Quale cultura nella decadenza
Questo articolo parte dalla convinzione che la nostra organizzazione economica e sociale, ormai estesa all’intero pianeta, sia entrata in una fase di decadenza di civiltà, analoga a quella del tardo impero romano. Un indizio di questo declino è rappresentato dal convergere e dall’intrecciarsi di tre tipologie di crisi: la crisi economica dalla quale non sembra che si riesca ad uscire (tanto che alcuni autori mainstream parlano apertamente di “stagnazione secolare”), la crisi geopolitica dovuta al lento declino USA, la crisi ecologica della quale il cambiamento climatico è per il momento l’evidenza più forte. Non sono ovviamente in grado di fare previsioni sulla durata di questa fase di declino, né sulle forme culturali, sociali ed economiche che l’umanità si darà per superarla. È però facile pronosticare che essa comporterà sofferenze per grandi masse umane, e la perdita di valori civili e contenuti culturali. Temo che non sia possibile invertire questi sviluppi tendenziali. È però possibile un’azione politica e culturale che abbrevi il decorso della transizione e ne riduca le sofferenze e i danni. Una tale azione sarà opera di forze politiche e sociali che riescano, fra le altre cose, ad elaborare un discorso culturale che colga gli aspetti fondamentali dell’attuale situazione storica. In Italia un tale programma di “difesa civile” dovrà avere al proprio centro la Costituzione del 1948, quintessenza di quanto di meglio la storia recente del nostro paese abbia prodotto.
Occorre però aver chiaro un punto: produrre un discorso culturale adeguato a questi problemi sarà un compito difficilissimo, perché si tratterà di andare del tutto controcorrente. Si tratterà cioè non solo di distaccarsi criticamente dalle forme più evidenti di negazione della cultura e del pensiero, ma di criticare l’intera organizzazione della produzione culturale contemporanea, anche nei suoi aspetti “alti”: si tratta cioè di capire che buona parte degli attuali ceti intellettuali, e degli strati popolari “semi-colti” che ad essi fanno riferimento, non sono alleati in questa lotta, ma piuttosto avversari.
È ovvio che un esame complessivo della cultura contemporanea non può essere l’argomento di un breve articolo. Questo testo deve essere considerato un semplice schizzo, un promemoria dei nodi problematici che si troverà ad affrontare una forza politica e sociale impegnata in quella “difesa civile” alla quale abbiamo sopra accennato.
Per cominciare ad orizzontarsi in questi problemi, si può intanto focalizzare, all’interno dell’attuale produzione culturale, due poli, rispetto ai quali tale produzione si dispone in uno spettro di posizioni intermedie: da una parte la cultura specializzata accademica, dall’altra le svariate forme della cultura di massa.
Parlando di cultura specializzata accademica mi riferisco essenzialmente al mondo delle Università e dei centri di ricerca. Questo tipo di produzione culturale ha ovviamente un ambito tematico vastissimo. Ma mi preme qui sottolineare come, al di là di questo, vi sia una fondamentale omogeneità legata all’organizzazione della produzione e della comunicazione di questo sapere, così come alle regole per l’ingresso e la carriera professionale. Si tratta di un mondo che qualche tempo fa ho definito in termini di “specializzazione parcellizzante”. Il sapere accademico è specializzato: esso infatti può esistere solo se definisce in maniera rigorosa il proprio linguaggio, i propri oggetti, i propri problemi e le tecniche di soluzione ammissibili. In questo modo ciascun tipo di sapere accademico guadagna un ammirevole rigore scientifico ma rischia di perdere ogni connessione con gli altri saperi e con le domande che attraversano la realtà umana. Per di più, il progresso di questo tipo di sapere si attua per successive ulteriori specializzazioni, per cui ogni ambito viene diviso in sotto-ambiti per ciascuno dei quali si elaborano linguaggi specializzati. Sarebbe troppo lungo indagare qui le ragioni ultime di questa dinamica, che dipendono da fattori sia interni sia esterni alla comunità accademica. In ogni caso, quale ne sia l’origine, questa dinamica genera un sapere che appare poco utile in ordine al compito di elaborare strategie di difesa civile rispetto all’incipiente crisi di civiltà. Infatti questo sapere in gran parte è del tutto slegato da ogni domanda reale che provenga dalla società, anche se, essendo ideologia ufficiale che il sapere sia indispensabile alla crescita economica, le varie forme di sapere tendono a costruirsi delle giustificazioni ideologiche che rassicurino gli interlocutori, e soprattutto i finanziatori (pubblici o privati), della propria utilità. Questa utilità in molti casi, come abbiamo accennato, è scarsa o inesistente. Anche nei casi in cui, invece, è effettiva, per i saperi specializzati si tratta sempre di ottenere soluzioni delimitate a problemi delimitati. Questo può senz’altro essere utile, ma presenta due limiti essenziali: in primo luogo il sapere accademico non affronta il problema di fondo, quello della crisi di civiltà, perché la sua attitudine specialistico-parcellizzante non gli permette nemmeno di vederlo, di nominarlo. A quale disciplina specializzata compete la discussione sul tema se siamo oppure no all’inizio di una crisi globale di civiltà? In secondo luogo, il sapere specialistico accademico è del tutto autoreferenziale, e non ha quindi nessuna istanza che funga da regolatore, da limite. Esso non ha nulla da dire sugli scopi dei suoi utilizzatori, ed è quindi fungibile per qualsiasi scopo, anche il più iniquo. Il complesso di queste caratteristiche fa sì che il sapere accademico, così come si presenta oggi, sia difficilmente utilizzabile per una lotta di difesa della civiltà.
Vediamo ora l’altro estremo dello spettro, la cultura diffusa, popolare. Qui troviamo caratteristiche in qualche modo simmetricamente opposte a quelle che abbiamo individuato nella cultura accademica. Si tratta di forme di cultura nelle quali si agitano, spesso in forma scomposta, problemi veri, perché sono le forme espressive di coloro che da tali problemi vengono direttamente toccati. È quindi assai probabile che da questo magma che è oggi la cultura popolare nasceranno forme reattive nei confronti dei vari drammi che il declino di civiltà porterà con sé. Purtroppo queste forme di espressione culturale mancano completamente dei caratteri di rigore e razionalità che sono tipici del sapere accademico, per cui esse quasi sempre si riducono a “espressione di passioni”, nel senso in cui lo sono un grido o un sospiro. Tutto ciò appare con evidenza in quel grande mondo parallelo che è la Rete. In essa vi è una continua produzione di scritti, di analisi, di discussioni sui più svariati temi, ma si può affermare che quasi mai da tutto questo agitarsi esce qualcosa che incida davvero sull’evoluzione culturale e politica. Questo perché i dibattiti nella Rete quasi sempre contravvengono alle più elementari norme della razionalità, come l’attenersi al tema in discussione e l’evitare gli attacchi personali. A questa mancanza di rigore, che è tipica della cultura non accademica, la Rete aggiunge aspetti nuovi, come quell’autentica pestilenza che è l’anonimato.
In estrema sintesi, i due poli che abbiamo individuato all’inizio li possiamo caratterizzare come una produzione formalizzata di rigore privo di significato (il sapere accademico) e come l’espressione informe di significati privi di rigore (la cultura popolare). È chiaro che nessuna di queste due forme di produzione culturale, così com’è, può esserci d’aiuto. È anche facile, a questo punto, trovare la formula che esprima ciò di cui abbiamo bisogno: una forma di sapere che affronti il senso di un passaggio globale di civiltà e lo faccia con rigore intellettuale.
Nella tradizione del pensiero occidentale, l’attività intellettuale qui delineata è in sostanza ciò che si è chiamato “filosofia”. Si potrebbe quindi dire che il passaggio di civiltà che ci sta di fronte ha bisogno di un nuovo impegno nella riflessione filosofica. Occorre però sgombrare il campo da un equivoco. È naturale infatti, nella situazione intellettuale odierna, pensare che la filosofia sia “ciò che fanno i professori universitari di filosofia”. Si tratta di un malinteso. Quella sezione del sapere accademico che risponde al nome di “filosofia” (o a una delle sue sottosezioni) non è in nulla diversa dagli altri settori del sapere accademico: anch’essa è soggetta al meccanismo della specializzazione parcellizzante e ne condivide pregi e limiti. Non è quindi dalla filosofia come sapere accademico che possiamo aspettarci un aiuto, ma piuttosto da una riflessione intellettuale indipendente che sappia mettere in luce i tesori di sapienza contenuti nella tradizione filosofica occidentale per mostrarne la potenza critica nei confronti della deriva distruttiva verso la quale si è incamminata la nostra civiltà. Un altissimo esempio di questo tipo di riflessione è testimoniato negli scritti di Massimo Bontempelli.
Questo appello alla filosofia come forma di sapere più adatta alla salvezza di valori di civiltà non deve però essere inteso come un invito a rinchiudersi in casa a studiare filosofia lasciando perdere altri saperi. Al contrario, una nuova visione filosofica risulterà solo come effetto della creazione di nuovi saperi che si sforzeranno di infrangere quella opposizione fra senso e rigore che abbiamo sopra delineato, e tali nuovi saperi sorgeranno solo in un gioco di interazioni reciproche con movimenti sociali e politici in cerca di una risposta alle sempre più gravi crisi che dovremo fronteggiare.
Nonostante tutti i dati contrari che abbiamo sopra elencato, abbiamo qualche motivo per non essere del tutto pessimisti sulla possibilità di un sapere capace di difendere la civiltà. Il fatto è che abbiamo visto concretamente sorgere e svilupparsi saperi di questo tipo, in relazione a varie problematiche. Faccio solo due rapidi esempi:
1.La critica all’euro: in Italia abbiamo avuto negli ultimi anni un vivace sviluppo di voci critiche, che hanno saputo realizzare quella fusione fra rigore accademico e questioni politiche urgenti che è essenziale per il tipo di azione culturale e politica che abbiamo indicato all’inizio. Un ruolo fondamentale, come è noto, è stato svolto da Alberto Bagnai, col suo blog “Goofynomics” e coi suoi libri. Molti altri, singoli e associazioni, hanno contribuito a diffondere idee e argomentazioni, e fra essi ARS. Questo esempio mostra anche come un uso razionale della Rete, per quanto raro e difficile, non sia impossibile.
2.Il problema del cambiamento climatico: qui il ruolo fondamentale è stato svolto dall’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, che ha saputo a poco a poco spostare l’opinione pubblica mondiale su posizioni via via più avanzate. Credo che l’idea fondamentale, che forse può essere imitata in altri contesti, sia quella per la quale l’IPCC non fa ricerche autonome, ma “semplicemente” fornisce un sunto ragionato di tutto quanto viene prodotto sul tema del cambiamento climatico, nel campo scientifico della climatologia. In questo modo gli avvertimenti e gli allarmi dell’IPCC non possono essere facilmente smentiti dai risultati di una particolare ricerca, perché anzi essi hanno già tenuto conto di tutte le ricerche prodotte, sia di quelle favorevoli alla tesi del cambiamento climatico, sia di quelle contrarie.
Questi esempi possono forse dare qualche indicazione sui possibili saperi che potranno svilupparsi in una lotta di difesa di civiltà. Sul piano culturale questa lotta riguarderà non solo l’elaborazione di tali nuovi saperi, ma anche la critica ai saperi dati. E questa critica, come ai tempi di Marx, avrà al proprio centro un ambito specifico. Infatti c’è una fondamentale eccezione allo schema, peraltro grossolano, che abbiamo sopra indicato, nel quale si contrapponeva il sapere accademico alla cultura popolare diffusa. Questa eccezione è costituita dal discorso dell’economia. L’economia è infatti un sapere accademico rigoroso (ambisce anzi ad essere modello di razionalità per le altre scienze sociali) ma contemporaneamente è un discorso che è entrato nella coscienza comune, nel sapere popolare (ovviamente non nelle sue versioni formalizzate). Quello dell’economia è oggi davvero un discorso egemonico: i suoi principi, la sua antropologia, la sua agenda informano di sé le scelte politiche, gli articoli dei giornali, il senso comune. Esso ha, nel sostegno all’attuale organizzazione sociale ed economica, lo stesso ruolo che aveva la religione nel sostegno al sistema feudale. Ogni critica all’attuale organizzazione deve quindi passare attraverso una rinnovata “critica dell’economia politica”. Di una tale critica avranno bisogno i vari movimenti “anti-globalizzazione”, e in particolare coloro che, come i sovranisti, intendono recuperare la sovranità popolare organizzata entro le strutture dello Stato-nazione democratico.
Parlando di “critica dell’economia politica” ho usato, come è ben noto, una tipica espressione marxiana. Con questo non intendo dire che Marx debba essere l’unico, e forse neppure il principale, riferimento di una tale critica. Ritengo però che una tale impresa intellettuale, tutta da costruire, non possa prescindere dai contributi di Marx e della migliore tradizione marxista.
Se tiriamo le fila del discorso fin qui fatto, e teniamo presente il senso di quanto detto, possiamo forse concludere che una nuova cultura, capace di difendere contenuti di civiltà dalla crisi globale incipiente, sorgerà, in connessione con movimenti sociali e politici di tipo “antisistemico” e “anti-globalizzazione”, da una rinnovata “critica dell’economia politica” e dalla creazione di nuovi saperi capaci di superare la contrapposizione fra rigore e significato, e sfocerà, presumibilmente, in una nuova complessiva visione del mondo, in un rinnovato approccio filosofico alla realtà umana.
Questo intervento è pubblicato anche sul blog “Badiale&Tringali”: http://www.badiale-tringali.it/2016/01/quale-cultura-nella-decadenza.html
Caro Marino,
ho qualche perplessità sulla utilizzabilità della formula “decadenza di civiltà” applicata all’intero globo.
Ciò vale sia in generale, intendo con riguardo ad ogni tempo storico, sia in particolare, con riguardo al tempo presente.
In particolare, non mi sembra che la crisi economica possa essere predicata con riguardo alla Russia alla Cina o all’India.
La crisi economica non è una costante della Russia, che negli ultimi 15 anni ha visto complessivamente migliorare i suoi indici e nemmeno della Cina, la cui crisi economica, da tempo annunciata, non è nemmeno iniziata. Anche l’India mi sembra che da anni veda una crescita continua del PIL. Già questi tre stati hanno la metà degli abitanti del pianeta.
Quanto poi alla crisi geopolitica, essa, come crisi della pax statunitense, è indubbiamente universale, perché è un fatto che è vero per tutti. Ma si tratta di una crisi attesa da molti, voluta da parecchi e persino provocata da alcuni. Le prospettive geopolitiche della Russia o della Cina mi sembrano migliori di ciò che i più potevano attendersi o si attendevano venti anni fa:per Cina e Russia dunque non si ha decadenza ma aumento di potenza. L’aumento del rischio di guerra tra potenze è un costo necessario della crisi della pax statunitense. Non si può desiderare il passaggio dall’unilaterlaismo al multilateralismo, senza al contempo “desiderare” (ossia sapere che verrà) il rischio del conflitto. E non so nemmeno se per le medie potenze, i popoli agli albori o le nazioni in crisi, lo scontro tra grandi potenze (non nucleare, si spera e si crede) sia una ipotesi peggiore dell’alleanza tra le grandipotenze, che schiaccerebbe tutti.
Sempre sotto il profilo geopolitico, non so se da un punto di vista neutrale e descrittivo possa considerarsi parte della decadenza geopolitica la reislamizzazione in atto nei paesi islamici, dove i “laici” diventano semilaici, i semilaici diventano islamici, gli islamici islamisti e gli islamisti guerrieri disposti al martirio (decine di migliaia). Certamente, nei paesi islamici, per i vecchi detentori del potere c’è crisi. Ma per altri popoli, altre elite, altre ideologie si aprono spazi inattesi.
Solo la crisi ecologica è universale, per sua natura. Ma essa non è avvertita come crisi fondamentale dalle popolazioni (che sentono mille volte di più il peso della povertà, dell’impoverimento, del fallimento, della emigrazione, della disoccupazione e dei conseguenti fallimenti familiari) e non dà luogo e forse non può dar luogo a proposte politiche degli Stati, almeno relativamente ai suoi tratti “globali”, come il riscaldamento globale, forse anche perché il riscaldamento globale, almeno nel medio periodo, che è l’unico ad assumere una rilevanza storico-politica, se svantaggia alcuni stati ne avvantaggia altri.
Le tre crisi, invece, possono essere oggettivamente predicate per il mondo “occidentale”.