La grandezza di Karl Marx
Gli eredi del Partito comunista italiano hanno creduto che porsi al servizio della globalizzazione liberista sia stata una scelta che non spezzava il filo di continuità con la tradizione. La loro scelta non è stata sentita come un tradimento, ma ha trovato appoggio nella base anche quando la crisi mordeva, la disoccupazione saliva e l’insicurezza diventava la condizione comune dei lavoratori. Essi potevano contare su una lunga abitudine alla fede nella storia e alla negazione della realtà: se i padri del popolo di sinistra hanno potuto credere che i Gulag fossero propaganda capitalista, perché i loro figli non avrebbero dovuto credere che la globalizzazione fosse una nuova fase nel progresso dell’umanità?
Questo fideismo, come ogni fideismo, si radica in una rappresentazione evoluzionistica della storia. Un pensiero critico che voglia appropriarsi del contributo di Marx deve innanzitutto riconoscere che ogni concezione evoluzionistica della storia è ideologia, quella materialistica non meno delle altre. Si crede che il materialismo storico sia il capovolgimento dell’idealismo hegeliano: quello l’evoluzionismo della storia sulla base della struttura, questo l’evoluzionismo sulla base della sovrastruttura, cioè dello Stato e del diritto. Ma le cose non stanno così. Per Hegel la storia è l’ambito della confusione e dell’esteriorità, senza nessuna linea empirica ininterrotta. Solo al filosofo è dato di leggere, in ciò che lo storico accerta, il contenuto di verità, ossia la costituzione delle forme politiche che generano il diritto della persona. L’esplicarsi di questo contenuto ha un carattere logico, non empirico: come ogni concetto, la libertà ha la contraddizione nella sua stessa determinatezza, e questa sua contraddizione cerca il suo risolversi. La contraddizione e il risolversi, che il pensiero coglie in un attimo, non possono essere letti nelle evoluzioni storiche, perché la loro casualità li rallenta lungo i millenni: il superamento dello schiavismo, posto nel cristianesimo come speranza messianica, è realizzato nel diritto moderno che tiene fermo il concetto dell’uomo come persona, ma con una tale lentezza che sembra realizzarsi contro l’eredità del cristianesimo.
La filosofia della storia ha a che fare non con le evoluzioni della storia, ma con le fratture: solo dove irrompe il nuovo, il filosofo, che indugia sui concetti elementari dello spirito, può balzare con l’elasticità della tigre sul materiale storico per farne un momento dell’idea. Non esiste evoluzione storica universale, né, se esistesse, avrebbe interesse per la filosofia della storia; esistono molte storie e solo chi conosce l’essenza dell’uomo può usarle senza perdervisi. Chi non la conosca, chi addirittura la rifiuti, è privo di criterio per valutare la natura degli avvenimenti e, cosa ancora più grave, è privo di orientamento sugli avvenimenti del presente che gli è dato vivere. Ne potrà guadagnare in spregiudicatezza, ma la spregiudicatezza è un modo di sopravvivere, non ha la vitalità dell’idea.
Se la concezione materialistica della storia deve essere del tutto abbandonata, la stessa concezione economica di Marx deve essere riformulata profondamente. La sua concezione del valore-lavoro ha sempre dato l’impressione che il valore di una merce potesse essere calcolato a prescindere dallo scambio. In realtà non è così: il valore di una merce non è dato dal tempo di lavoro impiegato nella sua produzione, ma dal tempo di lavoro socialmente necessario; e questa qualificazione non significa soltanto: svolto da un lavoratore di media abilità con l’uso di strumenti di media efficienza, significa anche: corrispondente alla domanda di quella merce; una sovrapproduzione è spreco di lavoro sociale e ha lo stesso effetto di un lavoro svolto in modo inefficiente. Così il sistema mercantile semplice ha l’apparenza di una determinazione del valore delle merci sulla sola base del tempo di lavoro, ma in realtà è una determinazione dei prezzi delle merci sulla base del mercato. Da quell’apparenza è nata l’ulteriore apparenza che si potesse organizzare un’economia più avanzata del capitalismo calcolando i tempi di produzione a prescindere dallo scambio, che dunque il mercato in generale dovesse essere abolito insieme al capitalismo, come se fosse essenzialmente anarchico, cioè privo di equilibrio. Tutto ciò deve essere liquidato per sempre come estraneo al pensiero di Marx e alla razionalità.
Il mercato è essenzialmente privo di equilibrio in quanto è mercato capitalistico. Il mercato capitalistico non può che produrre rapide espansioni alternate a crisi e recessioni – questa è la grande scoperta con cui Marx ha coperto di ridicolo le concezioni liberali che negano la necessità delle crisi dell’economia capitalistica o le imputano a forze esterne ai suoi meccanismi. Ma non è la trasformazione in merce della forza-lavoro, come crede Marx, a produrre la crisi. Lo squilibrio ricorrente tra offerta e domanda di merci che affligge il mercato capitalistico non è dovuto all’esistenza del mercato del lavoro, è dovuto alla sua forma capitalistica: non è il mercato del lavoro a creare il capitalismo e i suoi squilibri, è il capitalismo che impedisce al mercato del lavoro di essere in equilibrio e così turba l’equilibrio dell’intera economia.
Dopo il fallimento del socialismo reale, rifiutare il libero mercato è irrealistico. L’economia liberale riconosce che al libero mercato è opposto il monopolio, che non solo compromette il raggiungimento dell’equilibrio ottimale, ma costituisce, dal punto di vista etico, una forma di violenza dei produttori sui consumatori. Dell’oligopsonio, cioè del caso di compratori che possono determinare volontariamente la quantità domandata e il suo prezzo come se fossero un compratore unico, che avrebbe gli stessi effetti nefasti del monopolio, cioè di ridurre artificialmente la produzione della merce per la quale c’è una riduzione artificiale della domanda, l’economia liberale parla invece come di una curiosità. Ma una semplice riflessione è sufficiente a riconoscere che l’oligopsonio è la condizione normale del mercato del lavoro. È Marx ad averlo scoperto e ad aver battezzare questa sua scoperta con il nome di «esercito industriale di riserva»: il mercato del lavoro capitalistico è inevitabilmente oligopsonistico, è sempre squilibrato: vi è sempre più tempo di lavoro che i lavoratori desiderano vendere rispetto al tempo di lavoro che i compratori desiderano acquistare; così una parte di venditori non riesce in ogni caso a vendere la sua merce, le ore di lavoro. È questa sovrabbondanza di lavoratori a deprimere il costo del lavoro fino a portarlo a quello che Marx chiama erroneamente il valore della forza lavoro, cioè il prezzo delle merci sufficienti ad assicurare al suo proprietario una sopravvivenza poco più che animale. Da questo abbassamento del prezzo della forza lavoro al minimo vitale del lavoratore deriva il carattere ripugnante, sordido del capitalismo e della sua apologia liberale (il liberalismo semplicemente finge che il mercato capitalistico sia in equilibrio). La scarsità della domanda di forza lavoro abbassa i salari, pone i lavoratori in una situazione di dipendenza, crea la diffusa povertà in un contesto di sovrapproduzione, provoca lo squilibrio dell’economia, la difficoltà di realizzare il valore delle merci prodotte, causa ultima di ogni crisi, spinge la società verso la denatalità, la decadenza della famiglia e della vita etica.
I compratori di forza lavoro, i capitalisti, hanno tre modi per provocare eccesso di offerta sul mercato del lavoro. Innanzitutto l’innovazione tecnica, in cui è contenuta tutta la magia del capitalismo; estromettere lavoratori dal processo produttivo permette di aumentare la disoccupazione, dunque di diminuire i salari e aumentare gli investimenti per nuove innovazioni tecniche; la crisi giunge probabilmente perché l’innovazione tecnica non abbassa i prezzi delle merci in modo corrispondente all’abbassamento dei salari. In secondo luogo l’oligopsonio è imposto mediante gli investimenti esteri, con le delocalizzazioni produttive, che creano disoccupazione mettendo in concorrenza i lavoratori di ogni angolo del pianeta, così da costringerli ad accettare salari più esigui. In terzo luogo, ed è la forma più sconvolgente per l’ordine sociale che ha preso forma nell’ideologia della società multi-etnica, tramite l’incoraggiamento dell’immigrazione da paesi stranieri. La storia dell’Unione Europea, forse tutta la storia della globalizzazione liberistica degli ultimi trent’anni, può essere descritta sulla base dell’indebolimento dell’innovazione tecnologica e del ricorso massiccio all’investimento estero e all’immigrazione.
Una riformulazione del marxismo a partire dal concetto di oligopsonio comporta dunque 1. che sia riconosciuta la possibilità di un’economia di mercato in fragile equilibrio; 2. che questo equilibrio implichi non solo l’assenza di monopolio, come riconosce la microeconomia, ma anche l’assenza di monopsonio; 3. che il capitalismo sia la forma di economia di mercato squilibrata dal monopsonio; 4. che il suo squilibrio possa assumere anche una forma occasionalmente progressiva, come scatenamento della produttività e della crescita; 5. che il capitalismo possa diventare catastrofico con il ricorso all’immigrazione e all’investimento estero; 6. che il movimento operaio non sia concepito come un turbamento del mercato ma come condizione imprescindibile del suo funzionamento equilibrato; 7. che lo Stato sia il garante dell’equilibrio del mercato tramite la politica di piena occupazione.
Forse è possibile restare fedeli alle intuizioni più profonde di Marx fissando come obiettivo una economia di mercato senza oligopsonio e rinunciando al suo sogno di distruzione rivoluzionaria del mercato; seguirlo su questo secondo punto significherebbe in ogni caso esporsi al rischio che è risultato fatale alla sinistra: trascurare, per amore di ciò che è lontano, il valore di ciò che è già realizzato.
Qualche pensiero in libertà… sul valore, sul “capitalismo” (termine che non fu mai di Marx, bensì di Werner Sombart e poi di Weber e di tutti gli altri ripetitori…), su… un po’ di tutto e un po’ di niente.
Non farebbe male se fosse brutta poesia: ma non è nemmeno questo, purtroppo.
C’è solo la cornice di nessun pensiero.
Con questo non ci si può appellare al popolo, mi dispiace.
“Non farebbe male se fosse brutta poesia: ma non è nemmeno questo, purtroppo.” Ne deduco: non è nemmeno brutta poesia, dunque fa male. Poi però trovo: “C’è solo la cornice di nessun pensiero”, dunque è un quadro vuoto. Ne concludo che Mourad Immanebasta non riesce a tollerare neanche ciò che GLI SEMBRA vuoto. E resto con questo dubbio: o non capisce neanche ciò che scrive o vede i suoi problemi negli altri.
Il suo “vuoto” è pieno di un po’ di tutto e un po’ di niente, come scritto; ovvero è come una cornice o un contenitore, se preferisce, di nessun pensiero, come altresì scritto.
Il che non mi appare intollerabile, bensì invero deprecabile in chi si atteggia ad interprete della “grandezza” di Marx frullando senza coerenza ingredienti prelevati qua e là in una “miniera” di cui ci si serve, secondo pura logica versatile, per i propri “giochi” (quali che siano).
Del resto lei, come certo saprà, si trova in buonissima compagnia: pensi al mediagenico filosofo Diego Fusaro, che con più presunzione e fortuna di lei conduce su piani differenti la stessa “operazione” che lei fa in queste sue righe (si vada a rileggere, ad esempio, il suo libro del 2009 intitolato Bentornato Marx!)
Con logica versatile, infinito opportunismo da ceto politico in fasce.
Senza alcuna coerenza logica, ci si può attendere tutto e il contrario di tutto…
Ex falso quodlibet: vale per tutti, anche per lei, anche per Fusaro, anche per Platone, anche per qualsiasi “scienza”, perfino per Dio.
Saluti ai suoi problemi.
Lei è infastidito dal fatto che io lotti contro la MITOLOGIA marxista e cerchi di individuare i meriti SCIENTIFICI di Marx per farne elemento di una efficace prassi politica. Il fastidio la mette in una posizione contraddittoria: scrive dei commenti per comunicarmi il suo disprezzo, senza riflettere che il disprezzo è comunicabile soltanto con il silenzio. Ma io non lo temo e le ripeto volentieri i miei pensieri: 1. ogni evoluzionismo storicista è ideologia – nel caso marxista è rifiuto fanatico della verità VICINA e sopravvalutazione narcisistica della verità LONTANA; 2. il mercato NON è istituzione originariamente capitalistica e non può essere eliminato senza sacrificio della dignità umana; 3. (questa è la grandezza di Marx) il mercato capitalistico ha carattere strutturalmente monopsonistico (crea l’esercito industriale di riserva) e può essere posto in equilibrio solo dallo STATO. Invece di affrettarsi a insultare, rifletta e formuli una critica razionale. Sarà un guadagno per tutti.
Trovo questo articolo molto interessante e profondo, e le critiche di quel tizio dal nome impronunciabile capziose e fuori luogo.
Ho solo il dubbio sulla troppo frettolosa messa in angolo del (pur ovviamente sputtanatissimo) valore-lavoro, che è una cosa pericolosissima essendo la base del marginalismo.
Il quale, ovviamente, giunge a conclusioni opposte a quelle dell’autore, non c’è nemmeno da ricordarlo.
Grazie Matteo. La teoria del valore-lavoro non è messa in angolo, è restituita al suo significato FILOLOGICO: se si legge il Capitale con la dovuta attenzione diventa evidente che ai fini della descrizione del capitalismo Marx non ha inteso avanzare una teoria per cui sia possibile determinare i valori PRIMA dello scambio, ossia a prescindere dal mercato: solo lo scambio determina il valore della merce e quindi la misura in cui il tempo di lavoro individualmente speso per produrre la merce è anche tempo di lavoro socialmente necessario. Il mercato in generale riduce il tempo di lavoro individuale a tempo di lavoro socialmente necessario, cioè a valore: il mercato in generale giudica quanto vale il lavoro individuale. Nella “Critica del programma di Gotha” si legge invece che il numero di ore lavorate (dopo le necessarie detrazioni per le spese comuni) è trascritto su uno scontrino che dà diritto all’acquisto di beni prodotti in un numero equivalente di ore. Il socialismo si caratterizza dunque perché mette all’angolo la teoria generale del valore-lavoro: esso fa valere il lavoro individuale come se fosse DIRETTAMENTE tempo di lavoro socialmente necessario, cioè valore. Marx stesso non si nasconde la problematicità di questa idea: un’ora di lavoro di Einstein è pagata come un’ora di lavoro dell’idraulico, un’ora di lavoro svolto bene e rapidamente è pagata come un’ora di lavoro svolto male e lentamente. Non c’è nulla di troppo scandaloso in quello che dice Marx: se pensiamo a come vengono retribuiti oggi gli avvoltoi della finanza per le loro truffe rispetto, per esempio, agli ingegneri, è senz’altro preferibile il suo socialismo. Tuttavia in Russia e in Cina (durante la rivoluzione culturale i professori universitari furono inviati a zappare, i contadini invitati a dare lezioni dalla cattedra) la cosa non funzionò.
A rigor di una certa logica, scrivere in tutta scioltezza riguardo ai “meriti SCIENTIFICI di Marx” – e le farei intanto notare sommessamente ma con pensiero da elefante tutte queste maiuscole che lei usa… manco fosse la rivendicazione di status di un prof di seconda fascia all’università! – la dovrebbe esporre, quanto meno, all’onere di dirci qualcosa di argomentato circa il rapporto che Marx in effetti ebbe con la scienza e gli uomini di scienza della sua epoca…
Attenzione: non il suo rapporto con gli economisti, bensì con gli scienziati veri e propri che quella scienza allora facevano. E men che meno quello con i filosofi, che di quella scienza magari discettavano in libertà dall’alto di…
Ora, nel suo articolo non se ne fa proprio parola: è questione riservata ad un suo successivo intervento o la cosa non rientra nella rosa dei suoi “interessi”, quanto meno “filologici”?
Non so se questo elementare rilievo abbia mai sfiorato le sue cogitazioni in vista dell’elaborazione – sono parole sue – di una “efficace prassi politica”.
Eppure esso contiene il germe di una critica razionale: quella stessa che lei richiede a gran voce agli altri, e che quindi ha anzitutto il dovere di pretendere da se stesso.
Caro Immanebasta, lei continua ad aggiungere carne al fuoco senza aver arrostito quella che c’è già: mi sfida ad esporre il rapporto tra Marx e la scienza del suo tempo, senza aver preso neanche in considerazione la mia tesi sulla natura mitologica dall’effetto narcotico del materialismo storico. Eppure la vergogna di una sinistra sognante che da decenni è solo capace di fornire, quella di governo, appoggio diretto, quella di lotta, appoggio esterno alla controrivoluzione liberale dovrebbe ormai aver spinto chiunque abbia almeno uno scrupolo a svolgere il ruolo di traditore onnilaterale a una riconsiderazione integrale delle sue abitudini, dei suoi ideali e delle sue paure. La rivoluzione nella quale culmina il materialismo storico è un immane “basta!” alla storia: un atteggiamento congeniale a tutti coloro che si fingono una purezza così sublime da potersi prendere il lusso di trattare come escrementi le leggi e le istituzioni che gli uomini si formano. Questo è di sinistra: guardare con gioia satanica l’annullamento dell’esistente, delirando che esso avvicini l’ora x dell’ideale immacolato, senza pensare che tra le cose esistenti c’erano i diritti dei lavoratori, la famiglia, la sanità e la scuola pubbliche, la sovranità nazionale.
Aggiungere carne al fuoco può far bene se con questo s’inizia a comprendere in modo diverso le cose.
Vede, le vergogne della sinistra che fu (e fu quasi sempre, al pari della destra che fu, opposizione fittizia dissimulata fra mille e più veli) sono state tante e assai stratificate… E pensi: esse iniziano direi subito, quando Marx è ancora in vita, e proseguono poi, inarrestabili fino ad oggi e chissà fino a quando.
La stessa “invenzione del marxismo” (giusto il titolo di un bel libro dello studioso catalano Galceran-Huguet) è la costruzione di una gigantesca mitologia da parte di novelli funzionari di un pensiero che nasce già subalterno perché in radice accetta l’idea di scienza, conoscenza e “progresso” che è propria dei funzionari del capitale e dei ceti dominanti.
In Marx, almeno nei suoi spunti più alti, vi sono lampi che fuoriescono da questa subalternità di principio (quella riguardo le matrici del pensiero, intendo): ma sono lampi che iniziano e finiscono con lui.
La gran panzana mitologica del materialismo storico avente, come sottolinea lei, “effetto narcotico”, è quindi soltanto una (e neanche la maggiore: pensi a quella andata sotto il nome di “materialismo dialettico”…) delle enormi, inenarrabili piste fittizie su cui tali “funzionari intellettuali” e “burocrati senza genio” hanno fatto girare per interi decenni milioni e milioni di militanti: tuttavia, questo è stato ed è ancora un gioco delle parti interno alle tante anime dell’establishment, gioco che ha formattato in modo sofisticato le menti di sinistra e di destra perché esse usassero da sole (appunto secondo “libero arbitrio”) le sue stesse categorie, restandone logicamente prigioniere e alla lunga del tutto disfatte…
Questo, purtroppo, temo che avvenga anche all’interno delle sue argomentazioni: in vari modi, a cominciare da quel suo uso sconsiderato (e del tutto subalterno alla scienza dei dominanti) dei termini “capitalismo”, “economia di mercato”, “crescita”, “produttività”, “piena occupazione” (tutti contenuti nei suoi sette punti per “una riformulazione del marxismo a partire dal concetto di oligopsonio”)…
Queste sono tutte voci di quel vocabolario mitologico che lei giustamente addita…
Però anche lei non può fare a meno di usarle: la cosa non può essere assunta e registrata così, senza spiegazione.
Sa quanti studiosi seri e in buonissima fede usano senza nemmeno poterlo sospettare le categorie forgiate dai guardiani del Potere e dai grandi tenori della scienza del capitale?
E sa quanti aspiranti “leaders” politici “antagonisti”, magari oggi pure sovranisti, fanno lo stesso ignorando i disastri cui possono mettere capo proprio mediante questa loro specifica irresponsabilità, che ovviamente negheranno ad oltranza non potendone nemmeno scorgere l’esistenza?
Quel che precede è solo per accennare appena appena alla questione nei limiti di questo spazio…
Come forse avrà a questo punto intuito, quanto ho scritto vuole anche suggerire di stare attenti, perché vi sono al mondo tanti modi di “guardare con gioia satanica l’annullamento dell’esistente” che non portano scritto in faccia quello che sono.
Mi pare che oligo/monopolio e oligo/monopsonio sono due facce della stessa medaglia: costituiscono il prodotto della stessa logica e l’uno implica l’altro, coincidendo di fatto nello stesso soggetto. Se questo è vero, distinguere i due fenomeni può avere senso dal punto di vista speculativo, ma dal punto di vista politico non vedo cosa possa aggiungere alla comprensione dei meccanismi del mercato, né quale nuova strategia possa suggerire per correggerne le perversioni.
L’analisi di Paolo non mi convince nemmeno per quanto riguarda la sinistra, che per “amore di ciò che è lontano” avrebbe fatalmente trascurato ciò che è già stato realizzato. Per come la vedo io, è accaduto esattamente l’opposto: la sinistra ha subito una trasformazione genetica dal momento in cui ha ritenuto di omologarsi alla logica di mercato e capitalistica nella presunzione dichiarata di poterne in qualche modo controllare le pulsioni predatorie dall’interno (e con il più o meno confessato obiettivo di venire finalmente cooptata nella gestione del potere). Distratta dalle pur straordinarie conquiste sociali che le lotte dei lavoratori avevano prodotto nei trent’anni successivi all’ultimo dopoguerra, essa si è allora attribuita il compito di “salvare il capitalismo da se stesso”, quando il vero problema è salvare i popoli dal capitalismo. Del resto, quanto il capitalismo sia propenso a “farsi salvare” lo hanno dimostrato i quarant’anni che sono venuti dopo.
Il liberalismo combatte il monopolio, ignora il monopsonio; ignora in particolare che quello che chiama libero mercato è in realtà mercato monopsonistico (quanto alla merce forza lavoro). La sua condanna dei sindacati e dell’intervento dello Stato nell’economia ha dunque un significato non scientifico, come esso pretende, ma soltanto ideologico: maschera da interessi del sistema gli interessi di UNA classe. Questa è l’aggiunta politica del mio discorso. Se consiste nell’assenza di monopolio e monopsonio, il libero mercato non si forma naturalmente, è un bene FRAGILE che lo Stato deve garantire e tutelare, e l’azione sindacale non può più essere spacciata per un ostacolo al funzionamento ottimale dell’economia, ma come una sua condizione indispensabile. Questa è la strategia che il mio discorso suggerisce. Nulla di nuovo, ma qualcosa che è già stato realizzato: lo Stato che, invece di scomparire, come sogna Marx e la tradizione marxista, interviene in economia con l’obiettivo della piena occupazione. Per il resto la tua visione della sinistra mi sembra un po’ troppo delicata: la sinistra è stata ed è PROTAGONISTA dello scatenamento delle pulsioni predatorie del capitalismo.
Buon articolo. E concordo appieno sul fatto che la ex-sinistra è protagonista assoluta del capitalismo di rapina tramite il suo incondizionato asservimento ai poteri forti.
Rimane che l’articolo sarebbe stato meglio intitolato “La piccolezza di Marx”, perché smantellando la teoria del valore-lavoro si colpisce al cuore la componente scientifica della sua opera, e cancellando l’aspirazione alla scomparsa dello stato e le virtù salvifiche della classe operaia se ne azzera la componente messianica. Per dire che il capitale tende a sfruttare il lavoro e a questo scopo fomenta la disoccupazione non c’è davvero bisogno di leggere il Capitale. Per sapere che il mercato, per rimanere in salute, ha bisogno dell’azione correttiva dello stato e dei sindacati basta leggere Keynes.
Interessante, nell’articolo, la lucida consapevolezza della ratio predatoria che soggiace alla logica globalizzatrice e all’importazione sistemica di disperati sul suolo patrio. Considerazioni del genere dovrebbero condurre l’ARS ad assumere posizioni radicali in tema di rifiuto dell’immigrazione. Ma qui la lucidità si scontra coll’anima profonda, sinistrorsa di gran parte dell’associazione e coi suoi pregiudizi eterofili ed antirazzisti.
In effetti il titolo può suscitare attese che l’articolo può deludere. Però anche il tuo titolo sarebbe esagerato: che il libero mercato sia squallido monopsonio è scoperta di Marx da cui l’economia politica si è protetta per più di mezzo secolo. Il rifiuto dell’immigrazione è un tema proprio dell’ARS; essa è fiera dei suoi pregiudizi antirazzisti, ma riconosce che la migrazione è un trauma innanzitutto per chi vi è costretto, e crede che ogni individuo abbia il diritto di vivere dove è nato e di spostarsi per cultura, per divertimento, per commercio.
E poi la grandezza di Marx sta anche in altri temi qua non toccati. Marx fu un organizatore politico, un creatore, un uomo d’azione, un teorico della prassi. L’esperienza sovietica, ossia una parte rilevante di un secolo di storia, non avrebbe avuto alcun senso senza Marx. Lo sviluppo storico della Russia, anche per come è adesso, è stato caratterizzato indelebilmente dall’esperienza sovietica. Ma anche della Cina potrebbe dirsi qualcosa di analogo. E anche la nostra Costituzione, la piena occupazione e l’esperienza de trentennio glorioso , e fatti analoghi in altri stati, non sarebbero stati ciò che sono stati senza partiti comunisti o socialdemocratici ma comunque marxisti. Quindi il titolo “La piccolezza di Marx” sarebbe stato una falsità spaventosa. Marx la sua firma nella storia l’ha messa; ha ancora alcune cose da dirci,anche ulteriori rispetto a ciò che Paolo ha messo in evidenza (per esempio, la democrazia senza partiti popolari è esattamente come Marx l’aveva descritta: i politici sono i rappresentanti del capitale; la democrazia può essere qualcosa di diverso ma per lo più è stata ed è come Marx l’ha descritta); e ha condizionato un secolo di storia.
“E anche la nostra Costituzione, la piena occupazione e l’esperienza del trentennio glorioso […] la democrazia senza partiti popolari è esattamente come Marx l’aveva descritta: i politici sono i rappresentanti del capitale; la democrazia può essere qualcosa di diverso ma […]”…
Se la ricorda quella canzone di Rino Gaetano che diceva così?
[…] Aida, la Costituente… la Democrazia… e chi ce l’ha?
E chi ce l’ha mai avuta, dall’Unità in poi senza contare il prima?
Nessuno l’ha mai avuta, inutile continuare ad autoilludersi e ad illudere, nemmeno quando c’erano i “partiti popolari”…
Come si fa (2016) a barcamenarsi ad oltranza fra simili pensierini cetopolitichesi?
E domando a tutti i militanti e simpatizzanti di ARS: non dovrebbero, questi ed altri consimili pensierini, essere fonte di un certo qual imbarazzo in chi si appresta con ogni probabilità ad avere funzioni di grande responsabilità in un futuro e certamente auspicabile fronte sovranista?
Propongo di cominciare a pensarci da subito, tirando fuori la testa dalla sabbia, prima che si vada a fare il “salto organizzativo” nel fronte sovranista.
Non vorrei mai che il risultato di un simile salto fosse l’ennesimo, avventuristico trasformismo di un nuovo micro ceto politico ogm che consapevolmente (o più probabilmente, e più gravemente, senza consapevolezza) si candida a fornire (magari dopo e oltre il M5S) un’ulteriore stampella al Potere, nel più puro e consolidato stile della fake opposition fabbricata con le, e indotta dalle, categorie dall’establishment stesso…
A me la stagione della Costituente e dei partiti popolari è piaciuta sotto molteplici profili. I difetti, che ha avuto, sono stati dovuti in parte alla classe dirigente – per esempio l’influenza di Einaudi, o la scelta atlantica di De Gasperi, la fuffa dell’eurocomunsimo di Berlinguer e l’adesione alle tesi terroristiche sull’inflazione da parte di quest’ultimo- in parte al popolo che votò democrazia cristiana nel 1948, legittimando così la scelta atlantica (probabilmente in caso diverso avremmo avuto un colpo di stato e magari la guerra civile; ma il popolo votò come votò) in parte alla potenza del connubio: grande capitale – dominio delle onde – pubblicità, potenza che si è esplicata in tutto il mondo occidentale e poi non solo occidentale.
All’ARS ripugnano i fanatismi presuntuosi come il tuo. Il nostro modello è quello che ti ho descritto. Siamo tutti compattissimi su questo punto centrale. Ovviamente si tratta di tornare a un punto della nostra storia per prendere una strada che non fu presa e affrontare con gli strumenti che avevamo inserito nell’ordinamento e con altri (con questi ultimi coerenti), nuovi problemi, antropologici e culturali prima di tutto, soprattutto quel connubbio capitale-pubblicità-dominio delle onde.
Questi non sono “pensierini” per i militanti dell’ARS. Sono il cuore della nostra proposta. Quindi ciò che “non vorresti” è esattamente ciò che noi tutti vogliamo.
Gli pseudo-radicali come te, dei quali, non a caso, non si riesce mai a capire il modello che propongono, l’ARS fa di tutto per respingerli.
Dopo esserti sfogato un altro po’, puoi anche accomodarti altrove: tra noi e te mancano i presupposti comuni per dialogare. Potresti soltanto continuare con i tuoi commenti biliosi e presuntuosi.
Non avendo qui lo spazio per poter argomentare l’avventurismo smodato delle parole di D’Andrea, mi limito a questa sua emblematica frase:
“Ovviamente si tratta di tornare a un punto della nostra storia per prendere una strada che non fu presa…”.
Tornare? Ma cosa sta vendendo a se stesso e a noi poveri militanti ARS?
Tornare a quel punto col mondo (italiano e no) come è “evoluto”…
Ma si rende conto dell’enormità della cosa, spacciata come se fosse possibile, quasi appunto “scientifica” (e qui si rivede l’ombra di P. Di Remigio…)?
Queste sono infondate strategie da ceto politico in erba… Poca gente, penso, se le vorrà bere, al dunque, se mai a questo “fronte” si arriverà (ma non vedo come).
E poi (altra fanfaronata):
“Il nostro modello è quello che ti ho descritto. Siamo tutti compattissimi su questo punto centrale”. Che tristezza, e quanta meschina dissimulazione.
Non è per niente questa, per quel che ho potuto sperimentare da un anno, la realtà che vivono i militanti ARS: compattissimi soltanto di facciata, e invero debolissimi, in assenza di una discussione sincera e non “organizzativa” e meramente autoconsolante.
Non prendiamoci in giro, non è cosa, D’Andrea.
E in ultimo:
“Dopo esserti sfogato un altro po’, puoi anche accomodarti altrove”:
guardi novello Gensek, che al di là dell’apparenza, dentro ARS è pieno di gente come me (specie fra i più giovani): vuole farci accomodare tutti altrove? E lei con chi rimane, col direttivo in videoconferenza periodica?
Suvvia, abbia almeno del buon senso.
presci?
strada che non fu presa…”
Questa situazione descritta dal Sig. Imanebasta l’ho trovata anche io tra gli iscritti e simpatizzanti, per esempio quando si è fatta l’assemblea generale a Roma nel mese di giugno. Il problema non si può ignorare a gratis. Personalmente, sono per fare il fronte sovranista italiano ma non mi ritrovo con alcuni atteggiamenti da padroncini che vedo venire fuori un po’ spesso, un po’ troppo, senza che venga spiegato il perché e il per come.
Vi saluto tutti ma pensiamoci bene.
Ireneo Corbacci
Bè… dipende se si giudica una dottrina sulla base del suo rigore analitico o del suo potenziale aggregativo: propensioni diametralmente antitetiche. Nel secondo caso il pensatore più profondo della storia è stato un santone girovago che prometteva l’imminente fine del mondo e la resurrezione dei morti.
Bè… dipende se si giudica una dottrina sulla base del suo rigore analitico o del suo potenziale aggregativo: propensioni diametralmente antitetiche. Nel secondo caso il pensatore più profondo della storia è stato un santone girovago che prometteva l’imminente fine del mondo e la resurrezione dei morti.
Rispondo qui all’ultimo commento di Immanebasta. Egli concepisce Marx come un lampo di purezza adamantina, subito inquinato dai suoi seguaci, compromessi con la scienza dei ceti dominanti, immagino con gli atteggiamenti positivisti. Commette però un errore: d’accordo con me, tratta il materialismo storico come “una gran panzana mitologica”, ma, a differenza di quanto faccio io, dimentica che è un parto della mente dell’adamantino Marx. Per parte mia innanzitutto distinguo tra scienza e metafisica positivista e non ho paura a utilizzare con rispetto tutto ciò che la scienza ha da dire. Che mi si rimproveri l’uso dei concetti dell’economia politica è del tutto ingiustificato: solo l’uso erroneo può essere rimproverato e non esiste altro contatto con la realtà che quello offerto dai concetti scientifici. In secondo luogo sottolineo che “la gran panzana mitologica” del materialismo storico è in Marx stesso. Si tratta di un suo cedimento grave alla metafisica positivista, di un tentativo di individuare leggi della storia che opererebbero dietro le spalle degli uomini, in modo del tutto indifferente alle leggi che gli uomini si danno per vivere in società (quelle del diritto positivo) – quelle che Marx disprezza come sovrastruttura. Ve lo spinge la sua allergia alla filosofia. Non è un mistero che Marx volesse dedicare il Capitale a Darwin, né che egli considerasse la propria concezione l’analogo per la storia dell’evoluzionismo biologico. Quando i marxisti si contaminarono con Spencer, essi seguirono dunque una falsariga già tracciata da Marx. Gli esiti storici sono analoghi. L’evoluzionismo biologico è la spiegazione della speciazione biologica per mezzo dello sterminio dei meno adatti; l’evoluzionismo spenceriano è l’ideologia degli orrori del colonialismo; l’evoluzionismo marxiano è l’ideologia degli stermini del socialismo reale. Qui non possiamo fare sconti. L’orrore dell’attuale sinistra è che, come Immanebasta, di Marx ha conservato soltanto il difetto: l’intolleranza per l’esistente, la sua distruzione in favore del nuovo qualunque esso sia.
Oh, niente affatto, sig. Di Remigio: mi permetta di brevemente accennare.
Non mi sono mai sognato di pensare a Marx (o a qualsiasi altro pensatore) come ad “un lampo di purezza adamantina”. Se dalla mia prosa lei ha potuto intendere questo me ne rammarico vivamente, ma non era per niente mia intenzione.
Marx è stato (come Hegel) in tutto e per tutto pensatore e uomo del suo tempo, con diverse e importanti contraddizioni, con comprensibili “cadute”, con anche alcune categorie debolmente fondate e, soprattutto, con un intero e steratificato, certo non lineare, rapporto con la scienza del suo tempo. Di tutto questo si possono forse oggi cominciare ad intendere le ragioni non episodiche: fuori dalla sinistra (e dalla destra: è lo stesso) che fu, naturalmente. Su questo possiamo ben convenire, penso.
Il punto d’inciampo sta tuttavia in questo: che Marx, nelle pieghe di alcuni suoi scritti – quelli della cosiddetta “maturità” e in appunti sparsi (grosso modo da dopo la famosa prefazione a “Per la critica dell’economia politica” all’altrettanto famoso “Capitolo sesto inedito” fino ai tardi “Manoscritti matematici”) – ha lasciato, come detto, alcuni “lampi di pensiero” che ancora oggi ci servono per andare oltre le categorie che hanno inguaiato tanti per forse tredici decenni e più…
Tutto qua. E questo è vero riguardo a Marx, ma anche riguardo ad altre figure.
Qui purtroppo non c’è lo spazio per argomentare (ci vorrebbe una rivista, almeno), per cui la cosa si apre ma resta appesa così.
Resta però la questione attualissima delle nostre chiavi di lettura: un conto è se si ricollegano in modo consapevole a quei “lampi di pensiero” che, a mio avviso, fanno ancora oggi grande Marx (o anche Hegel, ad esempio); un altro conto è se esse si agitano intorno alle rimasticature (suppostamente “scientifiche”) di una “scienza” (l’economia politica) che scienza non è e non è mai stata (lei certo ricorderà come Marx stesso, nella sua corrispondenza, la apostrofasse come “la merda economica”…).
Non me ne voglia: in questo caso, è quanto mai difficile, se non improponibile, poter affrontare una questione di questo genere con quel suo “non esiste altro contatto con la realtà che quello offerto dai concetti scientifici”.
Le accenno solo questo (poi, se vorrà, potremo anche costruire delle sedute di seminario o altra forma di discussione aperta e sincera de visu, non certamentet on line):
per me (e non solo, a dire il vero) quei “lampi” marxiani hanno anzitutto a che fare con una visione differente (per quanto ancora embrionale) di quella che è stata appunto chiamata (e ancora oggi impera sugli altri saperi) “scienza” (sapere “indiscutibilmente oggettivo”, super partes, patrimonio dell’intera umanità, ecc.).
Altre carne al fuoco, ma tant’è: come avevo già scritto altrove su questo sito, in queste cose ci vuole pazienza e disprezzo della rissa coatta.
Saluti.
Mourad
PS – Al di là del discutibile messaggio contenuto nella storpiatura, il mio cognome si scrive con una m sola, perché è l’adattamento all’italiano fatto quarantacinque anni fa da qualche solerte funzionario prefettizio sardo all’atto della naturalizzazione di mio nonnno paterno, marinaio e pescatore d’origine algerina trapiantotosi sull’isola dopo la guerra. Il cognome originario algerino era qualcosa come Iman el-bèit, che forse significava “fede” (o anche dignità) della casa (della dimora o del focolare). Da qui l’adattamento in sardo e poi in italiano.
Perdoni l’errore di trascrizione e le allusioni al cognome: non avevo capito che si chiamasse proprio così. Se vuole continuare la conversazione possiamo scambiarci le e-mail tramite Fb.
Non esageriamo però.
Io sono un uomo di scienza, e per quanto nutra dei dubbi su Marx (ho sempre preferito Vernadsky) non lo si può ridurre al delirio spenceriano.
Su Darwin, pardon, scrivo di fretta, non Marx.
Volevo dire: l’evoluzionismo, che spiega la moltiplicazione delle specie viventi per mezzo dello sterminio dei meno adatti (è il negativo della sopravvivenza del più adatto) in un arco di tempo di almeno 3 miliardi d’anni, è una teoria che ha raggiunto consistenza scientifica in biologia. Qui non ho nulla da dire, solo da imparare. L’evoluzionismo trasportato in storia, cioè in un arco temporale di 5 mila anni (un soffio!), che sia in forma positivista o materialista o fascista, non ha alcuna utilità scientifica (la storia è fatta di permanenze, di interruzioni, di evoluzioni parziali e di altrettanto parziali involuzioni) e contiene una controindicazione morale: anestetizza allo sterminio perché induce ad animalizzare l’altro. Non è un legame necessario, per carità! Gli spagnoli hanno sterminato un continente senza ideologia evoluzionistica: è bastato loro il fanatismo cattolico. Dico che il fanatismo ottocentesco e novecentesco, dandosi un’aria scientifica, assume la forma dell’evoluzionismo: non solo positivista o marxista, anche e soprattutto fascista. Diciamo che proprio l’evoluzionismo trasportato in storia (quello che Popper chiama storicismo e che si presta così bene a permettere gli stermini) è l’argomento più robusto contro il trasporto dell’evoluzionismo nella storia.