Danilo Zolo: L’alternativa mediterranea
Giurista e filosofo, Danilo Zolo (nato nel 1936) ha fondato e dirige il Centro per la filosofia del diritto internazionale e delle politiche globali Jura Gentium. Insieme al sociologo Franco Cassano ha curato il volume collettaneo L'alternativa mediterranea (Feltrinelli, 2007).
C’è un elemento che dal punto di vista storico-ecologico unifica il Mediterraneo e lo distingue da ogni altra area geografica: è la rara coesistenza fra un ambiente naturale nel quale le comunicazioni umane si sono agevolmente sviluppate lungo le sponde marine e una topografia costituita da nuclei sociali di ridotte dimensioni, dislocati e frammentati lungo le coste e nelle isole. La singolarità orografica, il clima temperato e una vegetazione particolare – la vite, l’ulivo, gli agrumi – hanno fatto del Mediterraneo uno spazio ecologico che per millenni ha favorito, lungo tutte le sue sponde, la formazione e la stabilizzazione di strutture abitative, di colture rurali e di sistemi commerciali spazialmente dislocati e frammentati, ma nello stesso tempo in stretta comunicazione fra loro. L’intensità delle relazioni comunicative, dei travasi culturali, dei rapporti commerciali, degli incroci demografici e degli scambi più diversi, inclusi i conflitti, le guerre, le crociate e le scorrerie piratesche, hanno contribuito a forgiare una solida koiné culturale e civile. Lo sviluppo della cultura europea, a cominciare dalla eccezionale esperienza di Al-Andalus, si è intrecciata con la tradizione coranica. Queste radici comuni non sono state divelte neppure dai più aspri antagonismi e hanno prodotto frutti ricchissimi. Basti pensare che l’area mediterranea vanta la più grande concentrazione artistica del mondo.
Oggi il fenomeno coloniale è solo formalmente esaurito. In realtà, in particolare dopo il collasso dell’impero sovietico e l’emersione dello strapotere degli Stati Uniti d’America e dei suoi più stretti alleati europei, assistiamo a forme di neo-colonialismo particolarmente aggressivo che investono in particolare i paesi arabo-islamici. E questo accade nel contesto dei processi di globalizzazione che in larga parte coincidono con il progetto occidentale di egemonia globale sul piano economico, politico e militare. Lo Stato di Israele è l’architrave di questo colonialismo perdurante che occupa militarmente e domina un’area cruciale del Medio Oriente arabo-islamico. Nel frattempo sono i processi di globalizzazione economica guidati dalle massime potenze economiche del pianeta a produrre, con le crescenti sperequazioni economico-sociali che generano su scala planetaria, le grandi migrazioni verso Occidente.
Superato il bipolarismo, la NATO si è convertita in un apparato bellico di portata globale ed è stata utilizzata dagli Stati Uniti per tre finalità strategiche: anzitutto per accerchiare la Russia, arruolando nelle proprie fila un numero crescente di paesi dell’Est europeo da agganciare al baluardo atlantico della Turchia. In secondo luogo, la NATO è stata usata per coinvolgere l’Europa nelle ‘guerre umanitarie’ nei Balcani e in Afghanistan, in modo da scoraggiare i suoi timidi tentativi di dotarsi di una struttura militare autonoma. Last but not least, la NATO ha consentito agli Stati Uniti di tenere sotto il proprio presidio politico e militare l’area mediterranea, escludendone l’Europa. A quest’ultimo obiettivo obbedisce in particolare il disegno strategico intitolato Broader Middle East and North Africa Initiative (BMNA), varato dall’amministrazione Bush nel giugno 2004 e subito accolto dalla NATO. A favore della “modernizzazione” del mondo islamico e in nome dei “valori universali della dignità umana, della democrazia, dello sviluppo economico e della giustizia sociale” gli Stati Uniti intendono porre sotto il proprio controllo l’intera area che va dalla Mauritania e dal Marocco – dove hanno interessi petroliferi e già dispongono di numerose basi militari – all’Afghanistan e al Pakistan, passando per il Medio Oriente e i paesi del Golfo persico. Israele è pensato come l’architrave di questa strategia ‘atlantica’ e anti-mediterranea, mentre la questione palestinese resta del tutto emarginata.
Il sionismo, grazie al sostegno militare ed economico – tre miliardi di dollari all’anno – degli Stati Uniti e all’omertà dell’Europa, ha fatto dello Stato di Israele una sorta di ‘cuneo atlantico’ nel cuore del Mediterraneo, ha lacerato la continuità umana, politica e culturale della sua sponda orientale, ha cancellato l’identità di un popolo mediterraneo, trasformandolo in una massa di rifugiati, di epurati e di oppressi. Per questo la ‘questione della Palestina’ è una questione mediterranea e la soluzione non può essere cercata se non nella direzione del ‘post-sionismo’. E questo non può che significare, anzitutto, come auspicava Martin Buber, l’abbandono del carattere etnocratico dello Stato israeliano, la sua piena secolarizzazione e democratizzazione. E comporta, ancora con Buber, l’abbandono dell’idea dei ‘due Stati per due popoli’, quello ebraico e quello islamico, l’uno giustapposto all’altro. L’idea che oggi sia ancora possibile la formazione di uno Stato palestinese è patetica illusione o crudele impostura, nonostante il suo grande valore simbolico, le giuste aspettative della maggioranza dei palestinesi e il suo pieno fondamento nel diritto internazionale. Gli effetti della discriminazione etnica sono ormai irreversibili: mai uno Stato palestinese degno del nome sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, altamente problematica ma senza alternative, è quella di uno Stato israelo-palestinese ‘post-sionista’, laico ed egualitario, che riconosca eguali diritti a tutti i suoi cittadini.
L’unità, l’originalità e la grandezza civile del ‘pluriverso’ mediterraneo sono un patrimonio storico e politico che oggi rischia di essere cancellato, sopraffatto com’è da strategie ‘oceaniche’ – universalistiche e ‘monoteistiche’ – che minacciano non solo la convivenza fra i popoli mediterranei, ma anche l’ordine e la pace internazionale. Per ‘alternativa mediterranea’ si può dunque intendere il tentativo di resistere, facendo leva su un recupero della tradizione e dei valori mediterranei, alla deriva universalistica e ‘monoteistica’ che viene dall’Occidente estremo – gli Stati Uniti d’America – e si abbatte con violenza sul vecchio mondo. L”alternativa’ è denunciare e contrastare il fondamentalismo neo-imperiale – aggressivo e bellicista – che si propone di recidere ogni rapporto fra le due rive del Mediterraneo, subordinando l’Europa allo spazio atlantico e sottoponendo il mondo arabo-islamico ad una crescente pressione politica, economica e militare. È il caso di aggiungere che l’idea di una ‘alternativa mediterranea’ che qui è stata tratteggiata si ispira alla scuola di Algeri e alla lezione braudeliana non solo per il rifiuto di ogni riferimento unilaterale e apologetico alla tradizione romana e cristiano-cattolica, ma anche per la diffidenza ‘realista’ verso una visione nostalgica o romantica del Mediterraneo. La mitologia dell’età dell’oro greco-romana finisce per applicare il paradigma ‘orientalista’ al Mediterraneo stesso, facendone un prezioso fossile della protostoria occidentale, senza prospettive se non quelle del piccolo cabotaggio turistico-commerciale.
Intervista raccolta da Alain de Benoist, Éléments, 129 (Été 2008), pp. 26-32 e pubblicata in italiano sul sito “Jura gentium”.
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