Massimo Bontempelli
Nelle sue prime opere, una serie di straordinari manuali di storia per le scuole superiori, Massimo Bontempelli si è posto l’obiettivo di sostanziare la storiografia con la concezione materialistica di Marx; uno sforzo grandioso, perché mai i fatti vi sono ridotti ad esempio della concezione: i fatti sono dati nella loro complessità, la concezione non li seleziona servendosene come di esempi, ricorre anzi a tutta la sua elasticità per poterne spiegare l’intima dialettica. In seguito, però, il virtuosismo storiografico e l’intelligenza del presente hanno spinto Bontempelli oltre il materialismo storico.
Ogni filosofia, ha scritto Benjamin, ha torto nei suoi rifiuti. Il materialismo storico rifiuta la sostanzialità dello Stato: la sua pretesa di armonizzare politicamente la società sarebbe ipocrita, perché la realtà sociale è lotta di classe e in questa lotta lo Stato, anziché assicurare la pace, è soltanto una delle armi a disposizione degli sfruttatori. Delle due coordinate della discordia umana, la lotta di classe e la guerra tra gli Stati, Marx ha negato questa seconda. Per un motivo preciso: nella guerra la lotta di classe è sospesa, l’unità dello Stato cessa di ridursi a un’espressione retorica e si impone come realtà. E con una conseguenza importante: poiché il rapporto tra gli Stati è lo stato di natura[1], rifiutando l’originarietà della guerra Marx si dispensa dal pensare lo stato di natura in generale, ossia l’orrore legato all’individualità stessa[2], e indulge alla finzione liberale della sostanziale innocuità dell’uomo naturale.
L’individuo riconosce di poter evitare lo stato di guerra e di avere sicurezza solo se vigono le leggi, solo se tutti rispettano l’altrui sicurezza; ma senza Stato che punisca chi si sottrae al rispetto delle leggi non ci sono pace né difesa, neanche società, neanche lavoro. Il compito originario dello Stato, per quanto sia sgradevole riconoscerlo, è punire l’illegalità così da trasformare una moltitudine in società. Marx ha rifiutato allo Stato un ruolo effettivo perché esso consolida l’antagonismo sociale, anziché domarlo; ma gli si potrebbe obiettare che l’antagonismo sociale presuppone nel suo stesso concetto la società e che la società presuppone lo Stato; che, in quanto è interno alla società, l’antagonismo è in qualche misura già domato, è una discordia di individui che si sono decisi per la concordia, che con il patto sociale si riconoscono cioè come cittadini dello Stato, per evitare di essere travolti nello stato di guerra.
Il presentimento di questa debolezza di Marx ha spinto Bontempelli verso il suo superamento, senza che venisse meno la fedeltà politica – esattamente l’inverso di quanto è accaduto alla sinistra in generale, che ha potuto consumare ogni possibile tradimento politico appellandosi alla filosofia antistatalista propria di Marx. Come storiografo, Bontempelli è già oltre Marx quando rileva che lo Stato-nazione «costituisce una sfera politica che lascia spazio alle potenze mercantili, le alimenta e le protegge rispetto allo spazio esterno, ma senza ridursi ad essere niente altro che un loro strumento»[3]. Come filosofo la concezione marxiana dello Stato come strumento della classe dominante continua invece ad influenzarlo al punto da spingerlo a esprimersi talvolta in un senso vicino al liberalismo: «Ogni individuo, … per il fatto stesso di vivere in una società è esposto alla violenza contro la sua persona da parte del potere che organizza l’ordine di quella società, ovvero manca in qualche misura di sicurezza personale»[4]. Si vede subito che qui l’ordine sociale è tacitamente concepito come disordine, la società come guerra, e viceversa l’individuo come vittima innocente di una violenza che non viene da lui – ma se le parole devono essere usate secondo il loro significato diretto, allora è forse più opportuno dire il contrario, che l’ordine sociale è sempre in qualche misura esposto alla violenza dell’individuo, che questi gode di una sicurezza personale in virtù dello Stato e si espone alla violenza della pena solo se sceglie di turbare l’ordine sociale.
Come storiografo Bontempelli riesce come nessun altro a legare il lato casuale della realtà, l’individualità empirica che è accessibile soltanto al raccontare, all’oggetto della filosofia. Dapprima, spinto da Marx, lo fa concependo l’essenza come dover-essere, ossia, per usare una metafora matematica, come punto di incontro tra la curva e il suo asintoto; ma un’esigenza hegeliana lo porta a concepire l’essenza (il dover-essere) anche come reale (come essere) – con un’altra metafora matematica: come valore medio che interpola i valori estremi. Proprio questa seconda esigenza permette alla sua storiografia quel rispetto, anzi quell’amore per l’oggetto che lo inabissa nelle bibliografie e gli consente di seguire le minime venature dei suoi significati. Un’esigenza più facile da soddisfare quando la distanza temporale separa l’oggetto dal soggetto e consente a questo lo sguardo spassionato che chiede soltanto di accendersi al fuoco della verità. Di qui la passione per la storia antica. Ma un processo di maturazione, che la crudeltà del caso ha interrotto, lo ha portato a una visione più filosofica dello stesso presente. Così nella “Civiltà occidentale” si approccia al tema del diritto non più con intenzione demistificante, ma consapevole della maestà dell’oggetto. Se si legge il capitolo sulla rivoluzione francese in “Storia e coscienza storica” si è colpiti dalla fretta con cui sono esposti i tentativi costituzionali della rivoluzione, innanzitutto la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, di cui si limita a ripetere le critiche marxiane. Una concezione asintotica della verità indeboliva la concezione interpolante. In “Civiltà occidentale” il debito contratto in precedenza è saldato a usura, col racconto della genesi storica della “Dichiarazione” e della sua importanza storico-filosofica: per la prima volta lo Stato riconosce la persona, per la prima volta i rapporti tra governanti e governati sono basati, anziché soltanto sul terrore o sul paternalismo, sull’universalità della legge.
Qui Bontempelli avrebbe dovuto confrontarsi con l’etica hegeliana e domarne una volta per tutte le difficoltà. Le difficoltà che la filosofia hegeliana gli ha opposto sono un effetto del suo virtuosismo storiografico che lo rendeva maestro nel trovare l’ordine nel disordine dei dati. La ricerca dell’ordine è lo sforzo dell’intelletto; tanto più ci si impegna in questo sforzo tanto più si rischia di restare disorientati di fronte alla ragione: sono ambedue pensiero, ma mentre l’intelletto è il pensiero che fissa la costanza nel divenire, il necessario nel casuale, la ragione ha il suo campo nelle incoerenze dell’intelletto. Esse, come ha scoperto per primo Kant, non sono un difetto casuale o un errore soggettivo, sono un effetto necessario della determinatezza dei principi intellettuali: per questa determinatezza essi producono antinomia. Il compito della ragione è mostrarla e risolverla, cioè non semplificare il complesso, ma complicare il semplice fino a quando le differenze generate si compongano in un sistema e vi si semplifichino. La soluzione dell’antinomia ha così essa stessa qualcosa di costante, cui corrisponde una realtà essenziale, durevole; ma la costanza razionale non è la fissità intellettuale: è un movimento circolare in cui gli opposti si negano nell’altro e si riproducono dall’altro.
Le difficoltà legate alla conoscenza di Hegel, che spingono Bontempelli ad accogliere contributi ora dal liberalismo, ora dall’esistenzialismo, sono liberamente accettate pur di sottrarsi alla morsa del positivismo. Questo concepisce l’intelletto come forma suprema di conoscenza, perché ignora le antinomie che gli sono proprie, o perché, una volta che le abbia di nuovo scoperte, può rifugiarsi nello scetticismo. In ogni caso la conoscenza filosofica, che mantiene vivo nella stessa idea il contrasto tra essenza ed esistenza articolandolo in un movimento metodico, ne è umiliata a forma prescientifica, e le scienze, unificate in una scienza, diventano constatazione di fatti privi di senso. Bontempelli, che insieme a Fabio Bentivoglio, è autore di una storia della filosofia che si intitola “Il senso dell’essere nelle culture occidentali” non poteva rassegnarsi a questa neutralizzazione della scienza. «Scienza» per lui – come per Hegel – ha sempre avuto una inestinguibile carica di senso.
Una delle principali preoccupazioni che Bontempelli ha percepito in Hegel è stata quella di rappresentare i concetti speculativi più tradizionali della filosofia con le leggi che le scienze moderne avevano intanto accumulato, in particolare con quelle evidentemente non risolvibili in termini di semplice intelletto. Solo in questo modo le scienze moderne potevano mostrarsi come particolarizzarsi delle forme semplici della verità già esposte dai Greci e sedimentate nel linguaggio filosofico; solo in questo modo è possibile redimere la storia dall’evoluzionismo positivista. La ragione hegeliana è un movimento circolare tra antinomie: nel movimento è possibile salvare la storia, nella sua circolarità è possibile fissarne il senso; il positivismo è l’impresa contraria – in tutti i sensi: quella vuole connettere il razionale della filosofia non solo alle scienze ma anche alle forme non razionali come l’arte e la religione, questo, pur di liquidare l’antico in favore del moderno, si acceca sul senso delle stesse scienze considerandole un risultato dell’induzione, relega arte e religione a immaginazioni private. In altri termini, poiché non sa che cosa sia la ragione, il positivismo non sa riconoscerla, non solo negli ambiti non scientifici e nella filosofia, ma neanche nelle scienze: di esse apprezza la semplice utilità – senza che il suo ottimismo si accorga che le scienze possono essere utile all’orrore non meno che alla felicità.
La storiografia ha chiesto molto a Bontempelli, ma poi lo ha ripagato con generosità: insieme a Marino Badiale egli ha potuto diradare la pesante nebbia di menzogne cui è ridotta l’attuale opinione pubblica e gettare uno sguardo penetrante su ciò che era accaduto alla sinistra, all’Europa e al capitalismo mondiale. «La sinistra rivelata» esce nel febbraio del 2007, pochi mesi prima dell’inizio della grande crisi da cui il capitalismo non esce ancora. In quel momento il neoliberismo appariva ancora vincente, ma Bontempelli e Badiale non se ne lasciano intimidire; la loro è una visione geniale che non ha perduto nulla della sua lucidità: la sinistra appare del tutto assimilata alla destra in una gara di servilismo in favore dei centri di potere finanziario e dell’imperialismo americano; l’Unione Europea appare una «camicia di forza»[5] per sottrarre agli Stati europei ogni strumento di politica economica. Del capitalismo mondiale Bontempelli e Badiale individuano il momento di svolta nella brutale manovra monetaria anti-inflattiva di Paul Volcker nell’ottobre 1979 con cui lo Stato cessa di porsi come obiettivo la piena occupazione e restituisce al capitalismo il pieno dominio sulla forza lavoro. Dal 2007 nuovi elementi conoscitivi si sono aggiunti al quadro che «La sinistra rivelata» ha tracciato; ma resta la sua diagnosi sconsolata: non esiste ancora forza sociale in grado di contrapporsi al «capitalismo assoluto», ancora oggi, nel momento in cui il neoliberismo si mostra una volgare ideologia animata da fanatismo suicida. Come tale esso resta più forte del nichilismo paralizzante gli individui. Bontempelli constata questo annichilimento dell’individuo: «La civiltà occidentale è … incompiuta, … perché la sua pietra angolare, e cioè la libertà individuale, che per un verso è essenziale per la vita degli individui, per un altro verso ne designifica i contenuti»[6]. Se la società è prodotta dallo Stato, anche il degrado della società è prodotto dal degrado dello Stato, e poiché è l’universalità della sua legge ciò che sostanzia l’individuo, questi regredisce nella miseria dei suoi impulsi immediati. L’attuale miseria dell’individuo europeo è forse un riflesso della miseria politica degli Stati europei che non vogliono più distinguere l’amico dal nemico: nell’individuo la loro completa subalternità politica si mostra come stupido disprezzo dei legami sociali su cui è costruita la sua libertà.
[1] Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 333.
[2] Una volta Karl Kraus ha scritto che il diavolo è un povero illuso se crede di poter rendere l’uomo ancora più cattivo di quanto sia.
[3] Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Civiltà occidentale. Un’apologia contro la barbarie che viene. Il canneto editore, Genova 2009, p. 45.
[4] Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Civiltà occidentale, cit., p. 25.
[5] Marino Badiale, Massimo Bontempelli, La sinistra rivelata. Il Buon Elettore di Sinistra nell’epoca del capitalismo assoluto. Massari Editore, Bolsena 2007, p. 297.
[6] Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Civiltà occidentale, cit. p. 64
Commenti recenti