L’impeachment di Dilma Rousseff è una sconfitta per il Brasile
di LORENZO DI MURO
L’impeachment di Dilma Rousseff è una sconfitta per il Brasile, da qualunque prospettiva lo si analizzi.
Non ci si attendevano sorprese, né sull’esito né sullo svolgimento dell’estenuante seduta del Senato che ha espresso il verdetto di colpevolezza e destituito la presidente della Repubblica (esponente del Pt).
Eppure un colpo di scena finale c’è stato. Il presidente ad hoc del Senato riunito in sede giudicante e presidente della Corte suprema (Stf) Ricardo Lewandowski ha deciso, accogliendo l’istanza della difesa, di disgiungere la votazione relativa alla cassazione del mandato della presidente da quella concernente il mantenimento dei diritti politici passivi e l’eleggibilità a cariche pubbliche.
Come ampiamente pronosticato, 61 senatori su 81 hanno votato per l’allontanamento definitivo dalla presidenza della Repubblica di Dilma, eletta meno di due anni fa con 54 milioni di voti. Durante la seconda votazione, invece, 42 senatori – compresa una buona parte dei parlamentari del Pmdb, il partito di centrodestra cui appartengono il neopresidente Michel Temer, il presidente indagato del Senato Renan Calheiros e il presidente della Camera sospeso e in attesa di giudizio Eduardo Cunha – hanno impedito che Dilma fosse interdetta dai pubblici uffici per 8 anni.
Il precedente creato ha una duplice chiave di lettura.
Potrà essere richiamato nei processi che attendono alcuni onorevoli – Cunha in primis, sulla cui sorte si esprimerà la Camera il 12 settembre. Ed è funzione della natura “pigliatutto” del Pmdb, capace di muoversi con pragmatico cinismo sulla scena politica. La mossa del Pmdb ha suscitato la reprimenda del Psdb – il partito del senatore Aécio Neves, grande sconfitto alle elezioni del 2014 – e del Dem, le altre due forze della maggioranza guidata da Temer. Queste hanno minacciato di ricorrere al Stf e renderanno ancor più traballante la tenuta dell’esecutivo che si appresta a presentare alle due Camere delle controverse riforme strutturali.
Il timone del gigante sudamericano è quindi nelle mani di Temer, su cui pende una sentenza del tribunale elettorale di San Paolo che potrebbe decretarne l’ineleggibilità per 8 anni. L’ex vicepresidente ed ex alleato di Dilma ricopre la carica ad interim dal 12 maggio e ha già posto le basi del nuovo Brasile: contingentamento della spesa pubblica (cavallo di battaglia del lulismo) e riassestamento dei conti federali; destatalizzazione e maggiore spazio al settore privato in settori strategici dell’economia; “deideologizzazione” della politica estera, tanto più attenta agli interessi commerciali quanto più distante dalle geometrie (geo)politiche internazionali disegnate dal Pt di Dilma e Lula.
La pantomima andata in scena negli ultimi 9 mesi è stata fedelmente riproposta in sede congressuale nei tre giorni del giudizio finale, inaugurati dal discorso pronunciato dalla stessa Dilma. La presidente prima e il suo legale Cardozo poi hanno impostato la difesa sul mantra del golpe e dell’infondatezza delle accuse, del colpo di Stato istituzionale e della morte della democrazia, lanciando esplicite accuse a Cunha, al governo “usurpatore” di Temer e alle élite conservatrici del paese che vanificherebbero le “conquiste sociali” ottenute in ossequio a un “liberismo sfrenato”.
Gli aspetti tecnico-giuridici alla base della violazione della “legge di responsabilità” e dunque dell’impeachment, formalmente oggetto della pronuncia della Camera alta, sono inevitabilmente passati in secondo piano. Le appassionate e dettagliate requisitorie degli avvocati dell’accusa e l’arringa della difesa non potevano che confermare la lapalissiana politicità del processo in atto.
Dilma e il suo governo, così come tutti gli esecutivi dell’ultimo quindicennio, si sono avvalsi di strumenti contabili-finanziari contando sulla prammatica accettazione del Congresso.
Ma hanno sottovalutato l’impatto della recessione economica in termini di consenso popolare e soprattutto i riverberi dell’allagamento dell’inchiesta “Lava jato” sugli schemi di corruzione tra imprese statali (Petrobras su tutte) e mondo politico-istituzionale. Nonché la minore capacità mediatrice – fondamentale in un presidenzialismo di coalizione come quello del Brasile – di Dilma rispetto al suo predecessore. Il dibattito sulle regole è presto diventato un giudizio sull’operato politico di Dilma e del Pt.
Senza dubbio, fa effetto ascoltare invettive pro-impeachment di senatori coinvolti nell’inchiesta Lava jato (Neves, Lobão, Collor) – scagliate contro le malversazioni e i ritocchi di bilancio del governo uscente. Al pari della strenua difesa impersonata da parlamentari del Pt tutt’altro che senza macchia (Farias, Costa e Hoffmann).
Giova però ricordare che Dilma, nonostante gli indiscutibili errori procedurali e sostanziali commessi nel corso del suo mandato (e l’indagine di cui è oggetto assieme a Lula e Cardozo per intralcio alla giustizia), non è stata accusata formalmente di corruzione né di appropriazione indebita di fondi pubblici, al contrario di numerosi onorevoli tra cui alcuni colleghi del Pt.
Eppure, la Costituzione prevede espressamente l’istituto dell’impeachment assegnando al Senato, organo politico per eccellenza, l’onere di giudicare la massima carica della Stato.
Parlare di golpe o di rottura istituzionale appare dunque fuorviante, malgrado la forzatura operata dai fautori dell’estromissione di Dilma sia palese.
Il voto espresso dai senatori e le motivazioni addotte da entrambi gli schieramenti segnalano piuttosto l’incapacità di autocritica del sistema politico brasiliano. Incapacità che è figlia dell’istinto di conservazione di un sistema corroso dall’interno e quanto mai lontano dal popolo, unico grande assente nel processo che ha portato alla destituzione di Dima. Non a caso, la proposta di quest’ultima di indire un referendum popolare sull’anticipazione delle elezioni è stata lasciata cadere dallo stesso Pt.
A Temer e al governo che uscirà dalle elezioni di fine 2018 l’arduo compito di rianimare l’economia, ridare credibilità all’intera classe politica e soprattutto limare la distanza tra Stato e nazione.
La crescita dello scorso decennio aveva anestetizzato una polarizzazione interna ora riemersa in tutta la sua pervasività. Sempre che la decisione del Senato impugnata da Dilma innanzi il Stf all’indomani del verdetto – mossa ventilata anche dal fronte Psdb-Dem con l’intento di ottenere l’interdizione dell’ormai ex presidente – non scriva un nuovo capitolo della tragicommedia in corso.
fonte: http://www.limesonline.com/limpeachment-di-dilma-rousseff-e-una-sconfitta-per-il-brasile/93874
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