La gloriosa Repubblica romana
La Villa Pamphili all’ingresso di San Pancrazio ci appare oggi, nel tepore della radiosa biondezza del maggio romano, un luogo festoso, aulente di primavera, animato da bambini che giocano, famiglie che fanno pic nic, gente che corre o fa ginnastica, innamorati che si scambiano effusioni, persone, per lo più, ignare del fatto che quel breve tratto in prossimità della cinta del Vascello, prima della biforcazione di via Aurelia Antica (nella zona che oggi i romani conoscono col nome di “Monteverde Vecchio”), poco più di 150 anni fa, fu letteralmente intrisa di sangue e teatro di una delle pagine più romantiche della storia del risorgimento italiano: quella della resistenza in difesa dell’effimera quanto gloriosa Repubblica Romana.
Le vestigia di quell’epopea riecheggiano un po’ ovunque: nella chiesa di San Pietro al Montorio è incastonata una palla di cannone sparata dalle truppe francesi, poco oltre vi è l’ossario dei caduti sacrificatisi nell’estremo tentativo di impedire lo sfondamento delle linee difensive, il medesimo ossario contiene al suo interno le ceneri tumulate, tra gli altri, di Goffredo Mameli, nelle mura di Villa Sciarra, all’altezza di largo Berchet, ci sono due lapidi: quella in italiano, risalente al 1871 (quindi postuma alla presa di Roma del 1870), consta di un epitaffio commemorativo del nobile sacrifizio dei patrioti morti in difesa della Repubblica romana; l’altra, in latino, è del 1850 e celebra, di contro, il rapido restauro delle mura nell’intento di cancellare dalla storia ogni traccia della breve vita della Repubblica del 1849 ed esalta al contempo il contributo fornito dalle truppe francesi per la restaurazione a Roma dell’ ancien régime.
I nomi delle strade evocano il ricordo dei patrioti caduti nell’impresa (Dandolo, Induno, Armellini, Saffi, Casini, Daverio, Mameli…). L’arco Busiri-Vici viene innalzato nel 1856 colà ove sorgeva la villa Corsini rasa al suolo dall’artiglieria francese e dove imperversò il violentissimo scontro finale con i repubblicani asserragliati nella Villa del Vascello. Anche la passeggiata del Gianicolo, attraverso i marmorei busti e la bronzea statua equestre di Garibaldi sullo sfondo, richiama alla memoria l’epos di quei giorni eroici. Per lo stesso motivo di solenne commemorazione dal 1904, ogni giorno, allo scoccare del mezzodì, dalla balconata del Gianicolo viene fatta esplodere una salva da un pittoresco cannone ottocentesco.
La fugace Repubblica romana dura appena cinque mesi, ma vale la pena raccontare la sua storia non soltanto per quanto in essa vi sia di epico, ma, soprattutto, per quanto in essa vi sia di concentrato ed anticipatore di un’altra Repubblica: quella italiana, le cui basi sono consacrate nella Costituzione del 1948.
Nel 1846 muore Gregorio XVI e Pio IX ascende al soglio pontificio.
Il nuovo papa all’inizio piace al popolo per le sue aperture piuttosto progressiste al punto che perfino l’austero Mazzini lo incita da Londra a porsi a capo di un movimento di riscatto nazionale.
Nel 1848 tutta l’Europa è attraversata da un ondata rivoluzionaria e Roma non ne rimane immune: il papa si rifugia al Quirinale assediato da una folla che chiede a Pio IX di dichiarare guerra all’Austria, l’abolizione dei privilegi, di dar vita ad una costituente italiana, di aprire la strada alle riforme sociali. Il 24 novembre il papa è costretto alla fuga. Si rifugerà a Gaeta nel Regno delle due Sicilie. Il 28 dicembre il Parlamento viene sciolto e si indicono le elezioni per il 21 gennaio 1849. Si tratta delle prime elezioni a suffragio universale (maschile) e diretto.
Il 5 febbraio si inaugura la Costituente, il 9 febbraio si dichiara solennemente con decreto che “il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato romano”. “La forma di governo dello Stato romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica romana”.”Bandiera della Repubblica è il tricolore italiano”.
Il 21 febbraio vengono incamerati i beni ecclesiastici. In marzo nasce il triunvirato Mazzini-Armellini-Saffi che appronterà la Costituzione in assoluto più avanzata di tutta l’Europa!
La Repubblica è il primo Stato europeo a proclamare, nell’art. 7, che “dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici”; è la prima ad eliminare la pena di morte facendo propri quei diritti umani di cui agli art 2 e 21 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. E ancora la Repubblica romana “ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà né privilegi di nascita o di casta” (art. 2). “I municipi hanno tutti uguali diritti. La loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello Stato” (art. 5). “Il Capo della Chiesa cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale” (art. 8). E per quanto riguarda i diritti e i doveri dei cittadini: “Le pene di morte o di confisca sono proscritte”; “il domicilio è sacro; non è permesso entrarvi che nei casi e nei modi determinati dalla legge”; “l’insegnamento è libero”; “la manifestazione del pensiero è libera”; “il segreto delle lettere è inviolabile”; “l’associazione senz’armi e senza scopo di delitto è libera”; “nessuno può essere costretto a perdere la proprietà delle cose, se non per causa pubblica, previa giusta indennità”; ecc.
Mai nessuno aveva formulato regole così avanzate molte delle quali, come avrà sicuramente notato chiunque abbia un minimo di familiarità con il diritto, sono state trasfuse pedissequamente nella nostra attuale Costituzione del 1948.
Ma l’efficacia giuridica delle norme della Costituzione della Repubblica romana sarà temporalmente limitata solamente ad una manciata di mesi.
Da Gaeta, infatti, Pio IX non resta inerte: dapprima proclama il “non expedit” e, contestualmente, rivolge un appello alle potenze europee per organizzare un possibile ritorno al trono.
All’appello papale risponde la Francia, non senza resistenze. Contrari all’intervento sono, infatti, tra gli altri, il Ministro degli Esteri francese Alexis de Tocqueville e il grande Victor Hugo. In particolare quest’ultimo sostiene che “i deputati che avevano approvato la spedizione mai si sarebbero aspettati un tale esito…” e continua lo scrittore: “l’Assemblea votò la spedizione di Roma nello scopo dell’umanità e della libertà… onde non si dicesse che la Francia era assente quando l’umanità da una parte e l’interesse della sua grandezza chiamavano” (E’ curioso notare che anche oggi, esattamente come allora, le guerre sono giustificate dai Governi al cospetto dell’opinione pubblica in nome dell’umanità, oggi si direbbe dei diritti umani, e della libertà).
Nonostante queste illustri opposizioni il 25 aprile 1849 le truppe francesi al comando del Generale Oudinot sbarcano a Civitavecchia. Il 28 aprile i triunviri inviano un’accorata e nobile missiva al comandante francese: “In nome di Dio, in nome della Francia e dell’Italia, Generale, interrompa la sua marcia. Eviti una guerra tra fratelli. Che la storia non possa dire: la Repubblica francese ha fatto, senza motivo, la sua prima guerra contro la Repubblica italiana! Lei è evidentemente stato male informato sulla condizione del nostro paese; abbia il coraggio di riferirlo al suo Governo e ne attenda nuove istruzioni. Noi siamo decisi a respingere la forza con la forza. La responsabilità di questa grande sciagura non ricadrà certo su di noi.” Ovviamente l’epistola non sortirà alcun effetto.
(La lettera originale redatta in francese è tuttora conservata tra svariati cimeli nel museo di Roma).
Il 30 aprile cominciano i primi scontri all’interno di villa Pamphili e lungo l’Aurelia. Le truppe francesi che si aspettavano una resistenza poco più che simbolica sono sorpresi dalla determinazione degli italiani. I morti sono cinquecento soltanto nella prima giornata di scontri.
A Roma sono accorsi volontari da tutta la penisola:numerosi sono i veneti, i lombardi, i romagnoli, i piemontesi. Tra i poeti romantici, oltre ad Andrea Maffei, anche il polacco Adam Mickiewicz giunge a Roma per combattere in difesa della neonata Repubblica, emuli dell’illustre antesignano Lord Byron (morto nella guerra di liberazione ellenica negli anni 20) ed animati dallo stesso “sturm und drang” (impeto e passione).
Il 19 maggio viene stipulata una tregua tra le fazioni in lotta, ufficialmente per far evacuare i francesi residenti a Roma, in realtà per permettere l’arrivo dei rinforzi. Viene previsto che l’armistizio duri fino al 4 giugno.
Ma nella notte tra il 2 e 3 il Generale Oudinot ordina l’attacco in palese violazione dei patti, accampando come pretesto che la tregua riguardava solo la città all’interno delle mura e non già anche i dintorni. Grazie a questo vile stratagemma la guerra giunge ad una svolta decisiva: i francesi riescono a guadagnare un’ottima postazione per bombardare l’urbe con l’artiglieria. Nel vano tentativo di riconquistare l’avamposto Garibaldi perderà nell’impresa più di novecento uomini.
Fra le morti eroiche maggiormente onuste di pathos ricordiamo quella del giovane trasteverino Righetto un adolescente poco più che dodicenne che era diventato esperto nel riuscire ad estirpare repentinamente la miccia dalle palle lanciate dai cannoni francesi prima che queste esplodessero salvando innumerevoli vite. Il Ministero della Guerra della Repubblica, infatti, anche per far fronte alla penuria di munizioni aveva istituito una ricompensa per chi consegnasse le bombe inesplose da riutilizzare contro il nemico. E proprio le donne e i bambini si dedicavano a questo lavoro pericolosissimo.
Dopo centinaia di micce estratte con successo l’abile Righetto muore dilaniato da una bomba di cannone esplosagli tra le mani mentre cercava per l’ennesima volta di disinnescarla.
Luciano Manara viene colpito a morte nella strenua resistenza a Villa Spada e la sua salma portata dai suoi bersaglieri fino alla chiesa di San Lorenzo in Lucina per l’elogio funebre.
Mameli, appena ventiduenne, viene ferito nella Villa del Vascello; all’inizio sembra solo una brutta ferita, ma poi sopraggiunge la cancrena e nemmeno l’amputazione dell’arto riesce a salvargli la vita. I suoi compagni d’armi passando sotto l’ospedale dei Pellegrini, dove il poeta giaceva agonizzante, intonano l’inno da lui composto e musicato dal maestro Novaro.
Per ironia della sorte accade così che la stessa Francia che alla fine del XVIII secolo aveva imposto a Roma una Repubblica dopo appena cinquant’anni interviene manu militari per sopprimere un’altra Repubblica stavolta sorta spontaneamente.
A.R.
«Il romanticismo storico è l’ arte dell’ avvenire, bisogna rendere esemplari i grandi eventi del passato: le crociate e le lotte dei geni per conquistare la libertà con il popolo protagonista» Giuseppe Mazzini
Abbiamo “sbagliato” tutto, ciò che ha fregato questo paese è la totale assenza dell’Epica, non quella di Stato o di Regime, ma quella Popolare.
La Repubblica Romana era sullo stesso binario delle 5 Giornate di Milano del ’48 ( a Milano i vecchi usano ancora l’espressione ” facciamo un quarantotto” per indicare una grossa ribellione ), anticamera del Risorgimento ( epica tanto amata dai Leghisti che se ne appropriarono come atto di rivalsa nei confronti del potere centrale, dimenticando che gli Eroi di quei giorni sarebbero stati anche gli Eroi della Repubblica Romana e dell’Unità d’Italia ).
Il Risorgimento aveva svegliato l’animo di tantissimi giovani, a Milano sulle barricate di quelle giornate epiche si affiancarono alla lotta i pezzenti delle campagne e i giovani borghesi di città.
La toponomastica ( come nelle migliori saghe ) avrebbe risentito di quest’epica consegnando al futuro
città come Groppello Cairoli e Cava Manara, anonimi paesini di campagna pavese che diedero alla luce dei veri Eroi.
Nella Repubblica Romana questi giovani si ritrovarono, come in una simbolica Itaca che accoglieva il ritorno dei suoi Argonauti, in una Gerusalemme del Diritto e della Costituente , nella Roma Antica Risorta che per celebrazione coniò una delle poche monete di quei giorni, un baiocco con il fascio Littorio a commemorare i grandi giorni del nostro passato.
Sbagliammo tutto nel non saper raccontare questa storia, nel lasciare ai marmi scoloriti il compito di tramandarla, rilegandola nei musei e nelle celebrazioni istituzionali la funzione della Memoria.
Occorre rispolverare i libri, trasformare le storiE in storie buone da raccontare ai figli e lasciarli a coltivare, dentro di loro, quel seme del riscatto, del coraggio e della dignità.
Torneranno a crescere una generazione forte.
Dimostreremo così agli anti-italiani che il sangue, le ossa e la terra sono ancora quelle di allora.
Complimenti per l’articolo Andrea.
Aaron
Nelle scuole degli altri popoli è insegnata la Storia della Nazione. Da noi manca un programma e un corso di studi, che sia alle elementari o della scuola media, che venga dedicato specificamente alla Storia d’Italia. Dimenticanza? Sottovalutazione? Altro? I nostri allievi imparano qualcosa delle azioni eroiche che hanno reso grande il nostro popolo, in modo frammentario e superficiale alla scuola elementare e media, e poco meglio agli istituti superiori, ove per mancanza di tempo e per il simultaneo estendersi dei programmi di Storia , lo studio ne è reso forzatamente superficiale disorganico, e incompleto, se non addirittura alternativo! E invece quanto bisogno abbiamo noi stessi, e ancor più i nostri giovani, di conoscere i luoghi e la storia ad essi connessa! di sapere le grandi virtù di cui tanti italiani sono stati vessillo, le gesta per cui anch’essi meriterebbero altre iliadi ed altre eneidi, gli eroismi che richiamassero genti in pellegrinaggio verso le nostre camelot, ben più numerose di quelle altrui! e da essi imparare ad essi ispirarsi e connaturare il proprio gesto e la propria fede politica ed etica.
Grazie ad Andrea R. per l’adesione storica e il pathos che rendono indimenticabile l’articolo .
Andrea, sono mesi che pensavo di scrivere un articolo sulla Repubblica Romana. Mi hai anticipato scrivendo un articolo da incorniciare.
Durante l’assedio di Oudinot, come hai ricordato, oltre a Righetto caddero numerosi volontari (circa un migliaio), tra i quali numerosi giovanissimi. Vorrei ricordare anche il povero Domenico Subiaco, detto il “Tamburino” sedicenne, figlio di umili contadini della campagna romana. Domenico, a cui oggi è dedicata a Roma la “Scalea del Tamburino”, vicino al luogo della sua morte, accorse volontario per difendere la giovane Repubblica in cui credeva. Non ritenuto adatto al combattimento fu nominato tamburino. Racconta Ceccarius: “al grido di ‘Viva l’Italia!’’”Viva Roma!’, raccolse il fucile di un soldato caduto al suo fianco, spianandolo contro il nemico, ma una palla francese lo colpì nel mezzo della fronte”. Camillo Roviati, altro testimone, riporta: “dall’alto della porta di S. Pancrazio tirò a petto scoperto gettata l’uniforme – e lo vid’io nel mattino di quel giorno stesso 3 giugno – da dieci a dodici colpi contro i francesi che assalivano il bastione ottavo, facendosi porgere l’arma carica dai compagni che gli erano di sotto, finché una palla nemica lo colpì nel parietale sinistro e lo gettò rovescio e moribondo a basso”.