Il 30 novembre 1999 cinquantamila persone, sfilando nelle strade di Seattle, manifestarono per la prima volta contro la conferenza dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio che si stava svolgendo nella città americana. Alcuni pensarono subito – magari sulla scia di Morin o di Ramonet – che tale evento, considerato più o meno legittimamente l’atto di nascita del movimento chiamato no global (o, meno spesso, new global), avrebbe segnato il punto di svolta della storia, l’avanguardia di una nuova epoca.
Si trattava di un’illusione infantile, di quelle che avrebbero fatto sorridere maestri di realismo come gli storici greci e latini e i loro allievi Machiavelli, Leopardi, Nietzsche, per i quali il tempo è un cerchio in cui le cose ritornano incessantemente e il Progresso in senso assoluto non esiste.
A Seattle, osservava a quell’epoca il «Corriere della Sera», alcuni attivisti erano mascherati. L’uso della maschera può essere il sintomo di un bisogno elementare, primordiale di palingenesi che investe sia la società e la politica sia l’io. Ma in questo caso non ci trovavamo al cospetto di una rivoluzione che puntasse direttamente al cuore dell’individualismo moderno e della sua massima emanazione, il progetto di omologazione universale attuato dall’oligarchia finanziaria e dalle multinazionali.
Quindici anni dopo, oggi, sappiamo che quelle maschere nascondevano il vuoto, l’impossibilità di dare forma e contenuto credibili a una protesta vaga e velleitaria, a un mosaico baroccamente composito che comprendeva tutto e il suo contrario: nel nord del pianeta anticapitalisti, libertari, sindacalisti, verdi, neoluddisti, bakuniani, missionari e gruppi new age; nel sud, fellahin egiziani, comunità insorgenti maya, tribù dravida del Kerala.
Quindici anni dopo sappiamo con certezza che la galassia antagonista e altermondialista è soltanto il negativo fotografico, l’ombra fedele da cui sono scortati sia il globalismo sia, in fondo, il golem suo opposto speculare, creato dall’ossessione etnica che riesuma le spoglie del duca Lazar e veglia sull’Europa delle identità regionali contro gli eterni e mitologici spaventapasseri giudaico-saraceni.
Quindici anni dopo sappiamo, infine, che l’argine più autorevole al dilagare cancerogeno della glocalizzazione resta pur sempre quello rappresentato dallo Stato nazionale – incautamente dato per morto e sepolto dagli Habermas come dai Negri e dai de Benoist – nella sua qualità di garante della giustizia sociale, della laicità e del pluralismo.
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