. La soggettività diventa un miraggio e dispera, cadendo per il suo stesso peso. “In se magna ruunt” – Pharsalia, I, 81.
La somma e la combinazione di tutto ciò disgrega le basi della comunità e impedisce la relazione al punto che ogni soggettività è incapace di dialogare con le altre: non v’è terreno comune su cui trovarsi che non venga repentinamente sottratto o demolito. Il travaglio della determinazione nell’esistenza è sopportato in solitudine: se immersi in una meritocrazia del negativo, il cui fine è la deumanizzazione degli ultimi, allora ogni concorrente guarda agli altri come possibili minacce; se nell’anticonformismo, l’altro è l’entità dalla quale prendere le distanze e differenziarsi. Il rapporto duale fra l’io e il tu fonda il noi. Questo noi, tuttavia, può darsi esclusivamente se l’io e il tu si aprono a qualcosa da condividere, un terreno in cui incontrarsi che sia accessibile a entrambi, qualcosa che tuttavia sia antecedente all’effettiva relazione. Il duale io-tu e il noi si co-fondano. La relazione è triadica[4]. Laddove non si diano le condizioni affinché questo terreno sussista, laddove una delle parti neghi l’accesso all’altra, ecco che il noi non può costituirsi e, perciò, nemmeno il rapporto che lo richiede quale precondizione. Scetticismo, relativismo, soggettivismo e individualismo, realizzatisi nell’anticonformismo, impediscono la condivisione e l’istituzione del noi, gettando le soggettività in una solitudine radicale. Non solo, ma anche l’identità è messa in pericolo e precarizzata: a venir meno non è solamente il noi, bensì anche l’io, incapace di strutturarsi stabilmente.
Sfibratasi la relazione e venute a mancare le condizioni fondamentali di una qualsiasi società, ciò che si prospetta è un aggregato informe e conflittuale di individualità vuote in lotta fra loro, incapaci di dialogare, perché afasiche e sorde. Un simile aggregato non potrà che giovare agli esponenti dell’ordine capitalista, quell’ordine al quale Costa imputa la produzione di ansia in quantità industriali presso la popolazione e che, come si diceva, l’anticonformista voleva abbattere attraverso la lotta al grigiore della vita monotona del borghese medio.
[1] La fenomenologia dello spirito, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, ed. Einaudi a cura di Gianluca Garelli, p. 140
[2] Husserl, Erste Philosophie (1923/24) (Husserliana 7, 1956); trad. it. Storia critica delle idee (Piana, 2013); cfr. anche Venier 2019
[3] La malattia per la morte, Søren Kierkegaard, ed. Feltrinelli a cura di Ettore Rocca, 2024
[4] Tesi per un’ontologia trinitaria, Klaus Hemmerle, ed. Città nuova, 2021
FONTE: https://www.lafionda.org/2025/12/09/filosofie-dellanticonformismo/





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