La deriva della scuola italiana
La scuola italiana è in difficoltà; le cause della sua crisi sono nei processi sociali che si avviano dal ’68 ma conoscono una svolta radicale con la legge sull’autonomia scolastica del 1999.
Il Sessantotto investì di discredito l’esigenza della disciplina, come se fosse solo una maschera di rapporti di forza di natura classista. Disciplina significa però obbedienza e insieme materia di insegnamento: in questa congiunzione sta la sua legittimità. Viceversa, con la fine dell’obbedienza gli stessi nuclei teorici della cultura e delle scienze appaiono non come la base su cui si sviluppa ogni ulteriore ricerca, ma nozioni anacronistiche e aride. Così il Sessantotto non è mai andato al di là della subcultura. Ciò spiega l’odierna generale incapacità di riconoscere e combattere la devastazione culturale della scuola.
Negli anni ’90 la crisi della scuola prende una nuova deriva che culmina con la legge dell’autonomia scolastica: il maoismo muta nel neoliberismo. La fine dell’URSS nel 1992 apre alle grandi imprese transnazionali il mondo intero[1]; le loro lobby guidano le scelte politiche importanti, comprese quelle legate all’istruzione. Una delle più importanti, l’ERT (European Round Table of Industrialist) insiste con le burocrazie UE affinché l’istruzione sia staccata dai sistemi pubblici centrali, aperta e finalizzata al mondo del lavoro: con ciò gli industriali europei chiedono che la scuola sia estraniata dalla cultura, dalla scienza e dalla cittadinanza. L’UE fa proprie queste esigenze: la scuola mirerà a creare le condizioni della competitività delle imprese, cioè, nell’ideologia neoliberista, il taglio del salario diretto e indiretto e l’arretramento dei diritti dei lavoratori; dunque la scuola pubblica deve costare poco, perché diminuisca l’esborso di denaro pubblico, deve essere fonte di profitto privato, deve dare, anziché cultura e scienza, l’abitudine al lavoro precario.
Il mondo politico italiano, in dispregio dell’art. 33 della Costituzione, per il quale l’arte, la scienza e il loro insegnamento sono liberi, dunque non finalizzati all’impresa, si adegua alle indicazioni UE con la Sintesi Maragliano del 1997. Maragliano auspica il superamento della «cultura del posto» verso la cultura della flessibilità; a tale scopo suggerisce di trasformare la metodologia scolastica: la scuola deve fare sue le forme dell’apprendere proprio del mondo esterno; non occorrono insegnanti colti ma «testi di buona divulgazione … scritti con abilità narrativa, … pratiche di gioco, e non solo a livello elementare …, contesti didattici all’interno dei quali» l’apprendimento «sia esperienza piacevole e gratificante, … macchine della conoscenza, … strumenti multimediali», perché «non hanno affatto odore di scuola[2] … e consentono di non disperdere … forme di intelligenza intuitiva, empirica, immaginativa, assai diffuse tra i giovani».
Gli animali, senza linguaggio di parole, imparano solo per esperienza, l’uomo impara non solo per esperienza ma anche per insegnamento, ossia con la scuola: per questo ha cultura e scienza. Prospettando il superamento della scuola, Maragliano distrugge il senso dell’insegnare e raccomanda la regressione alle forme elementari di apprendimento; auspicando (per gli altri) la precarietà come stile di vita, si schiera per l’animalità del perfetto darwinismo sociale.
La riforma dell’autonomia scolastica del 1999, germinata dalla Sintesi Maragliano, rappresenta il primo passo verso l’attuazione delle esigenze neoliberiste nell’ambito dell’istruzione. Nella sua furia anticulturale l’autonomia scolastica sfigura la didattica in un rapporto di diritto privato: parla di domanda, offerta, crediti, debiti, di contratto formativo; stacca cioè l’istruzione dall’esigenza naturale di sapere.
La scuola autonoma si separa dallo stato per favorirne l’estinzione; è un’impresa che offre i suoi servizi alle famiglie come a clienti; offre alle altre imprese occasioni di profitto e si apre alle istituzioni presenti nel territorio; rifiuta tutto ciò che con la sua rigidità ricorda l’etica: la classe scompare e ogni studente diventa gestore del suo percorso scolastico, l’ora non deve essere di sessanta minuti, l’anno non deve essere diviso in metà uguali; regrediscono le materie per far posto ai progetti extracurricolari, la valutazione deve essere un pagamento trasparente e controllabile come uno scontrino.
Nella scuola dell’autonomia la cultura è mal tollerata, ormai clandestina: gli insegnanti che sanno testimoniano agli studenti un modello di vita troppo alternativo a quello piagato dalla competitività; si ostinano nella verbosità della «lezione frontale», sono refrattari alle nuove tecniche didattiche che gli aggiornatori cercano di inculcare loro. Tutto, invece, deve essere immediatamente utile: la programmazione diretta alla piccola abilità scalza l’ampio respiro del programma; tutto deve essere sempre innovato: il piano dell’offerta formativa va riformulato ogni anno; la didattica diventa un flusso di progetti che rampollano dalla creatività degli animatori dell’azienda scolastica e fecondano l’innata creatività nei discenti: la nuova generazione deve rinunciare con gioia alla sicurezza del posto fisso («Il posto fisso … che noia!» diceva ancora qualche anno fa il prof. Monti, «Il posto fisso non esiste più» gli fa eco Renzi in questi giorni), con la didattica del progetto si abituerà da subito al lavoro a progetto, cioè al destino di precarietà che incombe fuori dalla scuola. Il giudizio di qualità dell’istituto riposa sul numero dei progetti; quella che ne fa tanti piace ai dirigenti perché piace al ministero; per suscitarli quest’ultimo istituisce il fondo d’istituto; e così piace anche al sindacato, cui è attribuita la competenza di contrattare con i dirigenti la spartizione del fondo.
I progetti devono darsi un’aria di serietà; la scuola autonoma esige dai loro autori un preciso riscontro documentario dell’attività da svolgere e di quella svolta. Poiché però ogni atto didattico è ormai pensato in termini di progetto elaborato ex novo, il lavoro degli insegnanti non è più preparare la lezione, insegnare, correggere le prove e valutarle, ma, oltre all’attività di animazione, il paludamento documentario dell’accessorio. Così la scuola dell’autonomia è la scuola della burocrazia.
La scuola autonoma è anche la scuola della competitività. Con la funzione-orientamento gli istituti scolastici si dotano di un apparato pubblicitario per aumentare il numero degli iscritti. La pubblicità scolastica non può certo prospettare ai suoi ancora virtuali clienti le fatiche dell’autentico lavoro scientifico e culturale: accuratezza teorica, impegno paziente, verifiche severe, valutazioni oggettive; attrae i clienti, come voleva Maragliano, con la piacevolezza dei progetti, con la loro varietà, con la sicurezza del risultato, con l’esclusione della fatica.
La scuola autonoma mantiene le sue promesse; di anno in anno le valutazioni agli esami di stato lievitano: benché spesso di fronte a baratri di ignoranza, i commissari esterni superano in generosità quelli interni; ma prima ancora i dirigenti sono intervenuti per sfoltire i programmi, per addolcire i cerberi, per graziare i casi disperati.
In definitiva la crisi della scuola, che si imputa al tradizionalismo dei docenti, è il risultato necessario dell’autonomia scolastica: è essa che, in odio alla cultura, alla scienza e alla cittadinanza, impedisce agli insegnanti di insegnare e agli alunni di imparare – e che ci riesca piuttosto bene è quello che rilevano perfino le statistiche PISA OCSE. Oltre a escludere dalla scuola la cultura e la scienza, l’autonomia ha poi consentito di tagliare in modo brutale le spese destinate all’istruzione. Manca però ancora qualcosa alla soddisfazione dell’industrialist: privatizzare la scuola, snaturando lo stato giuridico degli insegnanti per costringerli ad allentare ogni resistenza. A colmare la lacuna arriva La buona scuola.
Poiché per colpire con più efficacia la vittima occorre prima paralizzarla col senso di colpa: La buona scuola fa degli insegnanti il capro espiatorio della crisi. Imputa loro la scarsa competitività del sistema economico italiano: anziché addestrare lavoratori a loro agio con la flessibilità, essa sarebbe fossilizzata sui saperi codificati; quindi educherebbe poeti e filologi, estranei al mondo globalizzato e inetti a raccoglierne le sfide; col risultato che le nostre aziende non troverebbero le giuste professionalità, perderebbero competitività e chiuderebbero.
«L’istruzione è l’unica soluzione strutturale alla disoccupazione», proclama il Rapporto; ma si tratta di una frase dalla fonetica problematica e sospesa a un dato molto fragile[3]. È vero che la disoccupazione italiana deriva da gravi problemi di competitività; ma i dati mostrano che dal 1992 al 1996, ben prima della Buona Scuola, la nostra economia era così competitiva da esportare capitali, e che i problemi sono arrivati dopo il 1996. Se fosse il momento di scherzare, se ne potrebbe concludere che la scuola italiana prima dell’autonomia fosse capace di raccordarsi all’impresa, di renderla competitiva così da creare occupazione, e che proprio le riforme culminate nell’autonomia abbiano distrutto queste capacità. Sarebbe però una conclusione futile, proprio come l’assunto su cui è costruito il rapporto Renzi. In realtà la decadenza dal 1996 a oggi ha ben altri motivi. Strettamente economici. La perdita di competitività e la disoccupazione, nonostante il frame che i mezzi di comunicazione diffondono, non hanno nulla a che fare con l’istruzione; e che la Buona Scuola dia per scontato il contrario è un’offesa gratuita a tutti gli insegnanti italiani.
Se volesse effettivamente assicurare competitività alla nostra economia, fermare i fallimenti delle aziende e creare posti di lavoro, Renzi dovrebbe emancipare l’Italia dalla servitù politica ed economica. Invece approfitta dell’emergenza creata col disastro economico per imporre a un popolo sbalordito cambiamenti radicali della sua Costituzione: nel suo documento «fondata sul lavoro» non è più la Repubblica democratica, ma l’istruzione. Così la Buona Scuola si affretta verso il sacrificio finale della cultura, della scienza, degli insegnanti e degli alunni all’ideologia neoliberista.
- L’istruzione viene fondata sul lavoro: non ha fini propri, ma esegue gli ordini dell’impresa privata da cui è costretta ad elemosinare i fondi che lo stato le lesina; non si gestisce in base alle esigenze sue proprie, ma per offrire occasioni di profitto. In questo modo è distrutta la libertà d’insegnamento garantita dall’art. 33 Costituzione.
- Gli insegnanti subordinati ai dirigenti e i dirigenti subordinati al ministero sono costretti alla docilità da una valutazione dei risultati didattici determinata da poteri sovrastatali, indifferente ai fini della scuola italiana, che sono la cittadinanza, la sensibilità culturale e la competenza scientifica. Anche questo lede la libertà d’insegnamento che l’art. 33 della Costituzione garantisce.
- Tutti gli insegnanti sono flessibilizzati: perdono la titolarità della cattedra, entrano nell’organico funzionale di una rete di scuole, da cui i dirigenti li chiamano secondo le esigenze del loro istituto. Inoltre possono essere obbligati a insegnare materie affini o addirittura secondarie rispetto al loro corso di studi.
- Sono inseriti in un registro nazionale in base al portfolio di competenze che rende pubblica la valutazione della loro professionalità.
- Perdono la progressione di carriera basata sull’anzianità, benché questa sia un criterio riconosciuto universalmente; nella Buona Scuola l’esperienza conta anche meno della cultura, anzi si parla con disprezzo di «invecchiamento» dei docenti italiani.
- Le somme messe in palio con gli scatti di competenza sono irrisorie: gli stipendi restano tra i più bassi d’Europa. In prospettiva ciò comporta che i giovani più brillanti eviteranno la professione d’insegnante: la Buona Scuola, come l’arma atomica, fa sentire per lungo tempo gli effetti della sua distruttività.
- La flessibilizzazione integrale degli insegnanti, l’esigenza che siano innovativi anziché colti, ne fa degli avventizi senza dignità, dunque senza autorevolezza di fronte agli alunni, in una scuola divenuta il giardino d’infanzia di Maragliano, dove si gioca per imparare; ma i ragazzi che crescono senza autorevolezza si abbandonano al gioco violento; così la scuola italiana, per ora appena sfiorata dal bullismo, divenuta buona scuola, dovrà spendere in metal detector quello non dà agli insegnanti, per arginare le stragi così ricorrenti nelle buone scuole anglosassoni.
- Gli insegnanti perdono l’uguaglianza: si formerà un’élite di virtuosi dell’aggiornamento, dell’innovazione, dell’arricchimento dell’offerta formativa, delle attività «professionali», da cui i docenti che svolgono bene il lavoro in classe saranno esclusi e valutati: guiderà la buona scuola chi ha sbagliato professione.
- A elargire i crediti agli insegnanti un comitato di valutazione di cui fa parte anche un estraneo al mondo della scuola – a riprova del disprezzo che la Buona Scuola nutre per tutti gli insegnanti e per la libertà costituzionale d’insegnamento.
- Le attività che daranno crediti, di fatto la zavorra che già oggi impedisce alla scuola italiana di funzionare come potrebbe, assumeranno un ruolo ancora più centrale e porteranno a un enorme aumento non retribuito dell’orario di lavoro.
- La costrizione degli insegnanti all’aggiornamento e all’innovazione didattica disperderà le loro energie. Infatti, aggiornamento e innovazione, centrali nel mondo del lavoro e nell’insegnamento universitario, sono marginali nella scuola: la scuola deve educare bambini, fanciulli, giovani, che hanno gli stessi problemi di psicologia evolutiva dalla notte dei tempi; deve guidarli a raggiungere competenze che riguardano non le frontiere della ricerca, dove le conoscenze sono ipotesi suscettibili di essere corrette da ipotesi innovative e solo il problem solving può soccorrere, ma i nuclei consolidati delle scienze, le loro formule codificate. I docenti non hanno il compito di accrescere la scienza, raggiungono l’optimum già solo col padroneggiare gli elementi consolidati delle discipline. La scuola è per sua natura conservatrice ed è necessario che lo resti. Tanto più che l’innovazione riduce gli alunni a cavie e scarica su di loro le conseguenze dei necessari errori cui ogni autentica sperimentazione va incontro.
- L’aggiornamento coatto diffama gli insegnanti in quanto dà a intendere a chi è estraneo alla scuola che essi abbiano finora eluso l’approfondimento della loro disciplina e del modo di porgerla, cioè che si siano sottratti all’ordinaria attività di preparazione delle lezioni.
- Un altro mito, quello dell’informatica, ignora quanto essa sia già diffusa nelle scuole: perfino il rapporto PISA OCSE del 2012 mostra che i nostri alunni risultano più capaci di risposta se i quesiti sono somministrati loro in versione informatica; ignora inoltre che in ogni caso le competenze informatiche presuppongono, non sostituiscono, quelle tradizionali: grammaticali, matematiche, scientifiche.
- L’idea di riservare lo scatto di merito ai due terzi dei docenti di un istituto non premia il merito, ma spinge i docenti ad accumulare più crediti degli altri, cioè alla competitività. Il rapporto Renzi vuole così ignorare che la competitività tra gli istituti è uno dei motivi maggiori della decadenza della scuola. Imporla agli insegnanti – un atto di fede nel neoliberismo – li mortifica e avvelena il clima scolastico, rende più difficile la collaborazione didattica, fa nascere una flora di certificazioni fasulle di crediti comprati.
- La speranza che quei docenti insicuri di conseguire lo scatto per esiguità di crediti, facendo domanda negli istituti infestati di docenti con più grave esiguità, creino una migrazione che possa uguagliare le differenze qualitative tra gli istituti, ha qualcosa di sconcertante: ammesso e non concesso che i crediti esprimano qualcosa, docenti con crediti poco sopra la mediocrità non possono fare differenza qualitativa. In realtà gli istituti si distingueranno in buoni e cattivi e, a dispetto di ogni piano di miglioramento, in virtù della pubblicità della valutazione, questi ultimi perderanno iscrizioni e chiuderanno.
- Ancora più sconcertante è il pensiero espresso nello stesso contesto, che questa migrazione di quasi sufficienti sia un fattore di coesione È difficile immaginare che gli istituti infestati dai cattivi docenti, e questi in prima fila, possano festeggiare i nuovi arrivati, venuti soltanto a contendere loro l’osso dello scatto di merito.
- Gli insegnanti con pochi crediti nel portfolio potranno essere additati come responsabili dell’insuccesso formativo degli alunni, ed essere oggetto di rivalse giudiziarie da parte delle loro famiglie. Prima o poi si aprirà per loro la prospettiva del licenziamento.
- Nel frattempo la scuola pubblica si depaupera e chiede soldi alle famiglie: gli edifici diventano cadenti, sfidano le norme di sicurezza. La visibilità di questo degrado apre spazio in Italia al fallimentare modello anglosassone: una scuola pubblica pericolante e pericolosa per la maggioranza della popolazione e scuole private di qualità, frequentabile solo dai figli di chi potrà permettersi il pagamento di alte rette.
La Buona Scuola, a dispetto del suo titolo, progetta il definitivo annientamento della dignità scientifica e culturale della Scuola Italiana. La sua realizzazione è un danno per tutti. Tutti hanno il dovere di respingerla.
Paolo Di Remigio
[1] Prendiamo queste notizie dal bellissimo blog di Roberto Renzetti www.fisicamente.net .
[2] Il neretto è nostro.
[3] Si direbbe proprio costruito ad hoc. Sulla questione cfr. l’ottimo articolo di Ferretti al seguente indirizzo: http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/08/disoccupazione-giovanile-colpa-dellistruzione-parola-di-confindustria/1147379/
Commenti recenti