Niente flessibilità? Meglio così
di CARLO CLERICETTI
Prima in un’intervista al Messaggero, poi in una lettera al Corriere della Sera per ribattere alle critiche di Paolo Mieli, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan l’ha detto e ripetuto: i tagli alla spesa hanno frenato e frenano la crescita. E chi porta Spagna e Regno Unito ad esempio di “austerità espansiva” di successo o non sa quel che dice oppure è un imbroglione: questi due paesi hanno fatto correre allegramente il deficit mentre noi tiravamo la cinghia ed è per questo che mostrano tassi di crescita molto migliori del nostro.
Il ministro, naturalmente, usa un linguaggio molto meno colorito e più tecnico, ma il suo discorso è esattamente questo. Un discorso che ai lettori di questo blog non dovrebbe risultare nuovo, visto che su queste pagine si sono ripetuti più e più volte proprio questi concetti. Per esempio nel 2012 (Stretta, il peggio deve ancora venire), nel 2013 (Aumentare la spesa pubblica per ridurre il debito non è un controsenso), nel 2014 (Pil a picco, fare più deficit o morire) e in maniera più sintetica più o meno in quasi tutti gli articoli qui proposti. Se lo ricordiamo non è per autoincensarci, ma solo per sottolineare che molti economisti non allineati alle teorie sostenute dalle istituzioni e dai governi europei dicevano queste cose dall’inizio della crisi, mentre i gestori del potere cantavano le lodi dell’austerità e dei tagli alla spesa pubblica – e, naturalmente, delle “riforme strutturali”, ossia delle leggi funzionali a una politica reazionaria – come unica medicina adatta a far ripartire l’economia. La “spending review”, che intesa come eliminazione degli sprechi e delle inefficienze per destinare risorse ad obiettivi più utili sarebbe una buona cosa, era invece vista come un grimaldello per tagliare essenzialmente nei capitoli degli investimenti, della sanità, dell’istruzione e della ricerca. Gli obiettivi della politica economica non erano più eliminare la disoccupazione e favorire la crescita, ma rispettare i parametri europei su deficit e debito, naturalmente tagliando la spesa. Che i problemi più gravi fossero quelli, la spesa eccessiva e il debito pubblico, è stato ripetuto tante volte che gli orecchianti dell’economia se ne sono convinti, e pensano di far bene incalzando il governo su quegli obiettivi, così concentrati da ignorare gli effetti deleteri di quelle politiche, che pure sono sotto gli occhi di tutti.
Ha detto Padoan: “In Italia la spesa pubblica nominale al netto degli interessi è cresciuta durante la crisi (2009-2014) meno che in altri Paesi: solo dell’1,4%, contro un aumento del 5,7% nel Regno Unito considerato campione di austerità e del 9% medio nella Ue”. E poi: “Chiunque segnali che in Spagna l’economia cresce più che in Italia, per esempio, dovrebbe ricordare anche che il deficit spagnolo nel 2015 è stato esattamente il doppio di quello italiano (5,2% vs 2,6%; nel periodo 2009-2015 la media del rapporto deficit/Pil in Spagna è stata 8,3% contro il 3,5% dell’Italia)”. E soprattutto: “L’esperienza di molti Paesi mostra che il tentativo di affrontare la spesa senza curarsi della crescita ha avuto conseguenze di segno opposto agli obiettivi perseguiti: i cittadini sono stati sottoposti a pesanti sacrifici ma il rapporto debito/Pil è aumentato anziché diminuire”. Padoan è ministro dell’Economia dal febbraio 2014: come mai ha aspettato quasi tre anni per pronunciare queste frasi? Aveva bisogno di verificare nella pratica che certe politiche provocano inevitabilmente questi effetti?
Il ministro parla anche di ciò che è necessario fare. “Una crescita sostenuta e sostenibile richiede misure di sostegno alla produttività e riforme strutturali, delle quali il governo può anticipare gli effetti con una politica di bilancio giudiziosa, che continua a ridurre il deficit mentre dedica risorse al sostegno degli investimenti e dei consumi”. E qui è come se dicesse: “Bisogna attraversare un fiume, quindi è necessario tuffarsi, ma restando asciutti”. D’altronde, poverino, non fa altro che ripetere quello che Mario Draghi non manca di affermare ad ogni occasione: per la ripresa c’è bisogno di utilizzare la politica fiscale, ma rispettando le regole europee sui conti pubblici. Ma si può saltare senza usare le gambe? O sedersi restando in piedi? Draghi e Padoan dicono proprio una cosa del genere. Solo che Padoan la dice subito dopo aver ammesso che ridurre la spesa uccide la crescita. Certo, accenna a maggiori risorse che dovrebbero arrivare dalla lotta all’evasione e una probabile riapertura della voluntary disclosure (il rientro dei capitali), ma non sarebbero certo sufficienti a dare una vera spinta, specie se si vuole continuare a ridurre il deficit.
Ma questa è solo una parte del problema. L’altra parte, non meno importante, è come il governo spenderà i soldi. Finora li ha spesi malissimo, come abbiamo scritto poco tempo fa. E dalle anticipazioni fatte filtrare sulla prossima manovra sembra che li spenderà altrettanto male. Al netto delle mance che certo non mancheranno, 15 miliardi sono già impegnati per evitare l’aumento dell’Iva. Poi ci saranno i soldi per la ricostruzione post-terremoto: nella tragedia, almeno per l’economia avranno effetti positivi. Ma ancora più positivi, e senza la tragedia, sarebbero stati se fossero stati spesi prima, per mettere in sicurezza le case. Ma “prima” i soldi non si trovano mai: solo “dopo”, a disastro avvenuto. Tutto il resto, a quanto pare, sarà impegnato in misure “per favorire la produttività” e magari ridurre ancora le tasse alle imprese e il cuneo fiscale. Cioè, ancora una volta, si daranno soldi ai privati sperando che li investano, cosa che non ha funzionato finora e che non si capisce perché dovrebbe avere miglior riuscita.
I conti li ha fatti Guido Salerno Aletta su Milano Finanza. Gli investimenti pubblici “sono scesi in valori correnti dai 41,3 miliardi del 2012 ai 37,3 del 2015, dopo il minimo di 36,9 miliardi registrato nel corso del 2014. Le altre spese pubbliche in conto capitale sono invece cresciute notevolmente, passando dai 19,3 miliardi dal 2013 ai 23,4 miliardi del 2014 fino ai 29,5miliardi del 2015. L’incremento è stato di oltre 10 miliardi in due anni. Il totale delle uscite pubbliche in conto capitale nel 2015 è arrivato così a 66,7 miliardi, superiore a quelle del 2014 (60,3 miliardi), del 2013 (57,7 miliardi), del 2012 (64,2 miliardi) e del 2011 (61,9 miliardi) e pari a quelle del 2010 (66,7 miliardi). Negli scorsi due anni, a fronte della stazionarietà delle spese pubbliche correnti al netto degli interessi (+1%), l’intero risparmio sulle spese per interessi, ridotte dai 77,6 miliardi del 2013 ai 68,4 miliardi del 2015, è stato quindi destinato all’aumento delle uscite pubbliche di parte capitale, cresciute del 10%. Considerato che, a livello economico complessivo, gli investimenti fissi lordi in euro correnti sono calati dai 276,6 miliardi di euro del 2013 ai 270,2 miliardi del 2015, con una contrazione di circa 6 miliardi, ne deriva che il contributo aggiuntivo di 10 miliardi recato dalla finanza pubblica in questi due anni è stato più che assorbito dalla tendenza del settore privato a ridurre gli investimenti”.
Capito? Hai voglia a ridurre l’Irap e il cuneo fiscale, a detassare il cosiddetto “salario di produttività”, insomma a dare i soldi alle imprese: le imprese non investono. E non perché sono “cattive”, ma perché se la finanza pubblica strozza la domanda interna non ha senso: perché produrre se poi non si riesce a vendere?
Invece di dare i soldi ai privati sperando inutilmente che investano il governo potrebbe investire direttamente, ma se ne guarda bene. Ecco un grafico con l’andamento degli investimenti pubblici:
Notare bene che quella risalita finale è un’ipotesi, riguarda i prossimi anni. Se poi sarà realizzata è tutto da vedere, e non è affatto certo. Se poi si guarda all’Europa, c’è poco da consolarsi.
Il ministro Padoan, dunque, ha fatto metà strada ammettendo che la politica di bilancio ha frenato la crescita. Ma a quanto pare non è ancora pronto a fare l’altra metà, ossia decidere che in una situazione come l’attuale è lo Stato che deve investire, perché i privati non lo fanno e non lo faranno finché le prospettive sono quelle che sono. Invece la prossima manovra sarà in linea con le precedenti, come ha già annunciato il ministro Carlo Calenda: “Abbiamo pensato a un’operazione sugli investimenti delle imprese private perché sono molto più rapidi rispetto agli investimenti pubblici”. Eggià, proprio così.
A questo punto, che la Commissione ci conceda graziosamente un po’ più o un po’ meno flessibilità sui conti diventa irrilevante. Anzi, forse è meglio che non ce ne diano, visto che questo governo i soldi li spreca. Prima di impiegare altre risorse meglio aspettare che Padoan e compagnia facciano anche l’altra metà della strada. Con il dettaglio che, mentre aspettiamo, l’Italia continua precipitare.
fonte: http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2016/09/26/niente-flessibilita-meglio-cosi/
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