Italia – Europa – Mondo
di PIERLUIGI FAGAN
Jakub J. Grygiel insegna alla P.H. Nitze School della Johns Hopkins University ritenuta il vertice dell’insegnamento per le Relazioni Internazionali (in compagnia di F. Fukuyama e Z. Brzezinki), consulente OECD e World Bank, pubblica su American Interest e Foreign Affairs. Proprio sul numero di Settembre della rivista americana che dà voce a gli studiosi degli scenari internazionali e della geopolitica dal punto di vista americano, Grygiel lancia la visione (qui) di una Europa in cui ritornano di centralità gli Stati-nazione. Ma non lo fa come lo farebbe un giornalista decerebrato dal tormentone retorico del terrore per il ritorno dei nazionalismi e dei populismi, lo fa da sano realista, intuendone la necessità e poi cogliendone le opportunità.
Grygiel definisce l’UE “sconnessa, inefficace ed impopolare” e più avanti “in chiaro deficit democratico”. Crisi dei migranti, asimmetrie non più sostenibili all’interno della zona euro, paralisi geopolitica nei confronti della Russia, del Medio Oriente, del Nord Africa, senza più il fidato (per gli americani) sergente britannico, scollamento ormai palese tra progetto ed opinioni pubbliche. Forze destabilizzanti che, in assenza di risposte e soluzioni, portano sempre più leader politici nazionali ad un ritorno alle leve di sovranità interna. L’utopia europea sembra aver perso la scommessa contro la sovranità nazionale.
Un ritorno allo Stato-nazione che, secondo lo studioso, non porta di necessità ad un traumatico scioglimento dell’UE ma ad una richiesta di minori vincoli unionisti e maggior libertà nella gestione delle essenziali leve del potere stato-nazionale, sul modello della linea del Gruppo di Visegrad – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. A Grygiel non è sfuggito il recente meeting di Atene per una -secondo lui giusta- rivendicazione di un interesse comune degli stati mediterranei a lungo ignorati da Bruxelles (si scrive Bruxelles ma si legge Berlino). Questo ritorno all’interesse nazionale non porta necessariamente allo spettro del nazionalismo ma ad un sano “patriottismo” (!). La sovranità non porta di necessità l’ostilità tra le nazioni e queste potranno ben mantenere in comune il loro mercato come la Gran Bretagna vorrebbe fosse nel dopo Brexit. Del resto, sulle contraddizioni tra Unione e Nazione, secondo l’americano, soffia da tempo la Russia fiancheggiatrice dei molti gruppi populisti e nazionalisti attivamente supportati e finanziati e se si lascerà loro il monopolio della pulsione al ripiegamento nazionale, allora sì che gli spettri più inquietanti usciranno dai sepolcri.
Ecco allora il sano realismo tipico della maggior scuola di IR americana: “Una rinazionalizzazione dell’Europa potrebbe essere la migliore speranza del continente per la sua sicurezza”. Gli USA hanno sponsorizzato il progetto Europa ma dal momento che gli europei non sono stati in grado di portarlo ad efficace compimento, continuare a supportarlo significherebbe porsi sul versante sbagliato, lasciando sole (cioè ai russi) le forze oggettive che reagiscono a questo fallimento. Ed ancora: “Washington non deve temere lo scioglimento della UE” (si scrive -non deve temere-, si legge -deve favorire-). Ed a proposito dell’inazione e la passività dell’UE sul caso ucraino, meglio allora fiancheggiare direttamente come USA gli stati di contatto confinario con la Russia: “Le persone sono molto più disposte a combattere per il loro paese, per la loro storia, il loro territorio, la loro comune identità religiosa, piuttosto che per un organismo regionale astratto, creato per decreto” . Dunque si prevede che qualcuno dovrà “combattere” come ha ben intuito la Germania che ha varato -di recente- le sue allarmanti guideline per una “protezione civile” che tenga conto dei rischi di guerra chimica e nucleare e quel qualcuno dovrà esser aiutato generosamente da chi non vede l’ora di soccorrerlo.
E poiché al realismo si può sempre unire il perseguimento di fini utilitari strategici, ecco -rispetto al nuovo spezzatino degli insignificanti staterelli europei tornati “sovrani”-, domandarsi “come altro potrebbero difendersi dalle minacce alla propria sicurezza?” sia tra quelle presenti, sia tra quelle dell’immediato futuro che gli americani saranno sempre più pronti a spandere a piene mani ai quattro angoli del globo? Ma rinforzando il vincolo NATO, è ovvio! E non solo, si parla di paesi “sopraffatti dalle migrazioni di massa”? Ecco allora il discorso di Obama alla Nazioni Unite che annuncia un coordinamento americano di 50 paesi pronti ad accogliere rifugiati. Qui non s’improvvisa nulla, gli americani creano i problemi e poi piazzano anche le soluzioni, del resto il marketing -più o meno- l’intelligence del nostro modo economico, di norma fa proprio questo. E poiché anche il “soft” del “power” ha le sue esigenze, ecco che Kant sarà pur stato tedesco ma visto che i tedeschi non sono capaci di gestirne l’eredità, ora l’imperativo categorico lo verniciamo a stelle e strisce (qui), perché la leadership ha da essere anche etica.
Si va quindi a chiudere con uno squillante: “ l’Europa sarà in grado di affrontare le sfide per la sicurezza più urgenti solo se abbandona la fantasia di unità continentale e abbraccia il suo pluralismo geopolitico”. “E pluribus unum” è il motto americano dal 1776, noi “pluribus” siamo e “pluribus” è meglio che si torni ad essere.
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Tecnicamente parlando, questo è lo scontato ed eterno revival del “divide et impera”. La locuzione latina è sovraesposta e pochi ne colgono il ruolo essenziale nella dottrina imperiale di ogni tempo e luogo. Il “divide et impera” coglie e rinforza anche l’altro dispositivo storico di relazione tra entità politiche sovrane diverse, il “nemico del mio nemico è mio amico” (ve ne sono poi varie versione a seconda di come assortite i tre termini che come il famoso “problema dei tre corpi” di H. Poincarè, è alla base delle situazioni complesse). Questi concetti, percepiti come motti di semplice saggezza popolare storica, sono appunto storicamente saggi perché veri, utili, provati e riprovati. Oggi veniamo tutti educati al “nuovo” ma in queste faccende concrete e non ideali, l’empirico dà molte più garanzie e soddisfazioni.
Gestire “from behind” i territori che intermediano tra un impero (USA) ed il nemico (Russia), nel nostro caso l’Europa, è lo standard di una gestione geopolitica sistemica. Si possono così ottenere una serie di situazioni estremamente vantaggiose: 1) la possibilità dello “sherry picking” ovvero scegliersi i partner utili a questo o quello, volta per volta, mettendo anche gli uni contro gli altri in una gara alla fedeltà imperiale che ne abbassi le pretese e ne rimuova le resistenze; 2) sabotare l’emersione di un nuovo polo europeo pronto a giocarsi la partita nel mondo nuovo che oramai s’è capito sarà multipolare (vedi ambizioni della Germania); 3) sobillare le paranoie dei singoli stati più propensi alla frizione con la Russia e poi con la Cina facendo impantanare questi ultimi che debbono dare approdo alla loro Via della Seta, nella pari complessa gestione del vociante pollaio europeo con cui -soprattutto i cinesi- non hanno alcuna dimestichezza.
Del resto i britannici questo hanno preso a fare con l’idea di trattati commerciali one-to-one ora che non sono più legati ai vincoli unionisti e tra l’altro, ora che non ci sono più loro, ecco che tedeschi e francesi si fanno strani disegni in testa come la nuova forza armata europea o l’affossamento del Ttip. L’euro, così com’è, non solo non serve a niente visto che la Germania non si allinea alle allegre politiche espansive stile Fed o BoJ e con l’ossessione austera deprime la domanda inceppando l’intero meccanismo globale a proprio esclusivo vantaggio e chissà se qualche quota delle riserve mondiali che andranno necessariamente perse per far posto allo yuan, non potranno esser recuperate dal dollaro, togliendolo di mezzo definitivamente. La Via della Seta, infine, bussa ai confini dell’Iran ed Erdogan di conseguenza ha cominciato a prepararsi come tappa successiva, manca poco che le infrastrutture arrivino a destinazione, cioè proprio in Europa. Meglio frammentare il territorio per rendere la vita difficile ai cinesi, altrimenti l’Europa è persa e con essa la guerra intera poiché, come ogni studente al primo anno di IR sa, l’atlantismo è il paradigma indiscutibile del Sistema Occidentale guidato dagli Stati Uniti. Persa l’Europa, ecco l’Eurasia, l’incubo geopolitico madre di tutta la geopolitica anglosassone.
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E poiché si stava parlando di atlantismo eccoci alla cronaca recente. L’Atlantic Council, il think tank nato nel 1961 per sovraintendere allo sviluppo e gestione dei legami che fanno il Sistema Occidentale, tramite le mani di John Kerry, ha attribuito il Premio Cittadino Globale 2016 a Matteo Renzi. Dal vertice di Atene con i paesi mediterranei, Renzi ha intrapreso una manovra di distinzione dal precario “direttorio” messo in piedi in maniera improvvisata da Merkel ed Hollande dopo Brexit. Della divergenza, si è vista palese evidenza al recente vertice di Bratislava ma anche nella firma italiana di un documento assieme ad altri 11 paesi europei che vogliono continuare le trattative sul Ttip (qui) ed infine, nel non invito al vertice di Berlino del 28 Settembre tra Merkel, Hollande e Juncker che per altro ha fatto sapere a Renzi che di “flessibilità” ne ha avuto anche troppa, il che significa guai. Nel mezzo, appunto il premio americano che Kerry ha conferito dicendo che “l’Italia è sulla buona strada”, “buona strada” per andare dove?
Dopo Ventotene e gli annunci di impegno comune per la difesa europea, si sono incontrati il ministro francese con quello tedesco ma non con quello italiano. La difesa italiana quanto ad industria, è legata a doppio filo prima con quella britannica e poi con quella americana e poiché il senso del nuovo programma della nuova difesa europea è legato proprio alla sviluppo di una ricerca ed un produzione competitiva per questa industria, ecco che, tornati dall’isola sul continente i tre leader, le strade si sono subito divise. O stai di qua o stai di là.
Quella italiana rimane la strada di una fedeltà atlantica senza alternative, la “buona strada” per la quale Renzi è stato premiato non solo all’Atlantic Council ma anche con il principale servizio di Vogue America (qui) con tanto di foto di Annie Leibovitz nel quale Renzi è presentato come il riformatore che ha liberato il suo partito liberal da ideologie retrodatate, il riformatore dell’Italia ma anche il prossimo riformatore dell’Europa (?). Premiato infine, con l’invito ad una inedita “cena personale” alla Casa Bianca, il prossimo 18 Ottobre con la famiglia Obama. Atlantismo di ferro, sempre più attivo in casa nostra vista la possibile, prossima nomina anticipata dall’Espresso, del Presidente RAI -Monica Maggioni- a responsabile della sezione italiana della Commissione Trilaterale (qui). Allineamento già rimarcato in Afghanistan, Iraq e Libia.
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Arrivando alla somma che fa il totale, si potrebbe pensare che il pensiero profondo dell’élite geopolitica americana cominci a puntare alla disgregazione dell’Europa e conseguente eutanasia dell’euro e chissà se Joseph Stiglitz, “annusando l’aria” ovvero questo nuovo consensus che vien formandosi a Washington, abbia anche da ciò tratto motivazione a riproporre la vecchia idea della separazione degli euro a cui ha dato gran pubblicità proprio qui da noi con un inedito tour estivo. L’Italia sembra assurgere a paletto di frassino da conficcare nel cuore germanico che gli americani sanno che -da sempre- non batte certo per loro, da cui multe ad Apple e ritorsioni su Deutsche Bank. E dal dopo Brexit che la stampa ecofinanziaria anglosassone ha lanciato la nuova profezia dell’Italia come secondo uscente dall’impianto europeo (dall’euro) ed in questi casi si sa che certe profezie servono proprio per auto avverarsi. La sequenza delle prossime elezioni in Euroland: referendum ungherese, Austria, ennesimo tentativo spagnolo, Olanda, Francia per concludere a Settembre 2017 con la Germania, garantisce un’Europa sempre più scettica su se stessa e paralizzata dai rinnovi di potere, se Renzi fosse lanciato da una vittoria referendaria, potrebbe attaccare proprio mentre son tutti distratti. Non è detto vada tutto liscio ovvio, potrebbe ad esempio spuntare fuori un Trump che scombina un po’ i piani americani ma chissà poi di quanto, l’interesse americano ha una sua oggettività che prescinde dall’interprete che abita la Casa Bianca. A gli americani piace l’idea dell’uomo del destino ma la sostanza è che sono un sistema e l’uomo del destino ha invero un solo destino possibile: servire l’interesse del sistema. In otto anni, Obama, non è riuscito neanche a chiudere un carcere (Guantanamo), se firma una tregua coi russi in Siria il sistema manda i bombardieri a farla saltare, cosa di più potrà fare il -very powerful man- con i capelli color giallo pulcino?
Noi in quanto cittadini del sistema italiano, rimaniamo sempre un passo indietro. Contro l’euro e contro l’UE facciamo il gioco degli americani imperial-globalisti, a favore facciamo il gioco della Germania ordoliberista che ci devasta con le sue “riforme”. Per il “nostro gioco”, il turno non arriva mai. I tanti che si deliziano e dilettano sul concetto di sovranità, dovrebbero ogni tanto dare un occhiata a quanto il mondo è complesso (nazione, regione, pianeta), a quante poche speranze di emancipazione ha un soggetto cieco e fragile che come nei film di Romero, scappa impaurito da un orda di zombie ordoliberisti, per finire nelle braccia dei Dottor Stranamore e viceversa. “Interesse nazionale” concetto davvero incomprensibile per un paese che al massimo è diventato uno Stato ma non ancora una nazione.
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NOTA. Huang Hui, esponente della Nuova Sinistra cinese, in questo articolo (qui) ricordava che Mao Zedong cambiò le priorità di analisi tra il 1926 dove privilegiava il campo interno della lotta di classe, al 1930 quando l’imminenza dell’invasione giapponese e il dilagare del fascismo internazionale, lo portò a ritenere che la “contraddizione principale” si andava spostando dalla lotta interna alla lotta tra le nazioni. Oggi, oltre all’ambito interno ed a quello internazionale, si somma anche quello globale ed il pensiero dell’emancipazione, dovrebbe far forse qualche sforzo in più per rilevare meglio la complessità dei contesti nei quali collocare le analisi. Oltre a sviluppare “critica” su cui siamo campioni mondiali, prender coraggio nel sviluppare anche qualche brandello di più concreta e coraggiosa strategia complessiva. Altrimenti si tratterà solo di preferenze di cottura, se quella lenta della padella o quella sfrigolante della brace. “Tertium non datur”?
fonte: https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/09/26/italia-europa-mondo/
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