La sindrome di Versailles
Un pregevole editoriale del direttore della rivista di geopolitica, che mette in chiaro molti punti caldi dello scenario internazionale, a partire dalla contrapposizione Usa-Russia.
di LIMES (Lucio Caracciolo)
1. America e Russia sono in guerra. Certo non diretta né totale. Ma nemmeno nuova guerra fredda, come pretende l’opinione corrente. Piuttosto, scontro asimmetrico senza spargimento di sangue proprio ma con ampia effusione di quello altrui – rispettivi ascari compresi – nei teatri indiretti di battaglia, quali Siria e Ucraina. Con intenso bombardamento di propaganda, accompagnato da duelli di spionaggio e disinformazione specialmente accesi nelle profondità del Web, a investire beni materiali e immateriali, persino le Olimpiadi e i Mondiali di calcio. Guerra ibrida, secondo il vago marchio caro agli strateghi. Conflitto irregolare che Washington e Mosca contano di gestire, scongiurandone la degenerazione in partita aperta, a rischio di olocausto nucleare.
Di che guerra si tratta? Per carpirne la tecnica, conviene riprendere in mano un aureo libretto cinese: Guerra senza limiti. Lo scrissero quasi vent’anni fa due inventivi colonnelli dell’Esercito popolare, Qiao Liang e Wang Xiangsui [1]. Per i quali viviamo l’epoca del caos strutturato, descrivibile con la metafora dei frattali. Le guerre tradizionali, intese come collisione simmetrica di masse contrapposte, secondo eleganti movenze euclidee, sono storia. Combattere «senza limiti» significa rompere le regole e i tabù che separano il militare dal civile, le armi dalle non-armi, gli ordigni ipertecnologici delle maggiori potenze dalle bombe umane del terrorismo suicida. La guerra dalla pace. Il limes che le separava è caduto. La pace apparente cela la guerra: fiume carsico che sbocca improvviso in superficie spargendo orrore e distruzione, salvo reimmergersi per lunghi intervalli, nei quali la conflittualità non sarà mai del tutto sedata. Il suo percorso sarà forse evidente allo sguardo postero dello storico venturo, molto meno alla percezione dello stratega d’oggi, immerso nel surplus d’informazione eccitato dalle nuove tecnologie comunicative.
I colonnelli cinesi derivavano la loro tesi dal terrorismo islamista, modello di guerra senza limiti, contro il quale la panoplia bellica della superpotenza Usa, accecata dalla superiorità tecnologica, si sarebbe svelata inservibile. Anticipando l’attacco alle Torri Gemelle, annotavano: «Un bel mattino la gente si sveglierà per scoprire con sorpresa che alcune cose gentili e carine hanno cominciato ad assumere caratteristiche offensive e letali»[2]. Quell’approccio sovversivo della cultura strategica stabilita, non solo in Occidente, potrebbe rivelarsi altrettanto profetico se applicato allo scontro fra Stati Uniti e Federazione Russa. Ma la taglia geopolitica e militare dei due contendenti è tale per cui il deragliamento della loro competizione verso lo scontro «fuori tutto» ridurrebbe la memoria dell’11 settembre – l’evento più sopravvalutato della storia contemporanea – a deprecabile episodio di cronaca nera.
Di tanta minaccia sono consapevoli le élite più avvertite in Russia, in America e nel resto del mondo. Allo stesso tempo, i decisori politici – mai tanto screditati, almeno in Occidente – sembrano mutarsi in osservatori, quasi fossero rassegnati all’impossibilità di governare i meccanismi della competizione che hanno contribuito a scatenare. Quanto ai militari, sono divisi fra interesse di gilda – quando tira aria di guerra, piovono soldi e cresce lo status – e consapevolezza di chi, professionista delle armi, valuta le incognite belliche con cognizione di causa. Nessuno vuole la guerra aperta, salvo qualche pazzo o avventuriero, convinto di vincerla. Quasi tutti sperano che alla fine prevalga l’istinto di conservazione, figlio della razionalità. Ma follia e caso hanno mille volte infranto i canoni della logica.
Sicché l’allarme si diffonde su entrambi i fronti e investe la comunità degli analisti, ovvero di quei rabdomanti che per talento e vocazione dovrebbero scandagliare le tettoniche strategiche per tracciarne le probabili derive, nell’ambizione quasi sempre insoddisfatta di educare i decisori. È il caso di Sergej Karaganov e George Friedman, che da opposti punti di vista segnalano il medesimo rischio. Per il primo, siamo in modalità prebellica da otto anni, ovvero dalla guerra di Georgia, quando già «la fiducia fra le grandi potenze tendeva allo zero». E «la propaganda che circola adesso ricorda il periodo che precede una nuova guerra»[3]. Stando a Friedman, «l’ultima volta che il mondo aveva questo aspetto era alla vigilia della seconda guerra mondiale». Peggio: «Il pericolo maggiore è che apparentemente non vi sono soggetti capaci di arrestare» le crisi e i conflitti sempre più intrecciati che coinvolgono le maggiori potenze, dal Medio Oriente all’Ucraina o ai mari cinesi [4].
Il convergente allarme degli analisti russi e americani che nelle fasi critiche contribuiscono ad alimentare le diplomazie parallele o segrete si esprime nel rapporto Che cosa rende possibile la guerra fra grandi potenze, pubblicato nell’aprile scorso dal Club Valdaj – gruppo di discussione alimentato da Mosca, nel quale esperti occidentali si confrontano con gli omologhi russi e con i dirigenti del Cremlino, Putin incluso [5]. Firmato da Michael Kofman, del Wilson Center, e Andrej Sušencov, direttore della fondazione che gestisce il Valdaj, il documento statuisce: «La probabilità di una guerra fra grandi potenze continua a crescere nell’attuale ambiente internazionale, e soprattutto preoccupa l’alta probabilità che possa emergere in modo inatteso» (tondo nostro, n.d.r.)»[6]. Inoltre, «un conflitto sarebbe difficilmente localizzato, giacché a provocarlo serve da subito un’escalation orizzontale e verticale, in modo da assicurare il successo di questa o quella potenza» [7].
Sintomi della minaccia sono l’inclinazione a ricorrere più facilmente alla forza, tanto che «il mondo deve di nuovo preoccuparsi di rilevanti conflitti fra Stati», alimentati «da nuove capacità militari» [8]. Echeggiando i colonnelli cinesi, il gruppo di lavoro russo-americano osserva «una chiara tendenza ad allontanarsi dalle regole di guerra in senso stretto o dall’esistenza di qualsiasi tangibile separazione fra pace e guerra»[9]. Anche perché il campo di battaglia si è esteso allo spazio, al cyberspazio, all’intero spettro elettromagnetico. I primi bersagli della grande guerra saranno le infrastrutture elettroniche di comando e controllo, quelle energetiche, finanziarie e di informazione (a cominciare dai cavi sottomarini di Internet). Conclusione: «È certo che per vincere, anche in una conflagrazione regionale, le grandi potenze dovranno distruggere parti importanti del mondo moderno da cui tutti gli Stati dipendono. Sicché ogni conflitto produrrà smisurate conseguenze globali»[10].
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l’editoriale fa parte del nuovo numero mensile di Limes “Russia-America, la pace impossibile” ed è possibile leggerlo per intero solo se abbonati a limesonline o al cartaceo. Ne vale la pena.
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