In pensione sempre più tardi ma ci aspetta una vecchiaia da malati cronici
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo ottimo contributo del nostro lettore Bruno Lazzarin di Torino
Propongo in forma grafica i dati ufficiali tratti da “aperto.comune.torino.it” dei decessi dell’area torinese relativi all’anno 2011 (non ho trovato dati più recenti). I dati estrapolati sono relativi ai decessi per età compresa tra i 50 e 99 anni, cioè quelli relativi alla popolazione prossima alla uscita dal lavoro o già in pensione, senza distinguere tra popolazione maschile e femminile.
Ho escluso gli ultra centenari perché rappresentano casi particolari (cioè persone che debbono la longevità alla loro eredità genetica, alle condizioni ambientali e stili di vita idonei al conservarsi in salute, oppure malati cronici gravi mantenuti in vita con avanzate tecniche mediche) di cui si può anche dubitare dell’esattezza del dato anagrafico.
Complessivamente nel 2011 ci sono stati 9211 decessi nella fascia di età presa in considerazione, altri 107 decessi ricadono nella fascia dei centenari. L’incidenza in percentuale dei decessi per età rapportata al numero complessivo porta al seguente grafico:
Dal punto strettamente matematico il 50% dei decessi si raggiunge ad 82 anni.
Non conosco quali siano i parametri utilizzati per definire l’aspettativa di vita. Su alcuni articoli di giornali si parla di 79 anni. Questo significa, ritornando al grafico precedente, che circa il 40% della popolazione anziana non raggiunge questo traguardo.
Se aggiungiamo al grafico in questione i riferimenti alla soglia di pensionabilità, rappresentata con la linea verde, della Riforma Fornero/Monti, e la linea di tendenza degli indicatori delle malattie croniche tratti da uno studio di Medicina Sociale dell’età senile (Alessandro Sartorio e Giancarlo Silvestri – anno 2001), rappresentata con la linea in rosso, per simulare l’incidenza in percentuale dell’insorgenza di patologie gravi con penalizzazione della qualità della vita, perveniamo alla seguente rappresentazione grafica:
Oltre all’ovvio risparmio da Parte dello Stato nel ritardare per tutti l’età pensionabile di circa 10 anni, si osserva quanto segue:
a) Circa il 12% della popolazione muore prima di arrivare alla pensione (ulteriore risparmio alle casse INPS); b) Il 30% della popolazione superstite entra in pensione già con patologie gravi tra cui cardiopatie e ipertensione arteriosa; c) L’inabilità si accentua con l’avanzare dell’età: circa il 40% degli anziani tra 65 e 75 anni è affetta da cardiopatie di cui il 20% con inabilità totale; d) La prevenzione e cura delle affezioni dell’apparato cardiovascolare richiede attenzione alla qualità della alimentazione e adeguato esercizio fisico, requisiti difficilmente conciliabili con l’impegno lavorativo.
In aggiunta all’insorgenza delle patologie debilitanti pocanzi citati, occorre considerare che dai 60 anni in poi sopraggiungono patologie come l’artrosi, l’osteoporosi, deficit visivo ed uditivo ecc. (riassumibili con l’espressione “acciacchi dell’età”) che fanno aumentare il rischio di incidenti: ad esempio il calo uditivo e della vista fanno aumentare l’incidenza di infortunio/morte sul lavoro; includerei anche l’aumento del rischio negli spostamenti da e per il lavoro con auto propria (situazione generalmente diffusa per l’inadeguatezza dei trasporti pubblici e la tendenza delle aziende a ricollocarsi sul territorio più facilmente della possibilità del lavoratore di cambiare il proprio domicilio).
La maggiore propensione dell’anziano alle affezioni dell’apparato respiratorio lo mettono a rischio per le condizioni climatiche e lavorative, l’ipertrofia prostatica, che incide per il 50% degli uomini oltre i 50 anni, tende a peggiorare nei lavori prevalentemente sedentari aumentando il rischio di tumori maligni. Il diabete mellito colpisce il 20% dei soggetti con più di 60 anni ed è al 6^ posto tra le cause di morte.
Insomma, a partire dai 60 anni si innesca tutta una serie di patologie che, se diagnosticate in tempo, non portano alla morte grazie alle cure mediche e chirurgiche (ad es. carcinoma alla mammella, dell’endometrio, della prostata) ma che comportano, comunque, una grave penalizzazione della qualità della vita e una stretta dipendenza alla somministrazione di farmaci.
Consentitemi una malignità: pare proprio che in ambito della politica e del Governo si ragioni in termini puramente ragionieristici nel far quadrare il bilancio dell’INPS dopo averlo saccheggiato senza nessun ritegno con una politica pensionistica iniqua e clientelare: ma dietro ai tagli di bilancio, alle riforme del lavoro e quant’altro ci stanno le persone con il loro bagaglio di aspettative, di sofferenza, di malattia, di morte.
Il business che ruota intorno alla sanità ed alle spese assistenziali è una voce con cui si determina il PIL di una nazione, quindi, paradossalmente, più c’è gente bisognosa di medicine, ospedali, assistenza domiciliare e maggiore è il PIL. Il welfare di una nazione dovrebbe essere valutato sulle condizioni di benessere della popolazione e non sulle condizioni di sofferenza e di indigenza.
La “discutibile” riforma pensionistica, fatta perché l’Europa lo chiede (Deus vult!) sembra favorire l’incremento ed il complessivo aggravamento di quel bacino di soggetti bisognosi di assistenza sanitaria, il quale, in considerazione della inconsistenza del Servizio Sanitario Pubblico, alimenta con i propri redditi e risparmi, il giro di affari delle assicurazioni sanitarie integrative, degli onorari dei medici e delle strutture di diagnostica nonché il settore dell’assistenza domiciliare (coadiuvanti domestiche, badanti, servizi infermieristici e riabilitativi).
Parlare di pensione anticipata per i lavori usuranti (che certamente ci sono) apre la problematica della identificazione quali siano i criteri discriminanti: se ci sono indubbiamente delle remore a far lavorare sui tetti un carpentiere ultrasessantenne, ci sono anche problemi per l’impiegato, che deve inserire ed elaborare dati al computer, per l’impatto che l’attività ha sulla vista, lo stress e le difficoltà di concentrazione oltre a dover stare seduto per tantissime ore, oppure per l’insegnante sopraffatto dalla turbolenza delle scolaresche e dalle problematiche della “buona scuola”; persino gli operatori dello spettacolo (che per me fanno un mestiere bellissimo a condizione di averne la capacità) possono vantare ragioni per una pensione anticipata (e mi pare lo abbiano ottenuto).
Il problema, secondo me, consiste piuttosto nella non idoneità a svolgere determinate mansioni con l’avanzare dell’età e la necessità di dedicare maggior tempo alle cure personali come il riposo e l’adeguata attività fisica. Vorrei sottolineare infine che le politiche aziendali mirano ad alleggerirsi dei lavoratori più anziani sia perché vengono in parte sostituiti con giovani meno retribuiti e facilmente assoggettabili alle pretese aziendali, sia perché una azienda con prevalenza di giovani acquista maggiori apprezzamenti nel mercato azionario.
Pertanto già all’età di 50 anni si inizia un percorso lavorativo di emarginazione che tende ad escludere il lavoratore dalle fasi di formazione interna e di carriera e da quei settori di maggiore rilevanza per l’azienda. Sintetizzando il concetto: le aziende tendono a liberarsi del lavoratore ancora prima che abbia raggiunto la condizione contributiva e di età precedenti alla riforma Fornero, mentre l’entrata effettiva in pensione slitta sempre più in là in funzione di una ipotetica aspettativa di vita (chissà cosa può importare agli ammalati di cancro, che vanno sempre più aumentando per l’inquinamento e le porcherie che ci fanno mangiare, sapere che sono degli “sfigati” mentre gli “altri” vivono più a lungo).
Durante questo periodo di transizione di diversi anni, senza stipendio od ammortizzatori sociali, senza possibilità di trovare o svolgere in proprio del lavoro, al disoccupato (ormai non possiamo più chiamarlo “esodato”) con più di 60 anni di età ed più di 35 anni di contributi non rimane altro che attingere ai propri risparmi e fare qualche lavoretto, rigorosamente in nero (stupendo!), nella prospettiva di ottenere un giorno (forse!) una pensione inadeguata, paragonabile quasi a quella sociale, decisamente squilibrata rispetto i versamenti effettuati ed iniqua confrontandola con quella dei pensionati di qualche anno prima che con 55 anni di età e 35 anni di contributi ricevono una pensione netta quasi uguale al loro ultimo stipendio (forse occorre fare qualche riflessione in merito).
Anche per quelli che potranno continuare a lavorare e andranno in pensione con i requisiti della “Fornero” la situazione non sarà poi molto più rosea perché la pensione, rispetto all’ultima retribuzione, sarà fortemente penalizzata nonostante più di 40 anni di contribuzione, con una verosimile prospettiva di “sopravvivenza” (checché ne dicano gli analisti) ormai agli sgoccioli (perché non eliminare questo “fastidioso” problema con l’eutanasia programmata?).
Ma se le persone anziane, che tanto sono di intralcio a certe aziende ed imprenditori, non possono ritirarsi dal mondo del lavoro, cosa succede ai giovani? Restano disoccupati, ovvio! O meglio, svolgono lavori saltuari (spesso nel sommerso) sottopagati, senza contributi e copertura contrattuale (è questo il parametro con cui si misura il potenziale di sfruttamento, di dominio e di manipolazione delle masse).
L’unico elemento di stabilità sociale, ora come ieri, risiede nella copertura economica dei genitori che posseggono una pensione ancora vecchia maniera, garantendo così ai giovani (e non più tanto giovani) un tetto e da vivere, ma per quanto tempo ancora? Chi in una situazione di questo genere può pensare di metter su famiglia? Poi diciamo che l’accoglienza degli extracomunitari non solo è un dovere sociale ma anche un business. Un affare? Si, certo, per gli affamatori dell’alta finanza, per i banchieri e per i politicanti di mestiere corrotti e collusi, per le lobby e massonerie che stanno distruggendo la società e perseguono la soppressione di tutti i diritti civili e della libertà raggiunta in tanti anni di sacrifici, sofferenza e lotta.
Sia ben chiaro, non ho nulla contro l’accoglienza dei profughi e l’impegno sociale, ma non posso non notare l’ipocrisia di fondo tra chi pontifica la compassione e propugna l’esigenza dei sacrifici, mentre briga per il proprio tornaconto, qui come altrove, massimizzando lo sfruttamento senza remore né morale, mettendo le basi per la povertà, l’ingiustizia, l’iniquità sociale, le dittature e le guerre.
Mando queste mie riflessioni nella speranza di riscuotere le coscienze. Il mio è un caloroso invito al risveglio morale e di prendere coscienza della colossale menzogna che ci viene propinata ogni giorno dai nostri leader e dalla stampa. E’ assolutamente indispensabile convergere su un fronte unico, costituito da quanti credono veramente nei principi e nei valori della Libertà e della Democrazia, per intraprendere senza indugi una azione di ferma contrapposizione al decorso degli eventi.
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