Sì, è il felice paradosso della prima Repubblica. Il tentativo, questa volta, è in gran parte riuscito perché è stato condotto con maggiore intelligenza rispetto ai decenni precedenti e ha avuto grandi protagonisti. Cito innanzitutto Enrico Mattei, che in effetti ha attuato una politica di potenza e di espansione in tutta l’area, con metodi che irritavano gli altri paesi occidentali. E poi, colui che gli è succeduto negli obiettivi politici: Aldo Moro. Anche le sue iniziative entrarono in conflitto con tutti coloro che avevano interessi forti e consolidati nel Mediterraneo.
Enrico Mattei, Aldo Moro. Non voglio indurla a trarre subito delle conclusioni. Però, la coincidenza è impressionante: i due maggiori protagonisti della politica di espansione italiana nel Mediterraneo, a un certo punto, sono stati entrambi assassinati.
Due omicidi ovviamente politici, di uomini di rilievo dell’Italia del secondo dopoguerra. Sì, la coincidenza è impressionante. Non dimentichiamo la lezione della storia: gli uomini politici capaci di iniziative davvero forti generano reazioni altrettanto forti, compresi progetti di eliminazione fisica.
La loro politica, ha detto, si è scontrata con tutti coloro che avevano interessi consolidati nel Mediterraneo. L’Inghilterra. E poi?
La Francia. Sì, la Francia forse è stata una delle vittime principali della politica italiana. Non dimentichiamo che Mattei prima appoggiò in tutti i modi la guerra di liberazione algerina dai coloni francesi. E poi contribuì a fare dell’Algeria uno dei paesi più forti del Nord Africa; si è irrobustita, dopo la conquista dell’indipendenza, grazie agli aiuti italiani. E tuttora mantiene con noi un rapporto di alleanza e di collaborazione economica, molto proficuo anche per il nostro paese.
Qual è stata la leva su cui si è appoggiata la politica italiana in quest’area?
Una politica petrolifera basata sull’offerta di un rapporto paritario con i paesi produttori. L’Eni garantiva il cinquanta per cento contro il trenta delle altre compagnie occidentali. E in questo modo l’Italia assestò un colpo mortale agli interessi francesi e inglesi. Ma non solo. La politica mediterranea dell’Italia si è appoggiata anche su un’efficace azione di propaganda e di guerra psicologica tesa a mettere i nostri concorrenti in cattiva luce.
E in quali altre aree del Mediterraneo si è manifestato l’«interventismo» italiano?
Per rimanere ai conflitti con la Francia, direi in Corsica. Lì, da parte nostra, c’è sempre stata una politica sotterranea favorevole non dico all’indipendenza di quella regione, ma sicuramente a una sua maggiore autonomia dai francesi. Vede, sotto certi aspetti, la Corsica è molto più «italiana» della Sardegna. Quindi il nostro appoggio alla causa autonomista era naturale, e non è mai venuto meno sin dal passaggio dell’isola ai francesi.
Se con la Francia il conflitto si concentrò soprattutto sull’area maghrebina e sulla Corsica, con l’Inghilterra la partita si giocò sulla Libia. È così?
Sì, almeno fino ai primissimi anni Settanta soprattutto in Libia, che dopo la Seconda guerra mondiale era passata sotto il mandato inglese. E già quella decisione era stata preceduta da un contenzioso molto duro, perché Stati Uniti e Unione Sovietica volevano che una parte del territorio libico restasse sotto il mandato italiano. Ma alla fine la spuntarono gli inglesi. L’influenza britannica in Libia si fondava sul potere della famiglia del re Idris. Il quale fu deposto nel 1969, con un colpo di Stato dei giovani colonnelli guidati da Muammar Gheddafi. Idris era andato a passare le acque in Turchia e Gheddafi ne approfittò.
C’era la mano dei servizi segreti italiani dietro il golpe di Gheddafi?
Il colpo di Stato fu organizzato in un albergo di Abano Terme. Penso proprio di sì, c’era dietro la mano italiana. Appena Gheddafi prese il potere, per la parata trionfale noi gli mandammo in quattro e quattr’otto navi cariche di carri armati, intere divisioni, lasciando addirittura sguarnite le nostre difese ai confini.
Nel 1969 la Libia non era ancora una potenza petrolifera. Quale interesse poteva avere, l’Italia, a rimetterci sopra le mani?
Noi sapevamo che cosa conteneva quello scatolone di sabbia, perché avevamo fatto delle ricerche già prima della guerra. Sapevamo che c’era il petrolio e che i giacimenti erano immensi. La Libia ci faceva gola, perché poteva costituire la nostra riserva strategica, il carburante del nostro sviluppo economico. Come in effetti è poi avvenuto.
Quale fu l’effetto del golpe di Gheddafi sull’equilibrio in quell’area?
I libici chiusero immediatamente le basi inglesi e americane, espellendo i militari dei due paesi.
Però vennero espulsi anche migliaia di italiani.
Certamente. Ma nonostante questo, l’Italia divenne subito il principale partner economico di Gheddafi. Mentre gli inglesi, perdendo la Libia, di fatto si ritrovarono fuori dal Mediterraneo. Perché, di lì a poco, furono costretti a lasciare anche le isole di Malta e Cipro.
Come reagirono gli inglesi al colpo di stato in Libia?
Secondo un’ipotesi non provata, dietro la strage di Piazza Fontana ci sarebbe stato un mandante inglese. Ripeto, tutto da provare. Tuttavia, alcuni elementi portati a sostegno di questa ipotesi danno da pensare. Innanzitutto la data, dicembre 1969, a poco più di tre mesi dal golpe di Tripoli. Poi il legame degli ambienti neofascisti italiani, accusati dell’organizzazione della strage, con il principe Junio Valerio Borghese, indicato dalla stessa storiografia di destra più recente come un uomo legato ai servizi britannici sin dagli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale. Inoltre, il fatto che l’espressione «strategia della tensione» fosse stata coniata proprio dalla stampa inglese in quello stesso dicembre 1969. Quell’espressione pesa ancora oggi come un macigno sulla nostra storia, perché continua a essere la chiave d’interpretazione non solo di Piazza Fontana, ma dell’intero periodo degli anni di piombo. Un altro elemento merita di essere ricordato: l’esplicita accusa mossa agli inglesi dall’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Pochi giorni dopo la strage, quando i giornali inglesi tornarono a parlare di «strategia della tensione» per alludere a responsabilità tutte italiane, Saragat reagì ritorcendo l’accusa contro gli inglesi, riferendosi a sua volta ai rapporti dei servizi britannici con gli ambienti in cui era maturato il progetto dell’attentato.
Piazza Fontana, tutto da dimostrare. Ma le reazioni inglesi sono provate?
Tentarono subito di riprendersi quello che avevano perso in Libia. Ma non ci riuscirono, perché l’Italia proteggeva il regime di Gheddafi. Poco più di un anno dopo il golpe, organizzarono una spedizione militare segreta.
Con il golpe di Gheddafi in Libia, si accentua dunque il filo arabismo della politica estera italiana nel Mediterraneo.
E ancora di più negli anni successivi. Ma, vede, la nostra politica estera è sempre stata caratterizzata da una linea filoaraba. Fin dai primi del Novecento, addirittura già con Francesco Crispi. Era quasi una necessità imposta dalla nostra collocazione geografica.
Poi, però, concluso il secondo conflitto mondiale, inizia un’altra storia: l’Italia, nazione sconfitta in guerra, comincia a rialzare la testa nel Mediterraneo.
Sì, rialza la testa, riprende i vecchi disegni e le antiche ambizioni. Però li nutre e li fortifica con robuste iniezioni di razionalità e di saggezza. Dal piano militare, il conflitto si trasferisce sul terreno politico-diplomatico e della concorrenza economica. La politica di Mattei, insomma.
Con quali mire? Quali erano le coordinate della politica mediterranea italiana nel secondo dopoguerra?
L’influenza sul Nord Africa; il controllo delle grandi isole del Mediterraneo, come Malta e Cipro; e, se possibile, delle due porte di accesso, lo stretto di Gibilterra e il canale di Suez. Di fatto, l’obiettivo era sostituirsi a Francia e Gran Bretagna.
Ambizioni, se non da grande, certamente da media potenza. Per una nazione appena sconfitta in guerra, non era un po’ troppo?
Il progetto era molto ambizioso. In un certo senso, coincideva con quel disegno di Mussolini che voleva per il nostro paese sbocchi sugli oceani Indiano e Atlantico. Con una differenza rispetto al passato: alla luce dei risultati ottenuti, era sicuramente alla portata della classe dirigente italiana di quel secondo dopoguerra.
Parliamo ora di un’altra delle sue inchieste, quella sulla strage di Ustica, che sembra evocare scenari del tutto diversi da quelli descritti finora.
Apparentemente. In realtà ci aiuta a illuminarli meglio, consentendoci di intravedere con maggiore chiarezza una delle chiavi interpretative della storia tragica che abbiamo vissuto, proprio uno dei fili che percorre e lega le pagine di questo libro.
Vediamo. La sera del 27 giugno 1980 un DC-9 dell’Itavia esplode sul Tirreno mentre vola da Bologna a Palermo. Gli ottantun passeggeri a bordo muoiono tutti. Non hanno mai avuto giustizia: non ci sono colpevoli per quella strage, non esiste una verità giudiziaria. E i vertici dell’Aeronautica militare italiana dell’epoca, imputati di depistaggio, sono stati tutti assolti. Lei tuttavia ha raccolto una mole impressionante di materiale durante la sua istruttoria. Sulla base di quelle carte e delle informazioni emerse dopo i processi, è davvero possibile intravedere una verità?
Sì, abbiamo comunque raccolto elementi e informazioni che ci portano alla verità. Una verità però «indicibile», quella che non è stato possibile rivelare in occasione dell’inchiesta giudiziaria, come del resto è capitato in molte altre inchieste su episodi oscuri della storia italiana recente, a cominciare dalle stragi e dai legami internazionali del nostro terrorismo. Una verità, su Ustica, misconosciuta dalle sentenze assolutorie, ma che oggi viene affermata a mezza bocca anche dalle più alte istituzioni. Ma la si dice e poi quasi la si ritratta, nella speranza che, con il tempo, venga disinnescato il suo effetto deflagrante, e quindi venga rimossa.
Ustica, intanto, è un’intricatissima storia internazionale: questo si può dire?
Accidenti se lo è. Perché ci sono colpe e responsabilità dirette di più paesi. Per non parlare di tutti gli altri che sanno ma che non possono o non vogliono dire. Insomma, la strage di Ustica è un caso coperto dall’omertà internazionale, che è ancora più impenetrabile di quella di una semplice cosca mafiosa siciliana o di una ’ndrina calabrese. Tenga poi conto che le stragi «silenti», cioè senza rivendicazioni, come quella di Ustica e la quasi totalità delle stragi compiute in Italia, sono in genere dei messaggi da governo a governo, che i governi recepiscono e comprendono, agendo poi di conseguenza. Quella di Ustica, inspiegabile alle prime battute, si è poi immediatamente aggrovigliata soprattutto a causa di intese scellerate e di intrighi fra istituzioni nazionali e internazionali.
Il DC-9 Itavia fu attaccato e abbattuto da altri aerei?
È assai probabile. Anzi, direi che è certo. Anche se penso che sia successo per errore: non era il DC-9 Itavia l’obiettivo, ma altri aerei che in quel momento volavano nella scia del DC-9 per proteggersi dalle intercettazioni dei radar. Questo lo abbiamo appurato. E possiamo affermare con certezza anche che gli attaccanti erano aerei militari, aerei da caccia.
È possibile trarre una conclusione certa?
Direi proprio di sì. È evidente che il DC-9 fu abbattuto da uno o più aerei militari sicuramente indirizzati verso l’obiettivo da un’efficiente «guida caccia», un potente sistema radar in grado di «vedere» anche a centinaia di chilometri di distanza.
Ricapitolando, quella sera, quanti aerei erano in volo tra gli Appennini e il Tirreno?
Questo non è facile stabilirlo con esattezza. Dopo il decollo del DC-9 apparvero due caccia non identificati, che però scomparvero quasi subito ai radar: potrebbero essere atterrati o essersi nascosti dietro un aereo, probabilmente quello dell’Itavia. Poi c’era l’Awacs [Airborne Warning And Control System: radar volante. NdR]; quindi uno o due caccia non identificati che puntarono sul DC-9; e, infine, i due caccia dello stormo di Grosseto, pilotati da Mario Naldini e Ivo Nutarelli.
I due ufficiali morti qualche anno dopo nell’incidente di Ramstein, durante un’esibizione delle Frecce tricolori?
Esatto. Ufficialmente stavano facendo esercitazioni, addestrando un allievo pilota. Intercettarono il DC-9 nel nord della Toscana, lo affiancarono e lo seguirono fino all’altezza di Grosseto. All’improvviso si accorsero che qualcosa non andava e lanciarono alla base il segnale di allarme, ma non via radio, «squoccando» elettronicamente invece il codice di emergenza. E questa è una prova che Naldini e Nutarelli avevano visto qualcosa di veramente serio, e cioè che dietro l’aereo civile si nascondevano velivoli militari non Nato. Nei colloqui tra loro e con i loro colleghi della base di Grosseto, nei giorni successivi, uno dei due aveva detto che «era successo qualcosa di terribile, che c’era stato un vero e proprio combattimento aereo e che si era sfiorata addirittura una guerra».
Peccato che i due piloti italiani non ebbero il tempo di raccontare ai magistrati quello che avevano visto.
Già. Stavano forse per farlo perché io li avevo già chiamati a testimoniare ma, poco prima che potessi ascoltarli, morirono nell’incidente di Ramstein. Su quell’incidente la magistratura tedesca aprì un’indagine, però i risultati non ci vennero mai comunicati.
A questo punto le devo porre la «madre di tutte le domande»: qual era la verità che non si poteva far conoscere all’opinione pubblica?
C’era un groviglio di verità «indicibili» che nascevano dalla nostra politica mediterranea, in particolare verso la Libia, e dall’irritazione che quella politica provocava nei nostri alleati europei. Se quelle verità fossero venute pubblicamente a galla, non sarebbero rimaste prive di conseguenze.
L’aereo che viaggiava sotto la pancia del nostro DC-9 poteva essere quello di Gheddafi?
Secondo ragionevoli ipotesi, potevano essere uno o più caccia militari libici che tornavano dalla Jugoslavia utilizzando un corridoio senza la copertura del NADGE [NATO Air Defence Ground Environment, il coordinamento contraerei NATO, NdR]. Secondo ipotesi più recenti, quei caccia dovevano prelevare il leader libico sul Tirreno e scortarlo in un viaggio nell’Europa dell’Est. Ma, avvertito da qualcuno dell’imminente pericolo, all’altezza di Malta l’aereo avrebbe improvvisamente cambiato rotta per tornare in Libia.
Chi voleva uccidere Gheddafi?
Di recente, a inchiesta giudiziaria ormai conclusa, dopo che le sentenze di assoluzione dei generali erano ormai divenute definitive, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che all’epoca era presidente del Consiglio, ha detto qualcosa in proposito. Riferendo informazioni provenienti dall’interno dei nostri servizi, ha parlato esplicitamente di una responsabilità francese. Tenderei a escludere responsabilità dell’amministrazione americana dell’epoca. Primo, perché ne era a capo il democratico Jimmy Carter, che al tempo manteneva rapporti con la Libia; addirittura la riforniva di armi. Secondo, perché gli americani ci aiutarono nell’inchiesta, più degli italiani. La stampa italiana allora accusò brutalmente gli Stati Uniti, ma da Washington noi abbiamo avuto tutta la collaborazione possibile: dalle perizie di Macidull e Transue delle prime ore all’istituzione dell’«Ustica Desk», che dette risposte addirittura a un centinaio di rogatorie.
Ma, durante l’inchiesta, lei chiese informazioni anche ai francesi?
Sì, naturalmente. Ma ci fu opposta una chiusura totale. In tutte le epoche e da tutti i governi. Sia Valéry Giscard d’Estaing sia François Mitterrand si chiusero a riccio, persistendo nella politica di tutela assoluta dei segreti di Stato, a prescindere dal colore dei governi. Qualche indicazione preziosa la ricavai invece da un lungo colloquio con Alexandre de Marenches, il direttore dello Sdece, il servizio segreto esterno francese all’epoca di Ustica. Mi disse che le mie ricerche in Francia non avrebbero sortito alcun effetto, perché se quei servizi avessero tentato un’operazione contro Gheddafi, non avrebbero lasciato alcuna prova. Però ci tenne anche a precisare che, secondo lui, il leader libico doveva essere messo nella condizione di non nuocere più, e farlo era il dovere di più governi.
E lei che sensazione ne ricavò?
Che avesse voluto dirmi la verità su Ustica, ma senza che io la potessi utilizzare sul piano giudiziario. Perché era certissimo che non avrei mai potuto trovare prove nelle carte dello Sdece. Comunque, una volta chiusa l’inchiesta, sono emersi frammenti di verità. Abbiamo già detto delle ammissioni di Cossiga. E poi la notizia, molto attendibile, che l’operazione partì dalla portaerei francese Clemenceau, che si trovava a sud della Corsica e aveva la copertura radar della base a terra di Solenzara.
È possibile, comunque, che l’attacco francese contro Gheddafi avesse in qualche modo la copertura di altri stati interessati all’eliminazione del leader libico?
Visti i rischi che l’operazione avrebbe comportato sia sul piano militare sia su quello degli equilibri internazionali, era bene che se ne occupasse un solo governo. Di sicuro, però, c’erano diversi paesi interessati a una soluzione forte e definitiva del «problema Gheddafi». L’eliminazione del leader libico su Ustica sarebbe stata soltanto la prima fase di un progetto assai più vasto e complesso che prevedeva anche interventi via terra sulla Libia. La caduta del regime di Tripoli avrebbe avuto come conseguenza un riordino dell’intero assetto nordafricano e subsahariano e una nuova spartizione dell’influenza in queste aree ricchissime di risorse. A tutto svantaggio della presenza italiana.
Inserito su www.storiainrete.com il 25 marzo 2011
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