Breve riassunto per disintossicarsi dagli slogan
Alla fine del secondo conflitto mondiale le due forze sociali contrapposte hanno ricomposto il loro scontro dando vita ad una nuova soluzione di compromesso.
In Italia il nuovo patto sociale viene sancito dalla Costituzione del 1948 che, con l’art. 3, impegna la Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Si tratta dell’impegno a rimuovere le storiche disuguaglianze sociali che avevano, sino ad allora, segnato la storia del Paese (“una storia di servi e di padroni”).
L’art. 41 fornisce le basi per una fruttuosa interazione tra capitalismo e democrazia, riconoscendo la libertà di iniziativa economica, principio cardine dell’ideologia liberale, ma stabilendo al contempo che essa non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, assegnando allo Stato il compito di “determinare i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata” possa “essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Il nuovo patto sociale e la particolare congiuntura economica del dopoguerra favoriscono così nei paesi occidentali, sino alla fine degli anni ’70, l’avvento di un fatto inedito nella storia dell’umanità: la curva della disuguaglianza comincia a decrescere.
L’imposta progressiva sul reddito, pensata per ricomporre il particolare equilibrio di forze sociali (equilibrio che in Italia trova uno dei più significativi laboratori politici mondiali), opera la redistribuzione di quote significative di reddito dal capitale al lavoro, finanziando così la costruzione dello Stato sociale e ponendo le premesse per la nascita di una nuova classe media proprietaria la cui capacità di spesa e di consumo determina un progressivo allargamento del mercato.
Dalla fine degli anni ’70 i rapporti di forza iniziano a modificarsi a favore del capitale che reagisce alla progressiva riduzione della quota dei profitti verificatasi in conseguenza di una serie di fattori macro e micro sistemici: fine del ciclo espansivo del secondo dopoguerra, shock esterni come l’innalzamento del costo delle materie prime petrolifere, fattori interni come la crescita dei salari reali e delle rivendicazioni sindacali.
La reazione prende il via nel cuore del capitalismo angloamericano con le politiche neoliberiste inaugurate da Margaret Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan negli Stati Uniti, dove, alla metà degli anni ’80, l’aliquota delle tasse per i più ricchi scende dal cinquanta per cento al ventotto per cento.
La privatizzazione della sanità pubblica, poi, non solo pone fine all’architrave portante dello Stato sociale, ma segna l’inizio di un processo di trasferimento di quote di reddito dal lavoro al capitale oligopolistico delle grandi compagnie assicurative e delle corporation protagoniste delle privatizzazioni.
È solo l’inizio del ritorno alla disuguaglianza che, procedendo a tappe forzate tra privatizzazioni, deregulation, riduzioni dei salari e licenziamenti, segnerà una parabola discendente della classe lavoratrice americana che nel secondo dopoguerra aveva raggiunto il benessere e che, seppur mantenendo la sua produttività, si impoverirà sempre più.
La nuova tendenza delle roccaforti angloamericane del capitalismo si propaga rapidamente ai paesi industrializzati del centro Europa, determinando, anche in Italia, un generale peggioramento delle condizioni dei lavoratori che tuttavia procede a rilento, dovendosi misurare con la residua forza politica e sindacale, fiaccata ma non estinta.
L’ondata di crescita della disuguaglianza viene rallentata sopratutto perché le leve strategiche della sovranità monetaria e valutaria restano in mano alla classe politica nazionale, consentendo così all’Italia di autogovernare (pur dopo lo storico divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro che dal 1981 determinerà il continuo innalzamento del debito pubblico) il conflitto sociale interno senza dover sottostare, come poi avverrà, alla eterodirezione dei paesi egemoni all’interno dell’Unione Europea e dei cosiddetti mercati, cioè del capitalismo finanziario internazionale.
Alla fine degli anni ’80, il susseguirsi di una serie di eventi macro sistemici fanno saltare definitivamente l’equilibrio storico tra le forze sociali che aveva dato luogo al compromesso. La fine del bipolarismo internazionale, la globalizzazione economica e finanziaria, la rivoluzione tecnologica, determinano infatti la perdita di ogni potere di contrattazione della classe operaia e del suo ruolo di baluardo contro il potere capitalistico.
La sua sopravvenuta irrilevanza politica trascina nella disfatta anche il ceto medio che si rivela un gigante sociale dalle esili gambe.
Si creano così le condizioni per sciogliere il matrimonio di interessi tra liberalismo e democrazia attraverso un divorzio non consensuale.
La democrazia è diventata superflua poiché sono venute meno le ragioni che imponevano al sistema capitalistico di accettare i limiti al proprio libero sviluppo.
Il gioco del potere è dunque ripartito su nuove basi ma, a differenza del passato, quando appariva decifrabile a chi avesse una cultura media in quanto si svolgeva tra forze sociali visibili all’interno di un contesto nazionale e di un semplificato scenario internazionale bipolare, oggi è divenuto in larga misura indecifrabile ai più, sia per l’oggettiva complessità dei processi in corso, sia per il coltivato divario tra cultura di massa e sapere appositamente riservato alle ristrette oligarchie che governano la transizione dal vecchio al nuovo ordine.
Oggi come ieri, sul terreno del sapere e dell’agire di conseguenza si gioca una nuova partita politica fondamentale.
Non lasciamoci distrarre.
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