Scuola: il problema è la difficoltà, non il latino
Pubblico un articolo di Luca Ricolfi, apparso oggi sul Sole 24 Ore, che condivido parola per parola. Non avrei potuto scrivere meglio ciò che penso: il primo problema della scuola italiana (e dell’università ma direi anche, fatti i debiti mutamenti, della famiglia) non sono i programmi o i metodi di insegnamento o il livello dei docenti (dei genitori), bensì il livello dell’asticella, che da quaranta anni è sempre più basso. Il continuo abbassamento dell’asticella è parte essenziale di un progetto politico disumano, capitalistico, antipopolare, antisocialista, volto a generare clienti, consumatori, lavoratori part time, schiavi, sempliciotti, debosciati impazienti e invertebrati. L’abbassamento dell’asticella rinnega le storie, le prassi, i programmi e i valori di ogni popolo vissuto fino ad ora sulla terra (SD’A). Perciò è disumano.
di Luca Ricolfi, Il problema è la difficoltà, non il latino – No, il problema non è il latino, Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2016, pp. 1 e 26
Non so esattamente perché, ma ho sempre detestato gli appelli. Forse perché sono troppi, e i personaggi pubblici ne abusano (come i radicali con i referendum). O forse perché, assai spesso, sembrano strumenti di autopromozione dei firmatari, più che mezzi adeguati per risolvere i problemi che sollevano. Insomma, quali che siano le origini della mia diffidenza, non ho mai firmato appelli. Anzi, mi sono dato una regola: non firmare mai un appello, anche se lo condividi al 100%.
Oggi però sono crollato. Ho violato la mia regola, e ho firmato un appello, il primo (probabilmente l’unico) della mia vita. Non me la sentivo di non aderire. Così, venerdì ho aggiunto la mia minuscola firma alle 9.964 che già erano state raccolte. Probabilmente, nel momento in cui leggete questo articolo, le firme avranno superato la barriera delle 10mila, tantissime per il tipo di argomento considerato. Di che cosa si tratta? Si tratta della lettera-appello contro l’abolizione, parziale o totale, della traduzione dal latino e dal greco nell’esame di maturità (una proposta lanciata qualche mese fa dall’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer a un convegno milanese). Qui non voglio aggiungere alcun argomento alle limpide e convincenti parole dell’appello, il cui testo è direttamente consultabile su internet (indirizzo utile anche per eventuale firma). Quello che vorrei fare, invece, è raccontare come può vedere le cose chi, come me, fa il sociologo e insegna materie scientifiche (matematica e analisi dei dati) agli studenti universitari. Ebbene, io sono convinto che la vera posta in gioco non sia la sopravvivenza della cultura classica nel nostro Paese. Certo, tutto fa pensare che la nostra epoca sia una sorta di contro-Rinascimento, un tempo in cui il pendolo fra l’ammirazione per i classici e la venerazione delle novità oscilla decisamente a favore di queste ultime. E, se devo fare una previsione, sono perfettamente persuaso che si continuerà sulla strada già imboccata con la soppressione della storia antica dalla scuola media inferiore: nelle scuole secondarie del futuro lo spazio riservato alla civiltà greco-romana da cui proveniamo sarà sempre più ristretto. E tuttavia a me pare che la ragione vera per cui si vuole (e quasi certamente si riuscirà) abolire la traduzione dal latino e dal greco non sia l’incapacità di apprezzare la cultura classica, o la volontà di promuovere la cultura scientifica, o il desiderio di modernizzare e svecchiare la scuola.
No, la vera ragione è molto più terra-terra: la traduzione dal latino e dal greco, insieme ad alcune parti della matematica (nei casi in cui vengono effettivamente insegnate), è rimasto l’ultimo compito davvero difficile della scuola secondaria superiore. È questo, semplicemente questo, che rende attraenti le tesi degli abolizionisti. È questo che – prima o poi – consentirà loro di imporsi. Perché, non nascondiamocelo, la domanda degli studenti e delle loro famiglie non è di alzare l’asticella, ma di abbassarla sempre più, come in effetti diligentemente facciamo da almeno quattro decenni. È questo, il livello dell’asticella, che fa la differenza fra una buona scuola e una scuola mediocre. Ed è questo, la tenace volontà di tenerla bassa, il non-detto che accomuna buona parte delle innovazioni nella scuola e nell’università. Se così non fosse, alla progressiva erosione dello spazio del latino e del greco, con la soppressione dell’analisi logica nella scuola media inferiore, la scomparsa quasi universale della traduzione dall’italiano, l’istituzione di licei scientifici “ma senza latino”, si accompagnerebbe l’introduzione di soggetti ritenuti più interessanti, o più utili, o più formativi, ma altrettanto impegnativi. Giusto per fare qualche esempio: studio del cinese, compresi gli ideogrammi; logica e calcolo simbolico; teoria della relatività; meccanica quantistica; filologia classica o moderna; algebra astratta; linguaggi di programmazione evoluti (al posto del ridicolo insegnamento del pacchetto Microsoft Office). Ecco perché dico che la cultura classica non è la vera posta in gioco. Le minacce alla cultura classica vengono un po’ da tutte le parti, ma il suo vero tallone di Achille è che c’è un momento di essa, quello in cui prendiamo in mano un testo di 2000 anni fa e proviamo a tradurlo, che richiede un livello di organizzazione mentale che non siamo più capaci di fornire a tutti. Per questo, essenzialmente per questo, la traduzione dal greco e dal latino è entrata nel mirino della politica. Non tanto perché «non è utile» (quasi nulla di ciò che si insegna a scuola ha un’utilità immediata), ma perché è difficile, molto difficile. Si potrebbe obiettare: perché mai dobbiamo difendere le cose difficili? Non c’è un po’ di sadismo nel rifiuto di alleggerire gli studi? È arrivati a questo punto, a questo nodo del problema, che mi sono convinto che, proprio per il lavoro che faccio, non potevo non firmare l’appello. Perché quel che osservo nel mio lavoro di docente universitario non mi può lasciare indifferenti.
Quel che vedo è terribile. Ci sono studenti, tantissimi studenti, che non hanno alcun particolare handicap fisico o sociale eppure sono irrimediabilmente non all’altezza dei compiti cognitivi che lo studio universitario ancora richiede in certe materie e in certe aree del Paese. Essi credono di avere delle “lacune”, e quindi di poterle colmare (come si recupera un’informazione mancante cercandola su internet), ma in realtà si sbagliano. Per essi non c’è più (quasi) nulla da fare, perché difettano delle capacità di base, che si acquisiscono lentamente e gradualmente nel tempo: capacità di astrazione e concentrazione, padronanza della lingua e del suo lessico, finezza e sensibilità alle distinzioni, capacità di prendere appunti e organizzare la conoscenza, attitudine a non dimenticare quel che si è appreso. La scuola di oggi, con la sua corsa ad abbassare l’asticella, queste capacità le fornisce sempre più raramente. E, quel che è più grave, questa rinuncia a regalare ai giovani una vera formazione di base non avviene certo in nome di un’istruzione “utile”, ovvero all’insegna di uno sviluppo delle capacità professionali, ad esempio sul modello tedesco dell’alternanza scuola-lavoro. No, il modello verso cui stiamo correndo a fari spenti è quello della liceizzazione totale: la scuola secondaria superiore è oggi un gigantesco liceo che non è più in grado di erogare una preparazione di base decente, e proprio per questo induce l’università a trasformarsi essa stessa in un immenso e tardivo liceo. L’unico baluardo che resta in piedi sono quelle scuole, ma forse sarebbe meglio dire – quegli insegnanti – che non hanno rinunciato a spostare l’asticella sempre più in su, per mettere i loro allievi nelle condizioni di affrontare qualsiasi tipo di studio, umanistico o scientifico che sia. È grazie a queste scuole e a questi insegnanti che all’università, nonostante tutto, arrivano ancora drappelli di studenti in grado di ricevere un’istruzione universitaria, e le materie più complesse non sono ancora state abolite del tutto. Ma si tratta di eccezioni, non di rado provenienti dalla minoranza di studenti (circa il 6%) che ancora scelgono il liceo classico, con la sua aborrita prova di traduzione dal latino e dal greco. La regola, purtroppo, è che chi ha un diploma di maturità non è in grado di frequentare un’università che non abbia drasticamente abbassato gli standard. È per questo che sto con la lettera-appello sulla traduzione dal latino e dal greco. Per me quella lettera non difende semplicemente la cultura classica, il latino o il greco. Quell’appello, difendendo l’ultima prova veramente difficile rimasta in piedi nella scuola, difende anche un’idea più generale: che se non vogliamo privare i nostri ragazzi delle capacità di cui prima o poi avranno bisogno, dobbiamo regalargli studi degni di questo nome, e smetterla di proteggerli da ogni sfida che possa metterli davvero alla prova.
Il problema è che con l’aumentare delle conoscenze le materie si sono infarcite di programmi e la scuola non è restata al passo con i tempi. Che allo scientifico si facciano 3 anni di “Divina” Commedia e latino ma non si insegni nulla del pensiero dei tre filosofi maggiori della seconda metà del Novecento che si sono occupati di Storia della Scienza e di metodo scientifico è scandaloso.
Che non si insegni cosa è stata la “Science War” è altrettanto scandaloso. Gli studenti dello scientifico fanno benissimo a lamentarsi del latino e a non studiarlo: è solo tempo perso, TEMPO PERSO. Al classico facciano pure greco e latino fino allo sfinimento ma non tediateci con queste teorie tardo-gotiche
Il latino è inutile/dannoso in alcune scuole perché toglie spazio ad altre materie non secondarie, non inferiori all’inutile latino.
Scusa Marco ma secondo te liceo classico non si studia filosofia e filosofia della scienza?ma credi che gli studenti stiano tutto il giorno sul Rocci e a coniuga
Non è affatto vero. Il latino è la base formativa del ragionamento logico, che poi, una volta formato e sviluppato, sarà utilissimo per le scienze matematiche
Bravo. Insegnamo pure i filosofi senza il latino. La storia greco-romana serve ancora meno forse. Chissenefrega di quante pugnalate sono servite per fare secco Cesare? Insegnamo l’iPhone ma tralasciamo il telegrafo. Mica serve. La complessità è ormai la base della realtà in cui viviamo. Se per progredire pretendiamo di procedere per sottrazione e semplificazione al primo sassolino cadremo miseramente faccia a terra. Mi piace pensare all’attività che nei licei si fa sul latino come ad una “matematica della lingua”. Credo di aver appreso più procedimenti logici nella traduzione di un testo antico che nell’applicazione di formule matematiche. Nessun progresso senza scienza, nessuna scienza senza conoscenza, nessuna conoscenza senza linguaggio. E il latino (e greco nel caso) sono la base ed al contempo il trampolino per la comprensione del linguaggio verbale tout court con le sue molteplici logiche, sintassi, grammatiche. Chi si schianta contro le loro caratteristiche non può avere accesso ad una complessità (della realtà attuale) ben più articolata. Sul fatto che i programmi vadano rinnovati, ammodernati e resi più efficaci siamo d’accordo; ma non si fa elidendo, lo si fa razionalizzando (anche tutto il sistema scuola, ma questo è un altro discorso ancora). Nessun liceo senza latino sennò si chiama istituto tecnico o professionale, che vanno bene comunque ma non sono licei.
Insegnamo?
Il problema è che il Liceo Scientifico è stato pensato da Giovanni Gentile come scuola onniscente…scienza intesa nel senso hegeliano come conoscenza….infarinata su tutto per preparare la classe dirigente del futuro….quindi il latino serve….serve a usare la testa….la logica w a far funzionare il cervello….
ecco! Hai detto bene! pensata da Giovanni Gentile circa cento anni fa; da allora quanti cambiamenti ha realizzato la società? E quante la scuola?
Tu hai capito tutto… Ma ti rendi conto che senza sapere da dove si viene non si può comprendere perché si è come si è? Lo sradicamento produce addomesticabilità. Riguardo alla Comedia credo che una risata sardonica basti: la scuola deve formare l’Uomo o la monade lavoratrice? È il Bello che forse rende degna una vita già abbastanza dolorosa negli aspetti esistenziali, scevri dalla società in cui viviamo.
Veramente l’articolo parla di un altro tema e dice che il problema è un altro, non quello da lei segnalato: la scuola deve essere difficile; bisogna alzare il livello dell’asticella.
Bisogna educare i giovani a stare seduti per molto tempo continuativamente, a non distrarsi, a concentrarsi, a memorizzare, ad organizzare i pensieri, a svolgere sottili distinzioni, e così via. Senza alzare il livello dell’asticella, qualsiasi cosa si insegni, la scuola non svolge la funzione di far crescere intellettualmente e quindi spiritualmente, bensì quella di intrattenere, di divertire, di distrarre, di semplificare, di banalizzare, di assistenza sociale, di dare una verniciatina di nozioni.
Purtroppo non sono riuscito a trovare con google un articolo che riportava i dati dei promossi e dei bocciati alla maturità classica nei licei di Milano nel 1930. Comunque i dati erano più o meno questi: circa il 75% degli studenti fu bocciato in estate e complessivamente, compreso settembre, oltre il 50% dovette ripetere l’anno. Ora, se consideriamo che quella era certamente una scuola di classe, frequentata soprattutto dagli appartenenti alle classi colte o abbienti, dobbiamo allora prendere atto che il 50% dei figli di grandi imprenditori, di magistrati, di avvocati, di dirigenti amministrativi, di alti politici, di alti ufficiali veniva bocciato nell’ultimo anno del liceo classico. Quella scuola non era severa per fare selezione di classe sociale. Era severa per fare selezione di classe dirigente e per formare uomini e quindi era anche classista.
Una scuola che chiede poco o nulla agli studenti, che non li spinge alla noia, alla fatica, allo sforzo e che consente ad essi di andare avanti anche se non hanno superato l’asticella, o abbassa quest’ultima a un livello che possono superare anche i semi-incapaci di intendere e di volere, è veleno sociale e antropologico (e genera accettabili scuole e università private, che altrimenti sarebbero sempre peggiori di quelle pubbliche), a prescindere dalle materie che si insegnino e dai metodi pedagogici che si usino.
PS: la scuola (nei licei classici, scientifici e tecnici) e l’Università insegnano e devono insegnare soltanto cose inutili. Accusare la scuola (o l’università) di insegnare cose inutili, significa non sapere quale è la funzione della scuola e quale quella dell’università.
“Bisogna educare i giovani a stare seduti per molto tempo continuativamente, a non distrarsi, a concentrarsi, a memorizzare, ad organizzare i pensieri, a svolgere sottili distinzioni, e così via”
Praticamente dei gobbi macina nozioni.E poi ci sorprendiamo perchè il 20% dei giovani ha ernie discali.
Immagino che dal modo in cui scrive lei ha avuto pochi contatti con il mondo esterno.
Siamo in piena new economy,le possibilità di realizzazione personale si sono moltiplicate all’inverosimile con le nuove tecnologie e lei propone di rifarci a idee risalenti alle guerre mondiali(che per carità allora erano avanguardia).La scuola odierna non dà strumenti per conoscere un mondo sempre più veloce e interconnesso,figuriamoci provare a sfruttarlo per realizzare le proprie idee
Mio padre volle che frequentassi una scuola di periferia. A nove anni mi tuffavo da otto metri, saltavo sulla terra da quattro, entravo di nascosto (illecitamente) nel pomeriggio nella scuola elementare e marinai una volta la scuola in quinta elementare (e cinque o sei giorni in seconda media). A dodici anni fui denunciato per violenza carnale (non commessa: volevamo soltanto realizzare un giornalino pornografico chiedendo il permesso, come poi fu palesemente accertato anche dalla madre della quattordicenne coinvolta). Sono candidato maestro di scacchi e ho frequentato per 5 anni il conservatorio (chitarra classica). Ho toccato la prima tettina a dodici anni, sono stato rappresentante di classe e di istituto e sono stato ricoverato in coma alcolico a diciassette anni durante la gita scolastica. E potrei continuare all’infinito. Mi faccia il piacere, presuntuoso del cavolo.
Mentre leggevo le banalità del tuo interlocutore speravo che dessi una risposta del genere. Grande!!!
E quindi? Sarebbe un esempio da seguire?
No dove lo ha letto? Come ha ipotizzato questa interpretazione? Dove ha visto la proposta?
Rispondevo alla frase “Praticamente dei gobbi macina nozioni.E poi ci sorprendiamo perchè il 20% dei giovani ha ernie discali. Immagino che dal modo in cui scrive lei ha avuto pochi contatti con il mondo esterno”, mostrando che ero stato educato a vivere sulla strada, nei campetti e con i bambini che incontravo e che credere che essere studiosi o molto studiosi significhi anche avere “pochi contatti con il mondo esterno” e avere ernie discali significa essere stati completamente stupiditi e dire cose false per di più facendo presuntuose ipotesi su persone che non si conoscono. Per quanto mi riguarda, non mi pento di nessuno dei fatti che ho riportato, perché non uno di essi è giuridicamente illecito o moralmente offensivo verso qualcuno, con la sola eccezione dell’entrata nelle scuole nel pomeriggio all’età di nove anni, che tuttavia non mi sembra un comportamento grave. Per me il modello è: non far vedere la televisione ai figli; non regalare ad essi telefonini fino ai 14 anni; far frequentare ai figli bambini – loro amici, conoscenti e avversari – di estrazione “popolare”; riuscire a far sì che si appassionino allo studio e a una o più arti; lasciare per il resto liberi i bambini e i ragazzi di fare ciò che vogliono, anche sbagliando e pagando, eventualmente, per gli errori commessi.
Si tratta di plasmare degli interconnessi o dei creatori di interconnessioni? Vede, dal latino inutile siamo passati alla storia del ‘900 inutile. A ‘sto punto li formiamo con le paginate di facebook che si fa prima. Le auguro di non venire mai curato da un giovane medico che, per sfruttare al meglio il suo tempo, ha tralasciato i vecchi (e ormai inutili ovviamente) capitoli che parlano di Pasteur.
Discorsi inutili che ogni tanto ritornano, ritornano su quello che dovrebbe essere ma più non è. Discorsi che dimenticano che l’argomento è la scuola pubblica, e proprio poiché la scuola è pubblica essa è direttamente dipendente dal momento storico-politico–ambientale- culturale del momento. Come può una scuola pubblica, in un regime capitalistico avanzato e decadente, non preparare generazioni di compratori acritici e indifesi, e come potrebbe una scuola di dipendenti pubblici già piallati da decenni di denigrazioni, dopo essere stati evirati di ogni dignità e rispetto costruire menti e corpi indipendenti dal sistema? Con quali mezzi potrebbero ribellarsi, con quali propositi e con quali appoggi? Questo articolo, sicuramente scritto in buona fede, a me sembra piuttosto un’ ode alla scuola privata, l’unica che potrebbe, volendo, in chiusi ambiti massonico o religiosi, costruire una nuova classe dirigente. In nome di chi poi, resterebbe a lungo un mistero.
Qualunque materia può essere una buona scusa per abilitare gli studenti al gusto dello studio e della ricerca. Aggiungiamoci che manca una facoltà delle scienze esperite (!whaat?) e che sicuramente il sistema delle valutazioni è uno strumento (per chi???) totalmente obsoleto.
Tutto questo sistema “istruttivo” evolverà a seconda delle necessità di sviluppo dell’essere umano, inteso come specie e non come fenomeno/variabile socioeconomica. Allora (forse), la potremmo chiamare ancora istruzione (o educazione, o abilitazione…o giù di li…). Oppure verrà sostituita da una nuova concezione in grado di superare ogni attuale e vaga idea di quali siano le vere necessità dell’essere umano e conseguentemente dell’apprendimento; di una visione sull’essere umano che sia in grado di dare direzione all’intenzionalità e accompagnare quella nuova sensibilità già presente e manifesta nei milioni di modi che l’essere umano ha di integrare e strutturare la realtà.
È questa una sfida da assumere e su cui dovremmo montare per vislumbrare un nuovo futuro e per imparare a surfeare tra le pieghe del destino dell’umanità.
Ecco…questo mi sembra un Tema interessante…
Purtroppo, mentre si afferma che l’istruzione è importante e si attribuiscono alla scuola le responsabilità di formazione sia culturale che sociale dei cittadini, si tende a costruire un sistema in cui i docenti avranno sempre minor autonomia nella didattica e questo al fine di consentire un più facile adattamento della scuola alla società. Ho sempre pensato che la scuola debba soprattutto sviluppare capacità di analisi e abitudine alla riflessione critica attraverso tutte le discipline e quindi formare cittadini capaci di scelte consapevoli, ma ciò contrasta con la cultura del nostro tempo che vive nel presente e si nutre della informazione diffusa attraverso i nuovi mezzi con l’illusione che la cultura sia semplice conoscenza di dati. Ha ragione non si tratta del Latino, ma della cultura diffusa in cui viviamo e della concezione che una buona scuola per i figli debba solo essere divertente e si possa apprendere sempre senza dover affrontare difficoltà e superare ostacoli.
Voglio cogliere solo un aspetto che non è stato nemmeno sfiorato: il limite dell’asticella non è affatto uguale per tutti. Mi sembra un passo indietro fino ad arrivare all’alunno ideale a cui tutti devono conformarsi. L’altezza dell’asticella è variabile perché ci sono alunni che possono saltare 2,20 mt e altri 1,40mt. L’importante che l’alunno riesca ad essere se stesso. E’ questa la vera scommessa: la scuola per tutti e per ciascuno.
Non è l’alunno che deve essere se stesso, ma la persona; e, in quanto persona, può esserlo anche senza un titolo di studio. Il titolo,invece, deve essere legato all’oggettività dei risultati: chi salta 1,40 m non se lo prende e sarà se stesso facendo altre cose. Altrimenti io pretendo di partecipare fuor di metafora alla finale olimpica di salto in alto e di vincerla con 0,90 m, in quanto di più non posso saltare, in quanto il campione che ha saltato 2,20, avendo doti per arrivare a 2,21, ha fatto in proporzione meno di me. Non si capisce perché negli altri ambiti deva continuare (giustamente) a contare l’oggettività, mentre nella scuola devono contare i processi e la soggettività
Giancarlo, sono anni che si ripete questo concetto, astrattamente, forse, giusto (credo solo alla giustizia concreta). Alle elementari esso può trovare ampia applicazione, nelle scuole medie un po’ meno. Ma nelle scuole superiori e ancor di più all’università si tratta di un precetto inapplicabile, dunque di una morale falsa e quindi ipocrita e perciò malefica: si adotta un libro di testo, si utilizza un linguaggio, si sceglie un ritmo di svolgimento del programma, il docente ha un carattere, che è quello che è, il livello di approfondimento è uno ed è scelto dal docente. Ciò che dici può valere al massimo in sede di valutazione, nel senso che si decide di mettere 6 a Tizio e 6 a Caio, che ha reso molto meno, soltanto perché meno dotato (ma si può rimandare o concorrere a bocciare Tizio che ha reso 5, se Caio è andato peggio ma era meno dotato?). Secondo me è un grandissimo errore. La scuola è la vita e la vita boccia. Una scuola che non boccia non educa alla vita: è falsa ipocrita cattiva (perché buonista), perfino perfida e menefreghista. Bocciare non è il fine e nemmeno il mezzo, è semplicemente l’esito di un giudizio. l timore sociale e generalizzato della bocciatura, apparso per la prima volta nella storia negli ultimi decenni, è una malattia antropologica, che ha colpito un po’ tutti. Prima ce ne liberiamo e meglio è. Il giudizio deve essere dato con onestà (non si può scrivere il falso e compiere sistematicamente un falso in atto pubblico, come spesso fanno ormai i docenti: è un reato gravissimo, molto più grave della tanto odiata corruzione).
Ho letto in ritardo la risposta, ma non rinuncio a rilanciare la discussione. Non ho detto che non si deve bocciare. L’importante è che si bocci anche il docente che non è capace di insegnare. Insegnamento e apprendimento sono strettamente legati come è ampiamente dimostrato. La performance dell’alunno dipende da una serie di fattori ambientali, relazionali, caratteriali e altro. Come si può ridurre tale complessità ad una semplificazione: promosso e bocciato con un voto. La valutazione deve tenere conto di tutti e di tutto ciò che concorre all’educazione della persona. E io sarò contento quando oltre bocciare gli alunni si comincerà a bocciare anche i professori supponenti ed incapaci evitando, qui sì, di fare i buonisti perché tengono famiglia. Per me questa è la giustizia concreta che genera deresponsabilizzazione e corruzione.
Riscrivo il finale. Per me tenere in un posto così delicato degli incapaci è già deresponsabilizzazione e corruzione.
Giancarlo, i professori possono al massimo essere licenziati, come tutti gli altri dipendenti pubblici. L’accertamento della capacità di svolgere il mestiere avviene o dovrebbe avvenire al momento del concorso, con lo svolgimento della lezione. Meglio non si può fare. L’accertamente delle conoscenze ugualmente avviene in quel momento.
Per il resto, è pieno di avvocati che difendono male anche cause importanti o di commercialisti distratti o poco intelligenti o di medici mediocri e non appassionati al lavoro che svolgono o di funzionari pubblici e dipendenti privati lavativi o che lavorano senza alcun interesse.
Il problema della qualità dei docenti si risolve soltanto riconoscendo ad essi autonomia ed immettendoli in ruolo soltanto dopo la vittoria di un concorso, da svolgere al massimo ogni 3 anni (prevedendo che dopo la terza bocciatura il candidato non può ripresentare domanda), nonché liberandoli dalle pastoie burocratiche e dai “progetti” nei quali sono stati immersi.
La valutazione permanente è un concetto ridicolo, che cerca di rimediare ad errori fatti nella immissione in ruolo.
Siamo realisti: una volta immessi in ruolo docenti poco capaci o disinteressati, non li si caccerà mai salvo qualche caso estremo. Ma ciò vale anche per dirigenti e funzionari comunali dell’ufficio dell’urbanistica, per giudici superficiali o disonesti, per medici che siano poco competenti o poco laboriosi.
E poi la bocciatura (degli studenti) è soltanto l’esito del giudizio, come ho scritto. La mia esperienza è nel senso che più il docente pretende (più impegno e più sforzo) e più i giovani danno.
Mi sembra ovvio che un giovane che è lasciato dai genitori 5 oe al giorno davanti alla tv avrà difficoltà a concentrarsi e a stare seduto a casa a “lavorare”, ossia a studiare, rispetto ad un giovane al quale non è stato consentito drogarsi tutti i giorni e sedare quotidianamente la volontà (questo significa 5 ore di tv). In questi casi la scuola deve fare quel che può ma se il giovane, come è molto probabile, non riesce ad impegnarsi e a concentrarsi, deve essere bocciato. Stai certo, che quando crescerà, e magari, pur essendo figlio di medico, farà l’idraulico, non farà vedere a suo figlio 5 ore di tv al giorno.
Mi piacerebbe poterci confrontare de visu perché con questo strumento il confronto è soffocato. Poi è bene che esista, ma per certe discussioni è decisamente inadeguato. Buona giornata.
il problema è che la scuola attuale punta a formare teste piene e non teste ben fatte. Ora, il sapere sei è ampliato rispetto al secolo scorso non si può certo pensare di riempire uno studente di tutto, non gli si può chiedere di tradurre il greco e il latino e nello stesso tempo di conoscere benissimo le tecnologie, il marketing, l’economia , la politica il diritto e la sociologia , vorrebbe dire che uno studente per essere promosso deve rinunciare a tutte quelle esperienze di vita che sono anch’esse formative e necessarie (stare con gli amici, andare al cinema, viaggiare ecc) per stare esclusivamente sui libri . sono d’accordo che una formazione di base solida preveda le origini del pensiero della nostra società e cultura ma allora che si pretenda meno sul resto …che i ragazzi il resto se lo imparano da se se hanno una bella testa abituata a pensare e a non fermarsi alla superficie e si scelgno le cose in base ai loro interessi
Perché una testa piena dovrebbe essere fatta male? Perché una testa ben fatta dovrebbe essere vuota? Un’alternativa che semplicemente non esiste. Anche la faccenda del sapere che si è ampliato rispetto al secolo scorso è inesatta: il sapere è DA SEMPRE troppo ampio per il singolo, DA SEMPRE il singolo deve conoscere perfettamente i principi del linguaggio e della matematica, le conoscenze principali delle scienze e poi specializzarsi in una o qualche scienza particolare. Il problema a cui si riferisce l’articolo è che gli studenti hanno la testa vuota E fatta male perché non hanno competenza GRAMMATICALE né MATEMATICA. Questo perché si parla di competenze ignorando che cosa siano.
che poi vorrei vedere il signore che ha scritto quanto tempo stava sui libri quando era ragazzo…
In questi ultimi anni si è affermata l’idea che l’apprendimento debba essere “divertente”, debba essere cioè considerato alla stregua di un gioco. Da questa concezione sono derivati i libri di storia senza date, il Liceo Scientifico senza latino, i test a crocette e tante altre diavolerie che hanno contribuito a creare una generazione, o forse già due, di ignoranti dediti ai tatuaggi e allo smanettamento continuo degli smart phone.
Per quanto riguarda lo studio del latino, e del greco antico, non li ritengo particolarmente utili in quanto tali. Sono convinto però che l’impegno richiesto ad un adolescente nell’apprendimento di queste due lingue, così difficili e totalmente diverse dall’italiano nella sintassi e nella logica , sia altamente formativo. Lo studio delle lingue classiche nell’adolescenza è una palestra dalla quale si esce pronti ad affrontare qualunque difficoltà, anche in campo tecnico-scientifico. L’idea di abolire il latino senza sostituirlo con qualcosa di altrettanto difficile risponde unicamente all’esigenza di abbassare ulteriormente l’asticella.
La logica del greco e del latino non è lontana da quella dell’italiano; anzi la grammatica latina e quella greca sono la base della grammatica delle lingue moderne. Occorre sempre ricordare che latino e greco non sono lingue MORTE, ma lingue DOTTE, le cui strutture sono alla base di tutto ciò che ha valore culturale e scientifico. Il lessico scientifico viene tutto dal greco; la sintassi scientifica viene tutta dal latino. Studiarli significa acquisire gli strumenti alla base di OGNI elaborazione teorica.
“Non firmo mai gli appelli”
Bravo quindi sei uno di quelli che si lamenta di tutto senza fare niente, suppongo.
Il problema è l’asticella: certo. Ma bisognerebbe alzare il livello scolastico, non abbassarlo, per farlo bisognerebbe aumentare i fondi alla scuola e all’università, come tutte le persone di buon senso ripetono da anni. Se negli ultimi anni gli studenti sono scesi in piazza insieme ai loro professori lo dobbiamo a gente che ha abbassato l’asticella sempre più, perchè è più facile manipolare l’elettore ignorante.
Anche se è vero che i finanziamenti alla scuola sono in continua discesa, che le strutture sono pericolanti, che gli stipendi sono bassi, tutto questo NON ha a che fare con la decadenza della scuola. La causa ultima è legata alla sovranità: gli Italiani credono di non doversi difendere da Stati ostili, dunque di non aver bisogno di armi, neanche della prima arma, cioè dell’intelligenza. Poiché crediamo di avere amici ovunque, in Germania, negli Stati Uniti, in Francia, allora possiamo lasciare i nostri figli ad abbruttirsi nel gioco e nell’indisciplina.
Arridateci la scuola della riforma Gentile che creava dei veri professionisti e che non necessitava del numero chiuso per l’accesso all’università!
Studiare ancora Latino e Greco puo’ essere utile solo a chi scegliera’ all’Universita’ di Laurearsi in Letter antiche o chi scegliera’ facolta’ umanistiche. Chi frequenta il Liceo Scientifico generalmente pensa di iscriversi successivamente a facolta’ ad indirizzo tecnologico. Studiare Latino e Greco perche’ si trovera’ avvantaggiato alla facolta’ di Medicina e Chirurgia e’ una gran bufala! non riesco a comprendere come non sia altrettanto formativo studiare una lingua straniera ad esempio: Inglese, Francese o Tedesco. Ma non come si e’ fatto sino ad ora dove spesso l’insegnante non e’ preparato. Metterete ad esempio dei lettorati e dare alla fine del liceo una preparazione per superare ad esempio l’easame IELTS con 7.5-8. Perche’ invece del Latino non dare una preparazione di Matematici Fisica e Chimica piu’ approfondite? Tenete presente che in USA e UK per entrare a Medici e Chirurgia non e’ assolutamente richiesta la base di latino e Greco (rendo noto che il maggior numero di premi Nobel sono USA e UK assolutamente no l’Italia)
quello che lei dice su latino e greco è assolutamente privo di fondamento. Statisticamente (controlli al Poli di milano) chi ha fatto il classico ha una forma mentis più adatta all’università scientifica (soprattutto ingegneria e fisica), e spesso e volentieri eccelle, superati i primi scogli. Dati oggettivi, non teorie. Le 4 fregnacce imparate al liceo in materia scientifica invece non fanno differenza per chi volesse frequentare medicina o biologia. Sia chiaro, io ho fatto lo scientifico. Veloce excursus: al progetto Manhattan, per farle un esempio di discreta importanza, una bella fetta dei responsabili erano europei e diversi erano italiani. Fermi, uno dei responsabili di tale progetto, fece il classico. Oggi probabilmente non ce ne sarebbe uno. Si è chiesto il perché? Secondo: lei accetterebbe il sistema americano di sanità? Ne è proprio sicuro? Ma proprio sicuro? Io concordo con quanto dice l’autore dell’articolo… un cervello pronto e allenato a superare ostacoli, è di gran lunga più efficiente nel probem solving e nel management di un ottuso specialista come si prepara negli states. Che poi hanno punte di grande eccellenza, ma di contro vi sono medici che hanno iperspecializzazioni (con grosse lacune alle spalle), fuori dal loro campo brancolano nel buio, e nel loro campo comunque hanno spesso problemi. Le posso portare esempio del mio amico rimasto storpio negli states perché l’operazione (ortopedica) è andata bene, peccato che abbiano fatto macelli col ripristino vascolare e abbia rischiato l’amputazione della gamba. Parliamo di luminari e di operazione pagata 300.000 dollari, non di assistenza o volontariato.
Riassumendo: chi vuole fare l’università, ci deve arrivare pronto a fare l’università, non già farcito di nozioni utili al fine di faticare meno agli esami o ai test, siano esse di chimica, fisica o vattelapesca. Le nozioni le apprenderà poi nei singoli esami. Ma deve avere un cervello in grado di recepire ed elaborare tali nozioni. Che non si risolve con il togliere il latino alle superiori in favore della fisica. La fisica al liceo, si potrebbe anche non farla… Quello che si fa in 3 anni, lo si riduce a un quarto dell’esame di fisica1…
Luigi Pancione concepisce il Latino e il Greco come lingue morte non come lingue dotte. Forse gli sfugge che noi non sappiamo come si parlasse nelle taverne e nei bordelli di Atene e di Roma, sappiamo come parlavano gli oratori, i filosofi e gli scienziati: questo linguaggio è l’oggetto del nostro studio. Studiare Greco e Latino è dunque diverso dallo studiare una lingua moderna: là il fine è l’acquisizione delle strutture logiche più complesse, qui il fine è la comunicazione immediata. Occorre fare ENTRAMBE le cose.
Ritengo utilissimo il latino ef il greco perché,oltre ad insegnare a ragionare, insegna a scrivere in modo corretto dal punto di vista sintattico. Ormai,nessuno,o quasi,sa più scrivere bene. A mio avviso, bisognerebbe reinserire il latino, o elementi di latino,gia’ dalla scuola media.
Questo è discutibile. Ma è sicuro che nella scuola dell’obbligo NON SI FA GRAMMATICA. Perciò nessuno sa più scrivere (non dico bene).
la scuola italiana era la migliore al mondo perchè, attraverso le varie materie, insegnava a riflettere e dava gli strumenti per la formazione di un senso critico. Ora, nella scuola, ci sono le cosiddette competenze: cosa si sa fare. E’ questo che la società moderna vuole: saper fare ma non saper ragionare
Il concetto di competenza è importante, la scuola deve arrivare al saper fare; il problema è che si crede che l’alunno la possa raggiungere senza lavorare, come se i calciatori imparassero a giocare guardando le partite di calcio in TV.
“Quel che leggo è terribile “. Un articolo, in internet, pubblicato sul Sole 24 ore di un certo Luca Ricolfi, sociologo nonché docente universitario di matematica e analisi dei dati. Riporto la parte più interessante:” Quel che vedo è terribile. Ci sono studenti, tantissimi studenti, che non hanno alcun particolare handicap fisico o sociale eppure sono irrimediabilmente non all’altezza dei compiti cognitivi che lo studio universitario ancora richiede in certe materie e in certe aree del Paese. Essi credono di avere delle “lacune”, e quindi di poterle colmare ( come si recupera un’informazione mancante cercandola su internet), ma in realtà si sbagliano. Per essi non c’è più (quasi) nulla da fare, perché difettano delle capacità di base, che si acquisiscono lentamente e gradualmente nel tempo: capacità di astrazione e concentrazione, padronanza della lingua e del suo lessico, finezza e sensibilità alle distinzioni, capacità di prendere appunti e organizzare la conoscenza, attitudine a non dimenticare quel che si è appreso. La scuola di oggi, con la sua corsa ad abbassare l’asticella, queste capacità le fornisce sempre più raramente. E, quel che è più grave, questa rinuncia a regalare ai giovani una vera formazione di base non avviene certo in nome di un’istruzione “utile”, ovvero all’insegna di uno sviluppo delle capacità professionali, ad esempio sul modello tedesco dell’alternanza scuola-lavoro. Il giornalista ( non so chi sia) che ha pubblicato questo articolo afferma di condividere “parola per parola” e aggiunge “non avrei potuto scrivere meglio ciò che penso” e prosegue ” il primo problema della scuola italiana e dell’Università ma direi anche della famiglia non sono i programmi o i metodi di insegnamento o il livello dei docenti, bensì il livello dell’asticella che da 40 anni è sempre più basso. Il continuo abbassamento dell’asticella è parte essenziale di un progetto politico disumano, capitalistico, antipopolare, antisocialista, volto a generare clienti, consumatori, lavoratori part-time, schiavi, debosciati, invertebrati. Codesto articolo ha ricevuto tantissimi consensi da appartenenti e non al settore scolastico!!!!! La prima cosa che farei, se potessi, sarebbe prendere l’asticella di cui sopra e bacchettare il sociologo/professore, il giornalista e infine la schiera di proseliti dell’eminente docente universitario così da rimanere in ambito scolastico, dato che la scuola è stata, in passato, anche questo, sebbene, oggi, le bacchettate costituiscano un’inezia rispetto agli abusi perpetrati a carico degli alunni da certa parte del corpo docente che non ha nulla da docere né da discere.
Mi soffermerò, per iniziare, sugli errori terminologici che rimandano innegabilmente ad un uso improprio e a lacune culturali evidenti ma che possono essere in ogni momento della vita colmate se si ragiona in un’ottica di LIFELONG LEARNING (….essi credono di avere delle “lacune”, e quindi di poterle colmare come si recupera un’informazione mancante cercandola su internet, ma in realtà si sbagliano). Andiamo avanti: “…Ci sono studenti, tantissimi studenti, che non hanno alcun particolare handicap fisico o sociale eppure sono irrimediabilmente non all’altezza dei compiti cognitivi …..”
Chiariamoci sui termini!!! L’handicap fisico o sociale? L’handicap è la situazione di svantaggio, la conseguenza sociale della minorazione o menomazione cioè del deficit fisiologico o psicologico e la disabilità è la ridotta capacità a svolgere una determinata attività. Or dunque i termini più appropriati per esprimere ciò che si voleva dichiarare saranno sicuramente gli ultimi due ma non certo il primo.
Proseguiamo. “…..eppure sono irrimediabilmente non all’altezza dei compiti cognitivi che lo studio universitario ancora richiede in certe materie e in certe aree del Paese”. Le materie sono frammenti di disciplina e i compiti cognitivi afferiscono tutte le discipline, tutti i contenuti culturali, tutti i saperi e non solo certe DISCIPLINE. Rileggo più volte perché proprio non riesco a convincermene:” NON SONO ALL’ALTEZZA “? Credo che sia un problema di asticella. Sì! Proprio così: il fatto è che non si riesce proprio ad adattare l’asticella della complessità ( e non del sapere) per condurre i ragazzi alla risoluzione del compito cognitivo assegnatogli. Anzi non solo non si adatta all’età e all’esperienza di chi si ha di fronte ma neppure la si personalizza: Piaget parlava di “unicum” e “continuum”, Bruner di mente a più dimensioni, Gardner di intelligenze prevalenti, Vigotsky di ZSP e questi concetti sono validi per ogni età. Proprio sulla scorta dell’ “unicum” e del “continuum ” di Piaget ogni persona è unica, irripetibile nella sua originalità, costantemente in fieri, rapportandosi in modo diverso alla realtà che non è uniforme, non è omogenea, non è quindi oggettivabile poiché essa ha sempre bisogno di un quadro di riferimento teorico che le dà senso e da cui non si separa mai. Pertanto tutto può essere insegnato purché in modo diverso, differenziando l’approccio non i traguardi a meno che non è necessario individualizzare l’insegnamento. E non esistono ingessature né rigidi paletti temporali per stimolare la conoscenza; la difficoltà, infatti, non è il latino, non il “COSA” quanto piuttosto il “COME” che non dipende certo dagli studenti. “…… Il continuo abbassamento dell’asticella è parte essenziale di un progetto politico disumano, capitalistico, antipopolare, antisocialista, volto a generare clienti, consumatori, lavoratori part-time, schiavi, debosciati, invertebrati”. Questa sarebbe la scuola antipopolare volta a generare schiavi, sempliciotti, debosciati e invertebrati ….la scuola dell’ INCLUSIONE!
“…..Per essi non c’è più (quasi) nulla da fare, perché difettano delle capacità di base, che si acquisiscono lentamente e gradualmente nel tempo: capacità di astrazione e concentrazione, padronanza della lingua e del suo lessico, finezza e sensibilità alle distinzioni, capacità di prendere appunti e organizzare la conoscenza, attitudine a non dimenticare quel che si è appreso”.
Il quasi infonde speranza ma in cosa si concretizza? DIFETTANO da deficere mancare di qualcosa…. delle capacità? Eppure tutti hanno un cervello, una mente che ha la capacità fisica di ragionare, in natura esistono per tutti le capacità. A nessuno manca nulla. Forse sarebbe più appropriato dire che non tutti hanno sviluppato le capacità attraverso le conoscenze? Ed ancora: quale occasione migliore per insegnare ad astrarre rendendo la lezione del professore più dinamica”? Il concetto di direzione credo sia un concetto astratto presente nelle scienze matematiche. Immagino che i ragazzi universitari, per quanto difettosi siano, conoscano i binari di un treno: due oggetti che hanno in comune proprio la direzione. E ora, però, non polemizziamo su ciò che è o non è di competenza, perché ciò che veramente conta è formare ed educare senza costrizioni spaziali e temporali. La concentrazione come anche la memoria per non parlare dell’ ABILITÀ di prendere appunti si acquisiscono, rientrando nell’apprendimento meccanico di stampo comportamentista che pure è contemplato nell’attuale scuola benché in misura limitata. Tale apprendimento si basa essenzialmente sulla ripetizione, sull’esercizio, sull’abitudine. Come si vede nulla è andato perduto! Anche la padronanza della lingua e l’espansione del lessico come pure la sensibilità alle distinzioni possono essere conquistate, avendo tutti le capacità, sebbene con risultati diversi. “…..La scuola di oggi, con la sua corsa ad abbassare l’asticella, queste capacità le fornisce sempre più raramente”. La scuola non fornisce capacità ma conoscenze e abilità e il punto non è di abbassare o alzare l’asticella ma di saper insegnare.
“…..E, quel che è più grave, questa rinuncia a regalare ai giovani una vera formazione di base non avviene certo in nome di un’istruzione “utile”, ovvero all’insegna di uno sviluppo delle capacità professionali, ad esempio sul modello tedesco dell’alternanza scuola-lavoro”. E quel che è più grave è quel “REGALARE” ai giovani una vera formazione di base: mi preme ricordare che esiste il diritto-dovere all’istruzione e formazione e che l’obbligo scolastico è fino alla seconda classe della secondaria di II grado e che l’alternanza scuola-lavoro è stata introdotta in Italia nel 2003 con la Riforma Moratti!!!
Ora al giornalista: non esistono più i programmi e chi parla o scrive ancora di programmi vuol dire che ne sa poco o nulla della scuola ma molto dell’asticella e dei suoi andamenti. Esistono le Indicazioni Nazionali, i Pecup, esiste tutta una normativa scolastica, esiste il richiamo europeo, esistono impalcature filosofiche, pedagogiche, psicologiche, storiche, sociali, economiche alla base della Buona Scuola. Riuscire a sintetizzarle non è semplice né voglio farlo, in quanto significherebbe mortificare l’impegno, la passione, lo studio di tanti pensatori che hanno speso la propria vita per porre gli studenti nelle condizioni di poter vivere al meglio la loro esistenza. Cominciate a documentarvi: Piaget,Bruner, Vigotsky, Pavlov, Skinner, Psicologia della forma,Bachelard, Maritain, Morin, Cooperative Learning,Circle Time,Problem Solving, valutazione formativa, valutazione proattiva, compiti autentici, metacognizione, progettazione curricolare, Ptof, PNSD, orientamento, autonomia, interdisciplinarità,inclusione, Libro Delors, Libro bianco di Cresson, Popper SOLO PER CITARE QUALCOSA. Quello che è veramente grave è la non conoscenza da parte di chi fa scuola e quindi la mancata applicazione di questo preziosissimo patrimonio, che giace negletto e che , per quanto se ne dica, non intende rimpiazzare i contenuti culturali, anche perché non potrebbe. I saperi, QUELLI DI SEMPRE, sono semplicemente adattati a ciascun bambino o ragazzo che sia e offerti loro attraverso i mezzi più congeniali, strategie, metodi, materiali, progettando spazi, tempi, monitorando ogni fase, ogni momento del loro percorso, rispettando ognuno di loro, ogni tipo d’intelligenza, ogni stile di apprendimento, ogni ritmo, ogni loro fase evolutiva, guardandoli dentro, nel profondo dove non è sempre facile arrivare, rendendoli autonomi, motivandoli, rendendo la scuola attraente ai loro occhi, facendogli scoprire gli errori commessi ma anche la possibilità di recuperare, di migliorare, ponendoli di fronte a situazioni impreviste, complesse la cui risoluzione richiede la mobilitazione di tutte le loro risorse ed energie tanto da generare un apprendimento significativo ossia che conferisce un senso all’esperienza appena realizzata e che sarà spendibile poi in altri contesti durante la costruzione del loro progetto di vita. E tutto questo si può fare mediante le figure piane, i verbi, l’analisi logica, gli Egizi, i Promessi Sposi, Seneca per chi vuole farlo o vuole imparare a farlo. Quindi a tutti i docenti che sono rintanati nei loro ” luoghi sacri” :”rispolveratevi, scrollatevi della vostra autoreferenzialità e “regalate” ai giovani gli strumenti, le tecniche per consentire loro di comprendere e scoprire che, ad esempio, il latino è la matrice culturale della lingua che parliamo tutti i giorni, che tanti modi di dire derivano da esso, che tante parole traggono origine da esso. Apritevi alle sfide del presente, accompagnate i ragazzi nel mondo del digitale, sforzatevi di connettere cultura classica e innovazione tecnologica, non rifuggite dinnanzi ai sofisticati software che di sicuro non sostituiscono l’insegnante dal momento che nessuna macchina può realizzare il rapporto umano che s’instaura tra docente e discente”. È superfluo dire che tutto ciò comporta un lavoro immane e faticoso e richiede una formazione e aggiornamento continui nonché la disposizione a lavorare insieme con gli altri, colleghi e studenti, mettendo in discussione se stessi e la propria azione didattica allorquando questa apparirà non funzionale al conseguimento degli obiettivi attesi. Non è superfluo dire che la reticenza verso tutto ciò nasce anche dal timore di non essere all’altezza del compito da parte di chi, come la maggioranza dei docenti, non è un nativo digitale ma solo un immigrato : questo ostacolo può essere superato grazie al fatto che il misurarsi ogni volta con le proprie capacità implica la possibilità di scoprire il gusto derivante dall’apprendere e l’emozione legata alla riuscita, quello che del resto va insegnato agli stessi alunni. Purtroppo, però, oggi, nonostante i cambiamenti radicali della società, è difficile scalfire questo modo di pensare, perché si tende sempre a rimanere ancorati a pratiche tradizionali di lavoro, metodi e gerarchie consolidate: esse danno sicurezza, mettono al riparo dal rischio di essere detronizzati, defraudati di chissà quale autorità o potere. Il rischio autentico per se stessi ma soprattutto per i giovani è quello di rimanere tagliati fuori dalla realtà: gli educatori non possono chiudersi in una torre d’avorio e compiacersi di possedere un sapere, il loro, dispensatore di verità ultime e assolute…. Come diceva Nitzsche: “Dio è morto ” ed è quindi un atto dovuto porre i giovani nelle condizioni di saper far fronte alla complessità, all’ incertezza, all’ imprevedibiltà e allo stesso tempo saper scegliere autonomamente, responsabilmente e consapevolmente in un confronto aperto, solidale, partecipativo, collaborativo. Qualcuno diceva che bisogna prenderli per mano dal punto in cui si trovano ( ed io aggiungerei qualsiasi sia il punto in cui si trovano) e condurli verso nuove prospettive, insegnando loro a leggere questo mondo che si trovano a vivere e che non hanno scelto, mostrando loro i legami profondi , i nessi logici, le interconnessioni esistenti tra pensieri, azioni e tra pensieri e azioni, pervenendo ad una sintesi come risoluzione della complessità e quindi ad una visione d’ insieme, arrivando a capire che le discipline sono solo strumenti che non racchiudono certezze, verità definitive ma consentono tutte insieme e ciascuna con la sua specificità di costruire continuamente quello che occorre fino a giungere alla consapevolezza di poter travalicare i confini stabili delle discipline oltre i quali si padroneggia, nell’immensa diversità, l’unitarietà del sapere umano.
Evidente che Valeria vuole prendere i suoi lettori per sfinimento. Quello che scrive è del tutto incoerente e fuori dalla realtà. Siccome tra gli altri difetti (‘Nietzsche’, però, non ‘Nitzsche’) il suo commento pecca anche di prolissità, e in questo non la posso seguire, copio una frase qualunque per mostrare l’inconsistenza di tutta la tirata: “Proprio sulla scorta dell’ “unicum” e del “continuum ” di Piaget ogni persona è unica, irripetibile nella sua originalità, costantemente in fieri, rapportandosi in modo diverso alla realtà che non è uniforme, non è omogenea, non è quindi oggettivabile poiché essa ha sempre bisogno di un quadro di riferimento teorico che le dà senso e da cui non si separa mai. Pertanto tutto può essere insegnato purché in modo diverso, differenziando l’approccio non i traguardi a meno che non è necessario individualizzare l’insegnamento”.
Si tratta di parole in libertà: unicità e originalità sono trattate come sinonimi, ma non sono la stessa cosa; ‘unico’ è anche questo sasso, questa capello, questo delitto (‘principio degli indiscernibili’), ‘originale’ è molto di più, indica ciò che è prodotto da uno sforzo creativo; mentre l’unicità non è un valore né etico né pedagogico, l’originalità lo è – ma Valeria non se ne rende conto, così umilia l’originalità ed esaltà l’unicità.
‘Costantemente in fieri’ è il carattere dell’esperienza sensibile, NON della realtà: la realtà, oltre ad essere in fieri, ha una forma costante, l’insieme delle leggi che le scienze conoscono. Valeria non fa questa distinzione, così sulla realtà esce proprio fuori dalla grazia di Dio: non è oggettivabile – dice – poi però aggiunge che ha bisogno di un quadro di riferimento; se però non fosse oggettivabile, allora non accetterebbe mai di entrare in un quadro di riferimento teorico, non accetterebbe nessun senso. Il ‘panta rhei’ di Cratilo, che era capace di coerenza, finisce nello scetticismo; se invece crede in un senso, allora nega se stesso, riconosce che lo scorrere avviene secondo leggi universali e necessarie, che dunque nella sua varietà è uniforme, omogeneo, oggettivato.
Trovo il ‘pertanto’ l’espressione più pittoresca: di per sé indica una conseguenza, ma qui introduce in realtà un diverso discorso.
‘Pertanto tutto può essere insegnato’. Innanzitutto non tutto può essere insegnato: solo ciò che è universale può e deve essere insegnato. Ma il punto più grave è che Valeria non ben capito né che c’è differenza tra insegnamento ed apprendimento né che il fine della didattica non è l’insegnamento, ma l’apprendimento. Che tutto (l’universale) possa essere insegnato è dunque vero, anzi una tautologia, ma questo non vuol dire, come crede Valeria, che tutto quello che è insegnato possa essere appreso da tutti. NESSUNO IMPARA PER GLI ALTRI – se lo ficchi bene in testa, Valeria: per apprendere non basta l’insegnamento, occorre LO SFORZO PERSONALE, l’esercitarsi PAZIENTE e SOLITARIO di chi vuole imparare. Qui rientra con forza l’unicità della persona che Valeria, in modo ingenuo, ha concepito gioiosamente come un sinonimo di creatività: possiamo metterla su un piano di tempo e dire che Schubert a 17 anni componeva Lieder che miliardi e miliardi di individui altrettanto unici non potrebbero comporre neanche dopo 170 anni di ‘approccio differenziato’. Le differenze per cui le unicità sono uniche, cara Valeria, non sono sempre virtù, anzi in genere sono debolezze, a volte addirittura impossibilità.
C’è poi un dato oggettivo e indiscutibile: il docente adotta UN libro di testo; svolge UNA lezione al giorno, adotta UN linguaggio, approfondisce ALCUNI argomenti, scendendo fino a DETERMINATI livelli (sebbene la scelta sia discrezionale) ed imprime al corso UN ritmo. L’idea che un docente svolga tante lezioni quanti sono gli studenti (se si preferisce, tenga conto della loro “unicità”) è talmente sganciata dalla realtà da dover essere definita senz’altro come un’idea scema. La si può applicare alle scuole elementari e forse un po’ alle medie. Ma il docente sa, se non è ipocrita, che ciò che sta dando ad alcuni sta togliendo ad altri.
Valeria costituisce l’esempio mastodontico delle persone che per decenni pronunciano parole in libertà, degli effetti deleteri di principi pedagogici ripetuti pappagallescamente, delle teorie ineffettuali, che sempre muovono da una pretesa bontà d’animo e da un’astratta uguaglianza e sempre si risolvono in declamazioni presuntuose, irrealizzabili, i cui effetti, sebbene non voluti, sono sempre il classismo, la formazione di caratteri deboli negli alunni e l’apporto alla generale creazione del tipo di uomo moderno che prende il nome di consumatore.
Aggiungerei tra gli effetti l’ignoranza degli studenti – un’ignoranza per colpevole rinuncia dei docenti fuorviati dalla pedagogia-spazzatura a farli lavorare su contenuti universali – da cui siamo partiti.
Signor D’Andrea mi perdoni se le rispondo solo ora ma vengo qui esclusivamente quando ho un po’ di tempo da buttar via. Il suo stile non è poi tanto lontano da quello dei suoi compagni di rete: pare che le uniche modalità di argomentazione da voi conosciute siano quelle improntate all’offesa e allo stravolgimento di quanto viene detto. Mi chiedo davvero con grande scoramento cosa e quanto dovranno patire quei poveri e malcapitati alunni allorquando si trovano difronte persone vanagloriose prive del benché minimo interesse ad andare oltre la diversità d’opinione e disposte a mettersi in discussione e a confrontarsi serenamente senza dover ricorrere al proprio sapere nozionistico per difendere se stessi e la propria ignoranza. Potrei risponderle con frasi del tipo:” lei rappresenta l’esempio eclatante di quanto microscopico possa essere il cervello dell’uomo e ancora:” lei non sa quel che dice e inoltre non è l’unica cosa che non sa”. Mi accorgo che ignora anche la lezione del Paroliberismo = vibrazione dell’io ma sa essere un ottimo patteggiatore se, quando parla, riesce così facilmente a scendere a compromessi con la sua dignità. Le menziono qualche parola in libertà, giusto per restare in tema con quanto da lei scritto: interdisciplinarità, personalizzazione e….basta così penso sia già tanto per lei. Spero sappia cogliere le vibrazioni sottese, lo spero per i ragazzi. Le auguro buona fortuna
“Siccome tra gli altri difetti (‘Nietzsche’, però, non ‘Nitzsche’)” seguito dal suo “Ma il punto più grave è che Valeria non ben capito” penso che il mio sia un errore di battitura per aver mancato la e mentre la mancanza di un verbo non saprei……in ogni caso non voglio essere trascinata in questi puerili e sterili dispettucci da asilo nido (ho messo a confronto i due errori non perché volessi pareggiare i conti ma per farle capire che l’errore derivante dalla distrazione, dalla fretta, dall’ignoranza esiste per tutti ed evidenziare il mio senza fare i conti con il fatto che anche lei appartiene a questo mondo mortale per cui può errare non la rende ai miei occhi un interlocutore affascinante nonostante il ‘panta rhei’ di Cratilo e Lieder di Schubert . Per non essere prolissa intendo illuminarla soltanto su un aspetto: la competenza. Quest’ultima è proprio la somma di conoscenze, abilità e sforzo personale, la mobilitazione di tutte le risorse e le energie di cui un individuo dispone. Potrei obiettare su ogni punto ma proprio mi annoia dialogare con chi adopera frasi del tipo “se lo ficchi bene in testa, Valeria”. Spero davvero che lei non faccia parte di nessun corpo docente se questo è il suo modo di rapportarsi agli altri anzi le dirò di più : TRA I TANTI TESTI CHE LEGGE PROVI A LEGGERE IL RAPPORTO DELORS 1996. Tra i 4 pilastri dell’educazione del XXI sec. l’ultimo è quello relativo all’imparare a vivere insieme anche se per farlo occorre prima imparare ad essere……. lascio a lei la conclusione. Le auguro una buona serata.
“Siccome tra gli altri difetti (‘Nietzsche’, però, non ‘Nitzsche’)” seguito dal suo “Ma il punto più grave è che Valeria non ben capito” penso che il mio sia un errore di battitura per aver mancato la e mentre la mancanza di un verbo non saprei……in ogni caso non voglio essere trascinata in questi puerili e sterili dispettucci da asilo nido (ho messo a confronto i due errori non perché volessi pareggiare i conti ma per farle capire che l’errore derivante dalla distrazione, dalla fretta, dall’ignoranza esiste per tutti ed evidenziare il mio senza fare i conti con il fatto che anche lei appartiene a questo mondo mortale per cui può errare non la rende ai miei occhi un interlocutore affascinante nonostante il ‘panta rhei’ di Cratilo e Lieder di Schubert . Per non essere prolissa intendo illuminarla soltanto su un aspetto: la competenza. Quest’ultima è proprio la somma di conoscenze, abilità e sforzo personale, la mobilitazione di tutte le risorse e le energie di cui un individuo dispone. Potrei obiettare su ogni punto ma proprio mi annoia dialogare con chi adopera frasi del tipo “se lo ficchi bene in testa, Valeria”. Spero davvero che lei non faccia parte di nessun corpo docente se questo è il suo modo di rapportarsi agli altri anzi le dirò di più : TRA I TANTI TESTI CHE LEGGE PROVI A LEGGERE IL RAPPORTO DELORS 1996. Tra i 4 pilastri dell’educazione del XXI sec. l’ultimo è quello relativo all’imparare a vivere insieme anche se per farlo occorre prima imparare ad essere……. lascio a lei la conclusione. Le auguro una buona serata.
Gentile Valeria, impari lei due cose essenziali prima di venire a farci la lezioncina di pedagogia, peraltro alquanto confusa e infarcita di allucinanti luoghi comuni. La prima è una doverosa ‘brevitas’, segno di umiltà e di rispetto nei confronti di chi la legge; la seconda è il dire con cognizione di causa. Lei infatti, come ogni “riformatore” che si rispetti (di solito completamente estraneo alla realtà dell’insegnamento), si scaglia contro un’immagine di comodo, falsa, propagandistica della scuola italiana. Guardi che gli insegnanti sanno benissimo che “Dio è morto” e che l’autorità è diventata un miraggio: lo sperimentano quotidianamente sulla loro pelle. Basta un rimprovero o un’insufficenza ritenuti ingiusti per scatenare l’ira funesta dei genitori (per una bocciatura, poi, esiste il rischio concreto di finire in tribunale!). Ma a parte questo: ciò che è ancora più grave e devastante è l’altra conseguenza della morte di Dio: la fragilità, l’estrema vulnerabilità di adolescenti alla deriva, che chiedono punti di riferimento forti, modelli vivi ed “eroici” in grado di dialogare per orientarli nel caos e non li trovano più da nessuna parte.
Poco gentile signor Giampiero Marano sono sempre lieta di apprendere da chi ha qualcosa da insegnare e non certo da chi dapprima dice:”prima di venire a farci la lezioncina di pedagogia, peraltro alquanto confusa e infarcita di allucinanti luoghi comuni” e poi scrive e parla di umiltà. Luoghi comuni? Davvero sorrido per non piangere senza parlare di chi ancora scrive e pensa in termini di autorità e non di autorevolezza. E poi mi chiedo:” come è possibile che la fragilità, l’estrema vulnerabilità di adolescenti alla deriva, che chiedono punti di riferimento forti, modelli vivi ed “eroici” in grado di dialogare per orientarli nel caos e non li trovano più da nessuna parte?
Ma siamo proprio sicuri che con pezzi da 90 come Lei , i signori Paolo Di Remigio e Stefano D’Andrea nessuno proprio nessun adolescente ha dei grandi esempi da emulare? Sarà perché al di là del sapere nozionistico, della cultura fine a se stessa gli adolescenti hanno compreso di utilizzare le conoscenze, il sapere per essere tutto fuorché un Marano, un D’Andrea, un Di Remigio e volendo chiudere il quadro un Ricolfi?
Certo che citare ancora Delors, il protagonista della svolta neoliberale con cui i socialisti francesi hanno tradito il ‘Projet socialiste’ e abbindolato i loro elettori, l’autore della costruzione folle e disfunzionale di un’Unione Europea ormai prossima al crollo, non denota uno spiccato senso della realtà.
E’un fatto incontestabile che la classe dirigente mondiale -ad eccezione di quella italiana contemporanea- studia il latino a scuola/università, e che il latino è ancora lingua viva negli ordinamenti legali dei paesi di common law. Anche in Cina il latino sta diventando lingua delle elites.
Che poi si debba preparare una classe di lavoratori specializzati inebetiti pronti ad entrare nelle nuove catene di montaggio, i.e. gli uffici – alveari, preferibilmente banche e assicurazioni, è un altro discorso.
La libertà richiede complessità.
ancora uno scritto da parte di un prof universitario che non conosce o conosce poco la scuola superiore che non è fatta solo dal classico o dallo scientifico ma anche dagli istituti tecnici e professionali (una volta c’erano pure geometri e ragionieri purtroppo in estinzione). Concordo sul problema dell’asticella che si abbassa un po’ dappertutto non concordo sulla capacità di ragionamento riservata a latino e greco. Concordo sul ‘900 mai studiato perché ci si ferma troppo presto (e coi licei a 4 anni sarà peggio). Difficoltà concettuali e palestra intellettuale le troviamo in pari misura nelle materie tecnico scientifiche (matematica, chimica, fisica, economia… ) che hanno in più una applicabilità pratica di cui i nostri amministratori palesano la massima ignoranza prendendo continue cantonate. A scanso di equivoci comunico che ho dopo una brillante laurea in ingegneria ho insegnato chimica specialistica ed impianti chimici per oltre 30 anni in istituti professionali (facendo corsi di recupero ma anche di potenziamento), e che molti nostri ex alunni sono arrivati successivamente alla laurea con lode (anche in medicina economia o giurisprudenza) pur non conoscendo il greco o il latino. Non sono prevenuto: Andato in pensione mi sono iscritto ad un corso universitario di greco antico (29/30) di ebraico (30/30) ed ora sono alle prese con tedesco e cinese…