La lezione di Giovanni Gronchi
di LUIGI LONGO (www.conflittiestrategie.it)
Sul “Corriere della Sera” del 5 luglio 2011 Sergio Romano, nel rispondere alla lettera di uno studente universitario, che si chiedeva perché, nel 1957, l’allora ministro degli Esteri Gaetano Martino, d’intesa con il presidente del Consiglio Antonio Segni, avesse bloccato la lettera del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, indirizzata al presidente Dwight D. Eisenhower in cui proponeva “consultazioni speciali tra i due Paesi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente” in seguito alla crisi di Suez ( la fallita spedizione anglo-francese contro l’Egitto per la riconquista del canale nazionalizzato da Nasser), così afferma: “Per Gronchi e altri uomini politici italiani lo scacco anglo-francese a Suez fu una buona notizia. Segnava il declino delle vecchie potenze coloniali nel Mediterraneo e dimostrava che gli Stati Uniti non erano disposti a tollerare nuove avventure imperiali. Irrequieto, ambizioso e desideroso di maggiore spazio per sé e per il suo Paese, Gronchi vide nell’umiliazione di Londra e Parigi un’occasione per l’Italia.
Non sognava nuove colonie (quei tempi erano ormai finiti), ma pensava che l’Italia avesse le carte in regola per diventare un buon partner economico e una specie di fratello maggiore del mondo arabo sulla via dello sviluppo e della modernizzazione. In questo spirito e con queste intenzioni, Gronchi approfittò di una lettera del presidente Eisenhower che gli era stata recapitata dal vicepresidente Richard Nixon durante una breve visita a Roma nel marzo 1957. Anziché limitarsi a qualche espressione di cortesia, come usa nei messaggi protocollari fra capi di Stato, Gronchi rispose al presidente americano che l’Italia era stata colta di sorpresa dalla spedizione di Suez. Deplorò il ricorso alla forza, accennò agli interessi italiani nel Mediterraneo, propose che Italia e Stati Uniti avviassero una sorta di consultazione bilaterale privilegiata sui problemi della regione e sul modo in cui affrontarli. La lettera fu mandata al ministero degli Esteri che avrebbe dovuto inoltrarla.
Ma a Palazzo Chigi, allora sede del ministero, la lettera venne bloccata. Anziché inviarla a Washington, il segretario generale Alberto Rossi Longhi la fece leggere a Gaetano Martino e questi la dette ad Antonio Segni, presidente del Consiglio. Per Martino e Segni la lettera era doppiamente pericolosa. In primo luogo era uno schiaffo alla Francia (con cui avevamo appena firmato i trattati di Roma per la creazione del Mercato comune) e uno sgarbo all’Inghilterra.
In secondo luogo affermava implicitamente il principio che il presidente della Repubblica aveva il diritto di fare la politica estera nazionale. L’avvio di un concreto dialogo politico fra l’uomo del Quirinale e quello della Casa Bianca avrebbe dimostrato che il primo aveva, in materia di politica internazionale, gli stessi poteri del secondo. Quando decisero d’impedire l’invio della lettera, Segni e Martino sapevano di potere contare sull’approvazione di una classe politica, fra cui buona parte della Democrazia cristiana, che non intendeva lasciarsi espropriare delle proprie competenze e permettere che l’Italia diventasse surrettiziamente una repubblica presidenziale”.
La risposta di Sergio Romano è da condividere parzialmente. E’ condivisibile ciò che dice sul ruolo avuto da Giovanni Gronchi nel rivendicare l’autonomia e l’autodeterminazione dell’Italia, di una nazione forte “per evitare ogni subordinazione alle grandi potenze”. Non è da condividere la lettura di superficie che dà dello scontro istituzionale tra la difesa di una repubblica parlamentare e la trasformazione in repubblica presidenziale. Il vero scontro di fondo è quello tra gli agenti strategici per l’autonomia nazionale e gli agenti strategici per la subordinazione alla potenza mondiale USA che puntava al ruolo strategico dell’Italia nella lotta al blocco del cosiddetto comunismo dell’altra potenza mondiale, l’URSS (anche se va ricordato che gli USA nella liberazione dell’Italia avevano già occupato il territorio, mettendo in atto tutte le strategie di penetrazione con servizi segreti, alleanze con mafia, banditismo e pezzi del regime fascista; queste strategie, sempre più raffinate ed evolute tecnologicamente, sono usate nelle odierne guerre nei territori ritenuti strategici per difendere e ritardare la loro egemonia mondiale (1)).
Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica dal 1955 al 1962, insieme a Enrico Mattei e Amintore Fanfani, nel periodo che va dalla ricostruzione fino alla fine del cosiddetto miracolo economico che coincide con l’assassinio di Enrico Mattei (1950-1962), è stato protagonista del gruppo dei “neo-atlantisti” che lottarono per lo sviluppo di uno stato nazionale autodeterminato proiettato soprattutto nel Mediterraneo e nel Medio Oriente attraverso lo sviluppo del settore energetico (petrolio e gas naturale) affidato ad uno stratega di grande levatura, “un moderno condottiere”, come Enrico Mattei, prima alla guida dell’Agip (creata nel 1926) e poi a quella dell’ENI (istituita nel 1953). “L’asse Gronchi-Mattei è diventato ora uno dei fattori più importanti nello sviluppo della politica italiana in Medioriente” (2).
Giovanni Gronchi è stato l’uomo della sinistra DC che aveva cercato autonomia dagli USA; aveva lottato contro l’appoggio della DC all’alleanza atlantica; nel 1954 ad Anzio aveva pronunciato un discorso contro la NATO. Riporto dal documento del Dipartimento di Stato di Washington del 10 gennaio 1958 il paragrafo con il titolo Il “neo-atlantismo” come elemento della politica estera italiana: “Il presidente Giovanni Gronchi, i cui sostenitori appartengono all’ala di estrema sinistra del partito, dal febbraio 1957 ha assunto l’orientamento che l’Italia potrebbe trarre profitto dal declino dell’influenza francese e inglese nel Vicino e Medioriente e cercare di collaborare con gli Stati Uniti in quella regione. Viene riferito che Gronchi, in privato, ha affermato che gli Stati Uniti non potrebbero ‘andare avanti da soli’ nel Medioriente, a causa del loro approccio ‘con mano pesante’, che si manifesta specialmente da parte delle grandi società petrolifere americane.
Viene riferito che egli avrebbe affermato che l’Europa potrebbe cooperare con gli Stati Uniti nel consolidamento dell’area mediorientale, ma che l’inclusione della Francia e dell’Inghilterra in questo disegno farebbe insorgere l’ostilità araba. Il suggerimento di Gronchi appare in tal modo implicare più un’iniziativa italo-tedesca che un’iniziativa europea. Gronchi avrebbe suggerito inoltre la costituzione di un consorzio Stati Uniti-Unione Sovietica-Europa, allo scopo di dare sviluppo al Medioriente. Gronchi ha suggerito che la partecipazione europea potrebbe essere controllata dagli Stati Uniti e dai partner europei. Egli ha aggiunto che, a meno che gli Stati Uniti non volessero dare all’Italia adeguati compiti e un riconoscimento in questo piano mediorientale, l’Italia dovrebbe sviluppare sue proprie relazioni commerciali con il Medioriente” (3).
Qual è la lezione che Giovanni Gronchi dà all’attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano? Giovanni Gronchi, uomo della DC che difendeva la società capitalistica, ha lottato da presidente della Repubblica per lo sviluppo e l’autonomia dell’Italia soprattutto guardando al Mediterraneo e al Medioriente in piena fase di ascesa della potenza mondiale americana in contrapposizione all’altra potenza mondiale rappresentata dall’Unione Sovietica. La strategia di sviluppo del Paese, in piena autonomia, del Presidente Giovanni Gronchi e del presidente dell’ENI, Enrico Mattei, basata sul ruolo fondamentale dello Stato soprattutto nella sfera economica, è stata decisiva per trasformare l’Italia in una potenza economica mondiale (4).
“Le iniziative di Mattei e le attività economiche esercitate dallo Stato in diversi settori estesero il controllo pubblico dell’economia ai livelli più elevati di tutto il mondo occidentale: nel complesso, esso superava largamente la metà degli investimenti. Il Partito comunista, perseguendo un programma formalmente massimalista e preoccupato di contrastare il monopolio democristiano delle cariche sociali nelle aziende a partecipazione statale, non seppe apprezzare il valore politico ed economico di quelle iniziative, rispetto alle quali si tenne all’opposizione” (5). E’ Giorgio Napolitano ad ammettere che “ci fu- in particolare- una sottovalutazione [da parte del PCI, mia precisazione] delle riserve di cui disponeva il capitalismo italiano, delle condizioni, internazionali ed interne, che potevano dar luogo a un periodo di intenso, tumultuoso sviluppo economico in Italia. Ci sfuggì, così- parlo della prima metà degli anni Cinquanta- la fase di incubazione del ‘miracolo economico'” (6).
1. Giuseppe Casarrubea, Mario J. Cereghino, Lupara nera. La guerra segreta alla democrazia in Italia 1943-1947, Bompiani, Milano, 2009.
2. Nico Perrone, Obiettivo Mattei. Petrolio, Stati Uniti e politica dell’Eni, Gamberetti editrice, Roma, 1995, pag. 134.
3. Nico Perrone, op. cit., pag.133.
4. Nico Perrone sostiene che “l’ammissione dell’Italia al G7, che dal 1974 riunì le massime potenze economiche mondiali, arrivò nel 1975. Nelle classifiche della Banca mondiale sulle principali economie del pianeta, l’Italia tenne allora una posizione oscillante fra la quinta e la sesta, preceduta da Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e, talvolta, dal Regno Unito. L’economia pubblica aveva avuto, in questo risultato, un peso determinante” (Nico Perrone, Se l’America ci insegna le partecipazioni statali, “Limes”, 6/2011, pag. 102.
5. Nico Perrone, ibidem.
6. Eric J. Hobsbawm (a cura di), Napolitano. Intervista sul PCI, Laterza, Roma-Bari, 1976, pag. 31.
fonte: http://www.conflittiestrategie.it/da-giovanni-gronchi-una-lezione-a-giorgio-napolitano-di-luigi-longo
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