Da atomi a collettività, la sfida politica e filosofica del domani
di GIAMPIERO CINELLI (ARS Lazio)
Mi capita spesso si interrogarmi filosoficamente sul senso del nostro essere un tessuto sociale, sui suoi presupposti, i suoi valori e i diritti/doveri di chi fa parte di tale apparato. Il fatto che noi tutti apparteniamo a una collettività è vissuto con disagio da moltissime persone. Esistono in effetti diversi individui che non mancano mai di evidenziare il loro desiderio di affermarsi come entità distinte, indipendenti da un punto di vista valoriale, etico e pratico. Questa spinta verso una coscienza autonoma non è una novità e neanche un male in sé, lungi da me dire che le coscienze non debbano svilupparsi in modo libero e autentico, tuttavia trovo che l’atteggiamento di cui parlo, oggi sia portato all’esasperazione, assumendo connotati che fanno trasparire quasi unicamente insofferenza, turbamento interiore e individualismo smodato.
La frenesia dell’indipendenza intellettuale e gestionale, oggi sarebbe quindi – nella maggior parte dei casi – un impeto di individualismo fine a sé stesso, caratterizzato dalla voglia di non curarsi di principi generali e costituiti, che sono sedimentati nella natura e nella storia evolutiva del nostro gruppo sociale.
Gli impulsi individualisti si denotano non soltanto nell’intendere i costumi, ma soprattutto nella vita economica: “la rivoluzione liberista” ha instillato nei soggetti la tendenza a prevaricare l’altro nel successo personale, o quantomeno lo ha reso più facile, adattando il modello giuridico-economico a un comportamento atavico; si potrebbe dire quindi che la formula hobbesiana dell’homo homini lupus è stata definitivamente istituzionalizzata nel sistema produttivo in cui ci troviamo da circa trent’anni a questa parte.
Quanto ho appena detto potrebbe in fondo non stupire. Qualcuno infatti mi risponderebbe che le dinamiche da me espresse sono insite negli umani ed è giusto quantomeno regolarle attraverso una legislazione che ne riconosca la presenza e l’imprescindibilità. Lo stesso Montesquieu, ad esempio, credeva che gli uomini anche nella società civile fossero continuamente in “stato di guerra”, inteso come la classica lotta del tutti contro tutti (“bellum omnium contra omnes”), e che l’entità statuale li mettesse in condizioni di disputare tra loro più o meno alla pari. Se accettiamo una visione del genere, possiamo allora sbrigare la faccenda con un concetto molto diffuso, quello secondo cui “l’uomo è di natura competitivo”. Insomma, data la natura competitiva dei soggetti, per una certa parte di intellettuali dobbiamo solo accettare che la competizione si esplichi, chiedendo alle istituzioni di normarla.
Nonostante quanto esposto sopra abbia una sua valenza e logicità, si tratta di un’interpretazione che a me non convince del tutto. L’uomo è sì competitivo ma ha in sé anche un istinto alla collaborazione. Senza escludere la verità dell’idea che nell’essere umano lo spirito competitivo prevalga, credo che l’obiettivo di una società moderna sia cercare di smorzare questo elemento, attraverso un lavoro culturale coraggioso e promuovendo un sistema di valori appropriato a tale obiettivo.
I filosofi antichi ci insegnano che l’uomo è “animale razionale”, come possiamo quindi non sperare che la nostra mente – la quale pure ha in sé vari aspetti istintuali – non possa elevarsi, arrivando a concepire che l’individuo esiste solo in funzione del suo gruppo?
A pensarci bene, non è questa una concezione tanto singolare, perché apprendiamo proprio dai filosofi antichi l’importanza che un tempo si dava all’idea di collettività, un sentimento ancora molto presente nelle dottrine spirituali orientali. Nelle città elleniche dell’età classica, appunto, vigeva un forte senso di appartenenza; ne conseguiva il senso di responsabilità nei confronti degli altri cittadini, senso di responsabilità che induceva per esempio alla vergogna se in guerra ci si sottraeva allo scontro, fuggendo davanti al nemico, o un sentimento di inutilità se non si partecipava attivamente alla vita politica, o ancora un disonore se gli individui più facoltosi avessero rifiutato di impiegare il loro denaro per allestire la tragedia (un principio che richiama un po’ ai criteri di progressività fiscale oggi in vigore), la quale era intesa come strumento educativo della cittadinanza, a riconoscimento del fatto che esistevano valori ritenuti collettivi. Attualmente un sistema di valori collettivi è impensabile nel regime neo-liberale, tanto meno il concetto di “animale sociale” aristotelico che prese piede in quel contesto specifico. Il regime neo-liberale è infatti antitetico a tutto ciò, poiché predica la relatività dei principi etici – purché non si mettano in dubbio i principi del mercato – e il culto dell’individuo come presupposto, in antagonismo con una cultura del sociale.
Il messaggio che esprimo dovrà costituire un vero e proprio rinnovamento del pensiero, il Rinascimento del nuovo millennio. Ci sarà quindi bisogno di una classe di intellettuali che si contrapponga a quella vecchia e incancrenita, in sinergia con dei partiti politici emergenti, i quali si facciano portatori di tali istanze di rottura col passato, traducendo in azioni pratiche e in materia di legge l’input filosofico di cui si nutrono. Non sarà facile e richiederà un’organizzazione certosina, oltre che un dispendio di risorse economiche e psico-fisiche massiccio. D’altronde non possiamo esimerci, il sacrificio quasi si esige da coloro che sono in grado di recepire determinati concetti e farli propri trasmettendoli. E’ una battaglia generazionale da combattere senza vigliaccheria, un destino, un dovere morale.
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