di CATENO TEMPIO (saggista; www.sitosophia.org)
Lucido, disincantato, critico: così si presenta Contro il Sessantotto di Alberto Biuso [prefazione di E. Mazzarella, Villaggio Maori, Catania 2012 (prima ed. 1998), ndr.]. Tuttavia non si tratta di un semplicistico revisionismo storico, ma di molto di più e di meglio. Infatti, portando alla luce le radici ideologiche, filosofiche ed antropologiche di questo movimento, il saggio si propone di mostrare che «intessuto della dismisura dell’utopia, il Sessantotto è l’ultimo rampollo di ogni terrore».
Mostrando una competenza ed una concretezza davvero mirabili, Biuso ci guida alla riscoperta non solo di un periodo controverso e spesso ricordato con nostalgia da chi l’ha vissuto, ma anche delle contraddizioni, delle dismisure, dell’errore di fondo, se vogliamo, di quelle ideologie che credono che l’uomo sia connaturatamente buono.
«Tutto e subito», questa la bramosia infantile dei sessantottini, i quali, come è descritto nella prima parte, Eventi e persone, si mostrano simili a null’altro che a bambini viziati, figli del mondo che combattono ed a cui in realtà devono ogni cosa. Tutto diviene sentimentalismo, utopia controproducente (su tutte quella di Lettera ad una professoressa della Scuola di Barbiana, su cui il saggio si sofferma diffusamente), intolleranza; diviene dogma persino il motto marxiano: «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», svuotato però nei suoi presupposti. Infatti, nella loro brama di volere tutto e subito (anche la promozione, il famoso “6 politico”), i sessantottini, tentando di scardinare i principi di casta e di censo, in realtà non fanno altro che «distruggere quelli dell’intelligenza e del talento».
Sì è convinti che tutti gli uomini siano uguali, che tutti siano adatti a tutto, che l’uomo sia interamente plasmabile dall’educazione e che, infine, si possa apprendere senza fatica. E così, a causa della tremenda serietà fideistica, i sessantottini, come riferiscono docenti e intellettuali dell’epoca (per esempio Pasolini), si trasformano in automi conformisti incapaci di ironia e di sorriso.
A mio modo di vedere, però, le pagine più interessanti del saggio, al di là di queste descrizioni puntuali, sono quelle che svelano quale concetto antropologico e quale ideologia stanno dietro il Sessantotto.
L’ideologia, ci spiega Biuso, non è nient’altro che «la rimozione della realtà, il disprezzo dei fatti rispetto alla dottrina»; è ciò che porta, per esempio, a giustificare un massacro se compiuto dalla sinistra e a condannarlo senza mezzi termini se compiuto dalla destra, o viceversa; ma la grande novità del Novecento, quella che ci ha portato alla “invenzione” dei totalitarismi, è stata il trasformare l’ideologia in religione, con testi sacri, riti, custodi dell’ortodossia e tutto il resto.
La profonda intolleranza, la vuotezza e lo squallore del totalitarismo sono ben espressi da Biuso: «il totalitarismo può utilizzare qualsiasi strumento al fine di adattare la realtà alle sue menzogne poiché ritiene non esserci alcuna realtà fuori dai suoi pregiudizi. Tutto è possibile all’uomo che ritiene nulla esistere se non la propria onnipotente volontà. Il disprezzo per la cultura, il radicale antintellettualismo sono la conseguenza di questo culto della volontà che nulla riconosce o apprezza al di fuori di quanto essa stessa crea». L’ideologia, dunque, porta a ricusare la concretezza di un’etica, di «una filosofia del tragico» che di fronte alla realtà non si propone di raggiungere l’assolutezza del bene, ma il minor male; che ci fa accettare il limite e la misura della nostra finitezza.
Oltre e sul presupposto dell’ideologia e parimenti alle filosofie da cui prende le mosse (cioè quelle di Rousseau e Marx), pure il Sessantotto ha puntato sul numero, sul soffocamento dell’individuo, sulle masse. Nella massa il gusto è involgarito, ma tanto più è accresciuto il narcisismo di alcuni dei leader sessantottini, se è vero che molti di costoro «sono stati pronti a schierarsi con le forze più reazionarie e volgari dell’industria culturale»: i media, e su tutti la televisione, col loro potere di rendere reale solo ciò che viene detto da essi o addirittura di fare esistere solo chi appare. L’involgarimento è compreso nell’idea che, in fin dei conti, tutto deve essere reso accessibile a tutti e perciò il linguaggio deve essere semplice e piatto, con la conseguenza che la televisione e l’immagine manipolano «i bisogni per conto di interessi costituiti».
L’uomo è semplicemente un manipolato; v’è una contraddizione strana tra l’affrancamento dell’individuo, di cui il Sessantotto pare essere stato l’ultimo atto, e il crescente affermarsi della massa. L’uomo è smarrito e perso: le sue azioni, in questa ottica, paiono essere frutto di tutti tranne che di se stesso. In fondo anche questo, ce lo spiega bene Biuso, è un portato del Sessantotto, che con la sua pedagogia totalmente inadeguata fondata su una antropologia completamente sbagliata azzera la volontà e la predisposizione genica, naturale, corporea dell’individuo, attribuendo ogni fallimento scolastico alla società, ai genitori, alle istituzioni: di tutti è la colpa tranne che del ragazzo che non studia.
Del resto, il Sessantotto vive nell’illusione della profonda bontà della natura umana: la malvagità sarebbe solo frutto delle malvagie istituzioni. In questo confuso e puerile anarchismo, che considera «i singoli una semplice variabile dipendente dall’ambiente, del tutto determinata dall’epoca storica e dalle sue strutture economiche»; in questo oblio del fatto che una natura umana esiste e che bisogna guardarla in faccia per scoprirvi aggressività, desiderio di possesso, volontà di potenza; in questa fiabesca illusione sta dunque la hybris, l’eccesso, la tracotanza, la dismisura; qui sta la dimenticanza di ogni finitezza, limite e imperfezione. Solo considerando tutto questo, invece, le istituzioni hanno un senso, e precisamente quello di limitare l’innata “malvagità” umana.
Certo, Biuso è consapevole che nel suo libro il Sessantotto è visto anche con ingiustizia, ma egli la ritiene necessaria «se si vuole cogliere l’evento nel suo significato storico-epocale». Però non si può non concordare sul fatto che col Sessantotto le masse acquistino il loro definitivo peso e potere, a scapito della fatica del concetto, del godimento della solitudine, della finezza del gusto.
Pertanto è grazie a questa visione vuota e volgare che osanna le masse ed il conformismo, a questo clima di narcisismo e tracotanza che promette subito il paradiso di una società perfetta, è grazie a questo che è stato facile «transitare dalla società senza classi e senza infelicità immaginata dai padri del socialismo, alla società immaginaria della televisione e dei suoi padri-prestigiatori. Ecco perché il Sessantotto ha vinto».
IL 68 “CULTURALE” e IL CAPITALISMO ASSOLUTO
Il 68: “Tutto e subito”.
Il capitalismo assoluto: “Togliete l’attesa ai desideri” (slogan con il quale vennero pubblicizzate in Inghilterra le prime carte di credito).
NB: ho precisato 68 “culturale”, perché il 68 fu due cose, l’una estremamente capitalistica – il lato culturale, appunto, sostenuto dagli studenti -, l’altra estremamente socialistica – le rivendicazioni operaie e dei dipendenti tutti, che portarono alla stagione degli incrementi salariali reali notevoli del 1973-1975.