Battaglia storiografica e battaglia politica
di LUCA MANCINI (ARS Lazio)
Battaglia storiografica e battaglia politica sono completamente distinte, poiché si pongono due obiettivi differenti. La prima viene condotta da colui che è in cerca della Verità, la quale, per definizione, è una sola e non può essere altrimenti. Come ha ben spiegato Carlo Ginzburg nel libro Il filo e le tracce, lo storico non può essere relativista, ma deve accettare l’esistenza della Verità, una e indissolubile, altrimenti il suo mestiere perderebbe completamente di valore.
Al contrario, la battaglia politica viene portata avanti in nome della Giustizia. Ogni politico o rivoluzionario s’indigna quando ritiene di esser dinanzi ad un’ingiustizia e fa tutto ciò che è in suo potere per riaffermare ciò che egli giusto.
La Storia narra gli eventi, spiega come sono successe determinate cose, ma non può e non deve dire se determinati fatti furono giusti o sbagliati. Non è compito dello storico affermare se la Shoah, il massacro dei contadini ucraini in URSS o le condizioni del proletariato nei paesi capitalistici furono eventi giusti o sbagliati. Umanamente dovremmo tutti essere portati a condannare tali fatti, ma colui che veste i panni dello storico deve semplicemente raccontarli, in quanto fatti realmente accaduti e perciò assolutamente veri.
Al contrario, il politico non è in cerca della verità, ma di un assetto sociale ed economico che egli ritiene più giusto. Chiedete ad un qualsiasi politico cosa sia per lui la giustizia, ed egli tenderà ad identificarla con il benessere collettivo, ma quello su cui la battaglia politica si divide è: come raggiungerlo? Quando Stalin diede l’ordine di far morire di fame i contadini ribelli, lo faceva perchè nella sua mente quella era la cosa più giusta da fare, poiché riteneva che i contadini fossero eccessivamente attaccati alla proprietà privata e quindi una sorta di piccolo borghesi. Lo stesso discorso vale per Hitler con gli ebrei o per il pugno duro utilizzato dalla Thatcher nei confronti dei minatori inglesi. Essi erano politici e agivano per ciò che ritenevano più giusto. Attraverso l’eliminazione fisica o la subordinazione di un determinato gruppo sociale o nazionale essi cercavano un assetto socio-economico che ritenevano più giusto.
Giudicare se tali fatti furono giusti o sbagliati spetta all’agone politico, al quale tutti gli uomini partecipano, in quanto “animali politici”, ma la Storia è un’altra cosa e spesso si nota una strana confusione su cosa essa sia realmente. Il problema nasce dal fatto che ci sono in giro troppi storici che, più o meno consapevolmente, scrivono libri di politica. Mentre ai politici è concesso di utilizzare la Storia o la Verità per dar maggior forza alla loro battaglia o per sminuire quella dell’avversario, gli storici non possono usare la categoria di “giustizia”, che è politica, nei loro discorsi. Con ciò non si vuole affermare che uno storico non debba far politica, sarebbe innaturale in quanto anch’egli uomo e perciò “animale politico”, tuttavia la società umana chiede uno sforzo maggiore a questi individui, ossia quello di distinguere i due piani. Da un lato, l’uomo politico in cerca della Giustizia, esattamente come tutti gli altri, dall’altro l’uomo storico in cerca della Verità e perciò il più imparziale possibile.
Quando uno storico utilizza la categoria di “giustizia” per scrivere un articolo o un libro, egli sta arrecando un danno inimmaginabile alla Storia, poiché inevitabilmente esso metterà un giudizio politico all’interno di una ricerca storica ed in quel momento egli non è alla ricerca del vero, bensì del giusto.
Un esempio importante è quello della storiografia marxista sul fascismo, la quale ha raccontato per diversi decenni il fascismo come un regime reazionario di piccolo-borghesi, spiegando il consenso che esso riscuoteva, semplicemente attraverso il terrore e sminuendo o addirittura cancellando le politiche sociali del regime. In questo modo, essi erano alla ricerca di una giustificazione politica e pertanto raccontarono una verità parziale, come ampiamente dimostrato dai libri di Renzo De Felice ed Emilio Gentile. Oppure, ancora oggi, il nazionalsocialismo tedesco viene chiamato “nazismo”, eliminando completamente il termine “socialismo”. Come dimostrato da George Mosse, questa fu un’opera ad hoc della propaganda sovietica durante il conflitto e poi, ovviamente assimilata dalla storiografia marxista, mirante ad eliminare il termine “socialismo”, che avrebbe necessariamente implicato una qualche parentela con il regime sovietico. Eppure, come ci ricorda Mosse, non solo erano nazionalsocialisti, ma la loro bandiera aveva uno sfondo rosso.
Dunque, è importante avere ben chiara in mente la distinzione tra storiografia e politica. Se un politico è alla ricerca della verità, egli deve sapere che in quel momento sta svolgendo le funzioni di storico, sperando ne abbia le competenze, cosa che spesso non accade; mentre se uno storico sta cercando di giustificare un determinato periodo storico, probabilmente, ha sbagliato mestiere.
Viva la Repubblica sovrana!
Non sono d’accordo con il post. Lo storico deve anche interpretare i fatti e dare un suo giudizio.
Inoltre,anche la ricostruzione degli eventi, essendo basata su un punto di vista personale è
per forza di cose parziale. Dobbiamo cercare di metterci in testa una buona volta che la
Verità,quella con la V maiuscola,semplicemente non esiste.
Se la Verità non esistesse e non fosse una, la Storia non esisterebbe. In questo modo si scivolerebbe verso un relativismo, che è assai pericoloso, perchè se la Verità non esiste, allora tutto si può negare e mettere in discussione.
Tenderei ad essere d’accordo con l’articolo, almeno per quanto riguarda una concezione ristretta e propria, ossia oggettiva, della nozione di “verità”.
I fatti nudi e crudi sono accertabili. Anche nei casi ideologicamente estremi.
Consideriamone uno molto estremo: la politica economica del regime nazionalsocialista nei primi tre anni.
Quanto impiegò il regime nazionalista a raggiungere la piena occupazione? Tre anni?
Quando, secondo gli economisti, una economia si dice “di guerra”?
Applicando i criteri proposti dagli economisti alla Germania nazionalsocialista, la politica economica di quest’ultima in quei primi tre anni fu di guerra?
Quali norme giuridiche disciplinavano la distribuzione degli utili delle imprese, piccole o grandi? Come era disciplinato il commercio internazionale, in particolare la circolazione dei capitali? Erano previsti prestiti forzosi? E se si erano permanenti? Esistono altri casi di raggiungimento così rapido della piena occupazione?
Poi accertati questi ed altri fatti connessi, si giudica se, rispetto alle altre economie non pienamente pianificate, quella nazionalsocialista fu la più socialista che ci sia stata nella storia o tra le più socialiste. E qui il tifo può far dividere, perché si sta giudicando, ma spesso i dati non consentono di negare la realtà.
Lo storico militante, invece, che non accerta un bel niente, tenderà a trascurare questi problemi e le loro soluzioni, tenderà, quindi a non indagare e accertare questi fatti.
E anche se Galbraith (padre), un economista decisamente di sinistra, ha sostenuto e documentato (tutto si può e deve verificare, ovviamente) che non fu una economia di guerra, che non potevano essere distribuiti utili superiori al 6% e che la parte rimanente era forzosamente prestata allo Stato, al 2,5% di interesse (poi mi sembra al 5%, qualche cifra potrei sbagliarla); che attraverso una moneta per gli scambi internazionali si promosse una forma estesa di baratto con le altre nazioni; e tutta un’altra serie di provvedimenti favorevoli ai lavoratori, gli storici militanti trascureranno per decenni di citare e valutare simili provvedimenti, precludendo, in primo luogo a se stessi, di sapere, di conoscere e approfondire una esperienza storica sotto il profilo della politica economica. Essi non narrano la storia ma la falsificano o ignorano.
E ciò del tutto irrazionalmente, perché la politica economica non ha nessun legame con il razzismo, il nazionalismo imperialista e la dittatura.
In realtà, quando lo storico militante è un liberale, sta facendo propaganda.
Invece, quando è un socialista, è soltanto una persona masochista, perché affetta da un disturbo mentale che attiene alla psicologica collettiva di un gruppo ideologico.
Discutere di fatti reali (quindi veri) è ovviamente compito dello storico. Una volta che i dati sull’economia nazionalsocialista vengono dimostrati come veri, discutere su quanto sia realmente socialista tale economia è compito dello storico. In quel momento egli si sta domando: “ma è vero o no che i tedeschi erano socialisti? se si, quanto?”. In questo caso il problema quindi è sempre dimostrare se la mia domanda storica è vera o meno. Diverso è il discorso se uno storico parte da un ragionamento diverso, ossia: “non è giusto paragonare l’economia nazionalsocialista e quella sovietica per vari motivi.” In una frase come questa, egli sta implicitamente sostenendo un giudizio di tipo etico sul nazionalsocialismo o sull’URSS, pertanto sta scadendo nella politica.
Gli storici militanti non hanno mai imparato che una comparazione non è un’equazione. Questo è il loro grande limite.
Finalmente un articolo che prende in considerazione la fondamentale distinzione tra attività teoretica (storiografia) e attività pratica (politica) a lungo elaborata da Benedetto Croce ed espressa magistralmente in “La storia come Pensiero e come Azione”. (http://ojs.uniroma1.it/index.php/lacritica/article/view/6123/6106)
Quello di “distinzione”, del resto, è un concetto di relazione. L’azione pratica razionale richiede la comprensione della realtà che è stata: necessita della storiografia. D’altra parte il lavoro teorico sarebbe inconcepibile senza l’interesse per la realtà presente nella quale si deve operare.
PS. Ognuno ha il diritto di studiare l’argomento storico che più ritiene interessante. A me il fascismo e il nazismo provocano un senso di nausea e anche un po’ di vergogna. Per questo preferisco occuparmi della lotta che si sviluppò CONTRO i due funesti regimi.
Parlerei di obbiettività più che di verità, cioè di un atteggiamento proteso ad appurarla orientandosi nel coas infinito e multiforme degli accadimenti reali (solo in parte accertabili). E l’obbiettività non è un dato di fatto ma un atteggiamento dello spirito, necessariamente condizionato dalla personalità e in certa misura dall’orientamento di valore dello storico: il fatto stesso di essere storici economici o militari, di studiare questo o quel periodo, dipende da un interessamento e quindi, in senso lato, da una scelta di valore.
La ricerca del ‘vero’ storico è quindi una continua Auseinandersetzung dello studioso col mondo che lo circonda e con se stesso, (che dovrebbe essere) dominata dallo sforzo di far primeggiare un criterio di lucidità analitica su altre e pur insopprimibili componenti del suo essere.
Il problema è che gli storici, tanto più in quest’epoca di decadenza, ben poco si interessano a criteri di lucidità e pensano soltanto a far passare il loro abbecedario di turno col minimo di problemi e il massimo di rendimento – dunque slinguando la propria parte politica/cordata di appartenenza. De Felice era un’eccezione assai parziale, basti pensare alla sua riconduzione della guerra civile alla categoria mediatica di “morte della patria”.
Gli esseri umani sono troje della vita: ci tengono più a vivere che a fare chiarezza. Per questo disprezzo tanto il pregiudizio umanista.