Economisti e economisti
Presentiamo un articolo di Dario de Vivo, professore ordinario di economia politica nell'Università di Napoli Federico II, pubblicato mesi fa – ma il valore dell'articolo è ancora del tutto intatto – sulla rivista online economiaepolitica.it. Abbiamo lasciato anche i commenti, i quali contengono spunti e osservazioni interessanti.
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Gli economisti sono sotto attacco da più parti. La prestigiosa rivista Nature ha invocato la necessità di una “rivoluzione scientifica” in economia, riconducendo l’incapacità degli economisti di “prevedere e evitare le crisi” al loro aver assunto il mercato ad idolo, ed accusandoli di fare propaganda piuttosto che scienza. Sono accuse pesanti, su cui essi devono dire qualcosa. Il Sole – 24 Ore ha iniziato un dibattito con un editoriale “a discarico” di R. Perotti (23 novembre), proseguito poi con interventi molto critici sullo stato della professione – in particolare uno di Roberto Artoni del 26 novembre.
Che la crisi abbia suscitato questo confronto è senz’altro positivo. Mai come nell’ultimo decennio infatti gli economisti liberisti avevano monopolizzato l’informazione. Usando la vecchia tecnica dei frequenti complimenti e citazioni reciproche, sono riusciti a dare l’impressione anche a lettori avveduti che un pensiero unico accomunasse tutti gli “economisti seri”. Il punto importante non è tanto quello degli errori di previsione, ma le storie che questi “economisti seri” son venuti raccontandosi e raccontando ai malcapitati lettori, nei loro editoriali e nei loro libelli. Sostenevano che la liberalizzazione finanziaria avesse fatto mirabilie, che “metà della crescita della produttività degli Stati Uniti è dovuta al settore finanziario”, e che quindi l’enorme ricchezza di cui questo settore riesce ad appropriarsi è giustificata dal suo benefico effetto sulla crescita del prodotto: le rendite non si anniderebbero nei colossali compensi dei dirigenti del settore finanziario, ma tra i lavoratori che guadagnano 1000-1500 euro al mese, e che godono del “privilegio” di un posto di lavoro con qualche tutela.
Dopo tutti i loro peana al liberismo (che alcuni di essi chissà perchè tengono a qualificare come “di sinistra”) quegli economisti, dimenticando tra l’altro di aver spesso vantato gli effetti espansivi della riduzione della spesa pubblica, hanno firmato spaventati appelli perché il finora esecrato Leviatano intervenisse a levare le castagne dal fuoco, con un aumento di spesa pubblica che potrebbe essere vertiginoso: il piano britannico per i salvataggi bancari, a cui tutti sembrano ispirarsi, ha stanziato l’equivalente di 600 miliardi di euro, pari a quasi la metà del PIL italiano, o, se si vuole, pari a circa 4 volte quanto speso annualmente dall’INPS per le pensioni. Ma chi ha dimenticato che quegli stessi economisti fino a ieri additavano all’opinione pubblica come una grave minaccia un possibile aumento della spesa per pensioni di un paio di punti di PIL (la famigerata “gobba”)?
Qualcuno di essi sta oggi iniziando a rispolverare Keynes. Ma se avessero letto Keynes avrebbero forse avuto qualche remora nei loro inni al “contributo” della finanza alla crescita – che appaiono tragicomici oggi che il contribuente è chiamato a pagarne i disastri. Keynes, che era un grande economista e un grande speculatore, paragonava lo “scommettere a Wall Street” allo scommettere alle corse dei cavalli, sostenendo che entrambi servivano solo a dare l’illusione di potersi arricchire senza far nulla, ma che era preferibile andare alle corse dei cavalli, perché così almeno si prendeva un po’ d’aria.
12 Commenti
1. 16 Dicembre 2008 alle 1:12 pm
Panus scrive:
Ineccepibile!
1. 16 Dicembre 2008 alle 2:51 pm
Mariano Di Trolio scrive:
Considerazioni lucide e condivisibili in pieno. Il ‘dogma’ neoliberista comincia a mostrare – anche al grande pubblico – ‘crepe’ profonde nei suoi convincimenti e nelle soluzioni proposte come indispensabili per la crescita economica: competizione sul prezzo (attraverso la riduzione del costo del lavoro), contrazione della spesa pubblica e conseguente drastico ridimensionamento dello stato sociale. Tuttavia, né l’esperienza storica né l’evidenza empirica confermano la cosiddetta tesi del “trade-off” (tra spesa sociale e crescita economica, così come la definisce Felice Roberto Pizzuti nel Rapporto sullo Stato sociale 2006). Lo stesso economista dimostra scientificamente quale sia in realtà lo stato contabile della previdenza italiana, del tutto diverso da quanto, irresponsabilmente, propagandato da tanti (quasi tutti) politici ed economisti. Non è, infatti, a rischio la sostenibilità finanziaria (tutt’altro!!) del sistema pensionistico, quanto piuttosto il livello di “copertura”, ossia l’adeguatezza delle prestazioni rispetto alle retribuzioni medie (in virtù dell’adeguamento delle prestazioni pensionistiche operato attraverso l’aggiustamento dei coefficienti di trasformazione, che scaricano solo sui pensionati il ‘peso’ dell’aumento della vita attesa). Tuttavia, non si assite mai ad un dibattito ‘vero’ su questi temi cruciali. Peranto, ho salutato con grandissima soddisfazione la nascita della vostra Rivista che, più che costituire un’alternativa – come è stato scritto – a “La Voce.info” (che pure consulto con profitto, almeno per ciò che concerne alcuni autori), costituisce, a mio modo di vedere, la prima risposta (forse dopo la Rivista de Il Manifesto) organizzata, sul piano scientifico, al predominio culturale e politico del centro-destra. La rinascita della sinistra (includo anche il Pd) deve fondarsi su contenuti e proposte, scientificamente documentate, in grado di prospettare non un ideale nuovo mondo, ma ‘anche e solo’ una migliore organizzazione socio-economica che contribuisca al miglioramento sostanziale delle condizioni di vita e di lavoro.
La crisi economica, tra i tanti drammi, fornisce anche qualche opportunità; tra queste anche quella fondamentale di screditare le tesi dell’ortodossia economica (tra l’altro, come detto, non suffragate da prove empiriche e storiche)e di proporre soluzioni alternative, fondate su solide basi scientifiche.
Un saluto e buon lavoro.
1. 16 Dicembre 2008 alle 6:50 pm
Nino Magazzù scrive:
Riprendendo il commento di sopra credo che il gruppo più vicino, in Europa, sia quello dell’Euromemorandum group – Alternative Economic Policy for Europe.
Si, diciamo che sono cadute le tesi che dagli anni ‘80 in poi hanno sottointeso nuovamente la fondatezza della legge di Say e dell’effetto di Ricardo riguardo al riassorbimento della disoccupazione tecnologica dimenticando le obiezioni soggettive di Keynes (aspettative sui profitti, tesoreggiamento e tasso d’interesse monetario) ed oggettive di Kalechi (grado di monopolio) e Sraffa e Kaldor (concorrenza monopolistica e oligopolio imperfetto) ben sintetizzate nel libro ormai storico di Sylos Labini “Oligopolio e progresso tecnico”.
L’effetto di Ricardo non avviene poichè i prezzi in oligopolio possono essere non flessibili e così può formarsi risparmio (profitto) non investito e disoccupazione involontaria (tecnologica).
Bisogna riscoprire (come esortava Labini) l’economia “dinamica” dei classici e relegare la teoria “statica” neoclassica nel ramo della teoria della scelta o teoria dei prezzi, che guarda soltanto la parte e non il tutto, cadendo nella fallacia della composizione.
D’accordo con l’articolo.
1. 17 Dicembre 2008 alle 3:49 pm
Maurizio scrive:
Ottimo articolo!!!
Anche nelle università il credo liberista è stato assunto come dogma assoluto. Vi è poco spazio alla critica e a diverse visioni economiche. Bastava un nulla per essere etichettati (fino a qualche mese fà) come eretici.
1. 20 Dicembre 2008 alle 6:41 pm
Ascanio Bernardeschi scrive:
L’articolo mette senz’altro il dito sulla piaga dei danni provocati dalle scelte liberiste e dalle connesse mode in ambito accademico.
Tuttavia la crisi sta evidenziando impietosamente questi fallimenti e quindi sono moltissimi gli economisti ormai riconvertiti al keynesismo. Magari in certi casi a quello di destra o “bastardo”, ma senza più molte illusioni sul ruolo autosufficiente della finanza.
Quello che manca oggi mi sembra invece un’attenta considerazione di una serie di acquisizioni scientifiche di Marx: il ruolo della moneta e del credito, la critica alla legge si Say, gli schemi di riproduzione dimostranti la necessità che la ricchezza non affluente al consumo “distruttivo” sia destinata al consumo produttivo, cioè all’acquisto di capitale costante su scala allargata (un altro modo per dire, col linguaggio dei keynesiani S=I, risparmio aggregato uguale investimento aggregato), il ruolo del capitale fittizio, il contrasto tra la crescita delle forze produttive e la distirbuzione iniqua, il crescente rapporto tra lavoro morto e lavoro vivo, che rende sempre più miserbile la base della valorizzazione, la legge generale dell’accumulazione capitalistica….
Tutto materiale a cui Keynes, pur non ammettendolo, ha attinto a piene mani, più di quanto non venga generalmente sospettato. Per esempio chi ha mai sospettato che Marx aveva inventato il moltiplicatore e l’acceleratore degli investimenti? Certamente non li aveva chiamati così, le denominazioni non le aveva inventate lui, ma i meccanismi sì (si veda Marx, Storia delle Teorie economiche, vol. II, Einaudi, 1955, pp. 576-78).
Ecco, io credo che pur con tutte le necessità di aggiornamento e di sviluppo di un pensiero che è stato largamente un gigantesco abbozzo, Marx sia ancora lo strumento più importante per capire le crisi e il funzionamento del modo di produzione capitalistico.
1. 23 Dicembre 2008 alle 5:25 pm
Francesco Scacciati scrive:
Molti economisti, fino a ieri, hanno spiegato – sulle riviste specializzate come sui principali media – che il libero mercato (compreso quello finanziario…) crea sempre da sé l’equilibrio, purché non disturbato da interventi pubblici che ne distorcono l’armonia, che la globalizzazione porta solo vantaggi per tutti, che le variabili monetarie hanno solo effetti nominali e non reali, che è inutile preoccuparsi della disoccupazione involontaria “…because there is no such thing” (R. Lucas, premio nobel per l’economia nel 1995) e via sproloquiando. Adesso che la barca sta per affondare, rieccoli tutti che lanciano un appello su “la voce” brandendo il vessillo dell’intervento pubblico e spiegando a tutti le meraviglie della regolamentazione dei mercati. (Per chi ha voglia di divertirsi propongo la rilettura de “il liberismo è di sinistra” di Alesina e Giavazzi, ovviamente tra gli autori del documento in questione).
Se c’è UNA cosa che accomuna questa crisi a quella del 29 è il fatto che in entrambi i casi l’accademia, la politica e la “cultura diffusa” sono state dominate per decenni da economisti di scuola neoclassica. Se invece c’è UNA cosa che le differenzia è che le ricette per porvi rimedio sono già pronte, scritte 75 anni fa: basta qualche piccolo aggiornamento. A differenza di quanto accade in campi propriamente scientifici, nessuno di coloro che hanno sostenuto – e con quanta arroganza e prosopopea – le suddette teorie, la cui totale infondatezza è alla base non solo del terremoto finanziario di questi giorni, ma anche del declino di lungo periodo dell’economia reale, pagherà in termini di carriera o di prestigio. Formidabile a questo proposito il FMI, che ora plaude gli interventi pubblici nelle economie in piena crisi dei paesi sviluppati dopo aver imposto politiche iperliberiste ai paesi poveri – riducendo alla fame milioni di contadini e di (ex)operai – pena il taglio degli aiuti.
PS: Ho inviato queste brevi note a “la voce”, che per i commenti ha un apposito sito. Naturalmente non è stato pubblicato.
1. 25 Dicembre 2008 alle 12:47 pm
Sergio Ferrari scrive:
Nel dibattito sulla crisi degli economisti che non hanno saputo vedere un macigno che stava arrivando se non quando questo era ormai caduto, sarà bene andare avanti nella duplice direzione della “scoperta” non solo della “malafede” (come chiamarla altrimenti?), da un lato, ma anche degli errori di teoria che andrebbero considerati come superati da tutti, dall’altro.
C’è, tuttavia, un’altra tematica – non meno centrale – da affrontare ed è quella di come superare la crisi e di come progettare il futuro. Sul primo punto – il superamento della crisi – il richiamo a Keynes va per la maggiore, su come progettare il futuro occorre allargare l’orizzonte.
In un commento all’articolo di de Vivo, viene ricordato Sylos Labini a proposito del monopolio imperfetto. Io vorrei ricordare l’ultima osservazione di Sylos a proposito del capitalismo : “ Il trionfo del lavoro gradevole significa la fine dell’alienazione, che ha costituito e tuttora costituisce la tara peggiore del capitalismo.” (Sylos Labini – Ahi serva Italia – Editori Laterza – 2006).
Dalla crisi del ’29 si usci con Keynes, con il welfare, con un nuovo sindacato, con la prima rivoluzione socialdemocratica. Non credo che dalla crisi del 2008 si possa uscire solo rispolverando Keynes.
1. 6 Gennaio 2009 alle 7:52 pm
Samuel scrive:
Considerazioni precise e pungenti. Molto puntuali anche i commenti degli altri.
Complimenti!!!!
1. 7 Gennaio 2009 alle 11:38 am
Saverio Catalano scrive:
Qualche tempo fa è stata fatta una pubblicità in cui compariva un signore che, con una evidente borsa gialla andava in giro per negozi a fare diverse compere, e ogni volta veniva ossequiamente ringraziato per la spesa effettuata. Il messaggio era piuttosto chiaro: alla base dello sviluppo commerciale e quindi della ricchezza c’è soprattutto l’atto della spesa, più si spende più aumentano le vendite e quindi il commercio e , di conseguenza ed inevitabilmente, si contribuisce allo sviluppo economico più in generale.
Sembrerebbe quindi un messaggio del tutto coerente con quanto affermato da Keynes e che cioè “la spesa di un uomo è il reddito di un altro uomo” e quindi concordante con “l’assurdità dei sacrifici”. Bisogna però ricordare che Keynes, oltre ad affermare che questa della spesa è “la verità fondamentale che non deve mai essere dimenticata”, nel corso di una conversazione radiofonica del 1993 e pubblicata dalla manifestolibri nel 1995 con prefazione di G. Mazzetti, aggiungeva che “non è l’individuo il responsabile, e non è quindi ragionevole attendersi che il rimedio venga dall’azione individuale”, sono le pubbliche autorità “che debbono avviare il processo. Non ci si può aspettare che gli individui spendano di più, quando alcuni di loro stanno già indebitandosi. Non ci può aspettare che gli imprenditori procedano a degli investimenti aggiuntivi, quando stanno già subendo perdite. È la comunità organizzata che deve trovare modi saggi per spendere e avviare il processo”. È quindi lo Stato e gli altri enti pubblici che devono effettuare le necessarie spese (“sagge”) per poter avviare un processo di accrescimento della ricchezza.
1. 8 Gennaio 2009 alle 12:19 am
Francesco scrive:
“…non è nella benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma della considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità…” così (in sintesi) Adam Smith nella sua opera magnifica: “La Ricchezza delle Nazioni”, ci dice che tramite l’egoismo e l’interesse verso il proprio tornaconto,l’insieme degli individui (la comunità), inconsapevolmente contribuisce alla determinazione dell’equilibrio. Si evince il movimento automatico che porta a detto punto (la famosa mano invisibile). In questa opera pioneristica per lo studio dell’economia, raffiguriamo un po gli albori del Laissez-Faire e quindi in Smith il padre dell’economia classica. Altra colonna portante di questo eterogeneo filone è sicuramente la Legge degli Sbocchi di J.B. Say. Ebbene ciò che intendo è che queste teorie andavano bene nei secoli in cui sono state create, in quanto il contesto storico, le scoperte, i cambi di scenari e l’assenza di una globalizzazione distraevano dalla labilità del mercato. Da Lord Keynes (che è il più famoso ma ve ne sono molti altri ed anche precedenti) questa visione cambiò, e cambiò anche per il contesto storico troppo diverso, con meccanismi troppo differenti da quelli delle teorie “ortodosse” (es.WWI-WWII, crisi’29 ecc..). C’è da dire che chi crede al liberismo incondizionato a mio avviso sbaglia perchè quello è il modo in cui un’economia “dovrebbe funzionare” ma non è in realtà quello. Nella nostra epoca esempio del liberismo sono i Cds (tra le cause principali della crisi odierna) e questa deregolamentazione dei mercati sicuramente deleteria. Intanto il mondo è soggiogato dal Dio denaro-potere, che è la mira principale di chi dovrebbe assicurare uno stato giusto e pulito, e sinceramente un liberismo che funzioni in queste condizioni è improbabile. Poi il ruolo delle aspettative e della fiducia si aggrava, il mercato è incerto la teoria Smithiana del tornaconto è impraticabile e Keynes invece è un’ottima alternativa. Ma non si “deve essere schiavi di qualche scribacchino accademico morto anni or sono”, bisogna avere ciò che gli economisti di un tempo avevano, cioè la capacità di leggere il mercato come è oggi, portare avanti nuove teorie, basta con questi adattamenti non ci si può rifare a libri del 1776 o del 1936, che sono il nostro patrimonio culturale ma non possono rispecchiare una società che non esisteva! Dal grande Keynes si è voltati pagina, e gli economisti dovrebbero darsi da fare invece che parlare. Incidete sulla politica, non lasciamo fare a parlamentari la cui carriera è la televisione, ci vogliono veri politici e veri economisti perchè con questi che ci ritroviamo non andremo da nessuna parte, troppo impegnati a darsi la colpa e prendere meriti invece di aiutare un paese in piena decadenza.
1. 22 Gennaio 2009 alle 2:33 pm
Ascanio Bernardeschi scrive:
La volta precedente (20/12/08) mi sono soffermato sull’ingiustamente disconosciuto contributo di Marx per la conoscenza delle cause delle crisi.
Oggi vorrei replicare a coloro che in questa sede si dicono convinti che le soluzioni sono già belle e pronte.
Certo, nessuno oggi può negare la criticità del ruolo della domanda e la necessità che la politica economica agisca per sostenerla. Da questo punto di vista la soluzione è ben cucinata e condivisa. Però c’è modo e modo.
Se la crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito e la diminuzione della capacità di acquisto dei lavoratori sono alla base della crisi economica che sta attraversando l’intero mondo capitalista e se la crisi finanziaria è conseguenza del tentativo di supplire all’insufficienza della domanda con l’estensione oltre ogni ragionevolezza del credito e della speculazione, non è che se ne stanno traendo le dovute conseguenze.
Oggi non siamo di fronte a una semplice fase negativa del ricorrente ciclo economico. La crisi che investe le nostre società è strutturale e profonda, paragonabile per intensità e qualità a quelle più gravi, come lo fu quella del 1929-1930. È una di quelle crisi che, una volta superate, non lasciano le cose come prima, ma cambiano profondamente assetti economici, sociali e anche democratici. È una crisi che potrebbe partorire mostri, come il nazismo fu il prodotto della precedente grande crisi generale.
Le possibilità che le uscite da questa crisi siano in termini di compressione delle libertà democratiche, se non peggio, è data dal convergere di due elementi.
Da un lato il malcontento degli strati popolari, se non trova un’adeguata risposta positiva, viene incanalato in guerre tra poveri (precari contro lavoratori stabili, “partite IVA” contro lavoratori dipendenti, italiani contro stranieri, giovani contro pensionati) e nuovi indirizzi autoritari possono perfino venir invocati dalle masse. Il fenomeno del leghismo, della xenofobia, dell’invocazione di politiche securitarie potrebbero essere la punta dell’iceberg di un imbarbarimento più complessivo. Inoltre l’incapacità di dare risposte di tipo solidaristico ai bisogni della gente ha spinto alla ricerca di soluzioni di tipo individualistico, competitivo ed egoistico.
Questi tipi di reazione sono ben alimentati da determinati settori politici e mass media proprio perché convergono con un interesse preciso dei poteri forti: quello di ridurre gli spazi di partecipazione democratica e le possibilità di organizzazione dei lavoratori, di unificazione delle classi sfruttate per poter comprimerne ulteriormente il tenore di vita. Tutto ciò è condizione necessaria per uscire dalla crisi se si vuole escludere una redistribuzione del reddito e il rilancio dello stato sociale. Se si vuol fare passare il sostegno pubblico nella forma di sostegno alle imprese decotte e che hanno giocato d’azzardo ecc. È significativo il fatto che le prime risposte alla crisi sono state il sovvenzionamento delle banche, la cui spregiudicatezza ne aveva determinato l’insolvenza, e non il risarcimento dei lavoratori, il rilancio dei servizi pubblici e di un ruolo dello Stato nell’economia.
Di fronte all’oggettività di questi pericoli e all’attacco evidente in atto, hanno poche possibilità di successo risposte su un terreno puramente difensivo. Bisogna aggiungere a ciò la costruzione di un progetto di nuova organizzazione sociale in grado di indicare una prospettiva positiva, credibile e fattibile a tutti coloro che soffrono le conseguenze della crisi.
1. 1 Febbraio 2009 alle 2:47 pm
Tommaso scrive:
Il pensiero unico neoliberista ha procurato disastri.
Stupisce che qualcuno insista a confondere le causa con i rimedi.
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