La favola multietnica e la realtà dell’immigrazione. Il suicidio della sinistra
di Claudio Moffa
Fonte Ariannaeditrice fonte originaria claudiomoffa
Non è bastata alla sinistra ufficiale l’ennesima batosta elettorale del giugno scorso; non le è bastato lo snaturamento della propria identità sociale, la perdita fino alla mutazione genetica del proprio tradizionale elettorato operaio e “proletario”. Alemanno ha vinto due anni fa nei quartieri popolari della capitale, non ai Parioli dove l’ha spuntata il PD; nel Nord la classe operaia vota da più di dieci anni Lega, nella Torino della Fiat come a Milano, ma pare che nessuno a sinistra voglia riflettere su questa tragica deriva che sta trasformando tutte le anime dell’ex PCI nel partito dei corifei del multiculturalismo e dei neo-salsicciari delle feste dell’Unità, tanto tragicamente neo-liberals quanto entusiasticamente “antirazzisti”.
Non le è bastato tutto questo alla sinistra ufficiale, perché alla prima occasione pur di dare addosso a Berlusconi e di assecondare il patron De Benedetti e i suoi giornali, ricomincia il coro. Anche i suoi leaders più responsabili: Bersani alla festa genovese del PD accusa il centrodestra di ideologismi a proposito delle ultime vicende di Lampedusa: il candidato principale alla successione a Franceschini pensa alle pagliuzze altrui ma non vede le travi che hanno impalato la leadership ex piccista alla croce dell’autodistruzione. Idem Fini che – da destra – parla di emotività con riferimento alla questione sicurezza, ma non guarda con la stessa lente alla questione immigrazione, dove chi vuole un controllo del fenomeno è immediatamente tacciato di razzismo e di violazione dei “diritti umani”.
Che è successo a Lampedusa nei giorni scorsi, tanto per cominciare? Sembrò a ingenui e furbi che il gommone dei 5 eritrei fosse carico di un’ottantina di persone, morte in mare prima che i sopravvissuti sbarcassero a Lampedusa. Un dramma, frutto del “razzismo” della nuova legge che ha reso reato l’immigrazione clandestina. Ma il 26 agosto il TG ha diffuso una foto pubblicata dal governo maltese sul sito del Corriere della Sera, nella quale si vede dall’alto il gommone ben pulito e di dimensioni tali che mai avrebbe potuto contenere 80 persone. Domanda, che ci si sarebbe dovuti porre subito: per caso i 5 eritrei hanno mentito sulle presunte decine di vittime durante la traversata? E’ stato trovato qualche segno (borse, sacchetti etc.) sul gommone della presenza degli 80 presunti compagni di viaggio dei fortunati eritrei? Il dubbio non è affatto assurdo, così come non è assurdo indagare con spirito obbiettivo sulle dichiarazioni di tutti i disperati che sbarcano con l’obbiettivo di entrare in Italia e in Europa magari come “rifugiati”, cioè a dire come perseguitati per motivi politici o razziali nel paese di provenienza: è chiaro che gli immigrati irregolari hanno tutto l’interesse a drammatizzare la loro condizione originaria e le fatiche del loro viaggio. Sarebbe, se vero, un fatto normale, una tentazione umana comprensibile. Il problema non sta in loro, sta in chi ciecamente gli crede o fa finta di credergli: un comportamento che fa parte questo sì di un approccio tutto ideologico al problema dell’immigrazione, riassumibile in quattro dogmi intoccabili che accomunano quasi tutta la Chiesa cattolica, i laici e postcomunisti del centrosinistra e l’estremismo no-global e Cobas: primo dogma, chiunque chiede di poter entrare nel nostro paese (e di qui in Europa) ha il diritto di farlo. Secondo, chi si oppone è un razzista né più nè meno che gli
estensori delle leggi razziali del 1938. Terzo, tutti gli immigrati sono rifugiati, e questo aggrava la colpa di chi vuole vietare il loro ingresso in Italia. Quarto, opporsi all’immigrazione costituisce non soltanto una violazione dei “diritti umani”, ma anche un danno per l’ “economia” italiana.
Sono quattro assurdità. Da che esistono gli Stati e i passaporti, per entrare in un paese occorre un regolare visto, oppure un accordo fra Stati che lo renda non necessario. Se poi l’ingresso non certificato e non concesso si trasforma in residenza di fatto permanente, si è oggettivamente clandestini nel paese di imposta accoglienza. Non si capisce perché a questo punto uno Stato non possa e non debba normare come reato un simile comportamento, ormai diventato drammaticamente di massa. Tutto questo è razzismo? Il paragone fatto durante la campagna elettorale del maggio-giugno scorso in un editoriale di Liberazione e ripreso pochi giorni dopo dal segretario del PD Franceschini, che i respingimenti delle ondate di immigrati in Italia ricordano le leggi razziali del 1930, è veramente privo di
logica: è l’ennesimo segnale della perdita di qualsiasi approccio razionale e obbiettivo alle grandi questioni sociali della nostra epoca da parte della sinistra postmarxista. Le leggi razziali del 1938 discriminavano ingiustamente cittadini italiani di origine ebraica, ultimi discendenti di una minoranza da secoli se non da millenni residente nel territorio della penisola. Nel caso degli immigrati si è di fronte a cittadini stranieri che pretendono di entrare in Italia e in Europa in assenza di qualsiasi regola e programmazione della forza lavoro economicamente assorbibile. Un paragone che è l’altra faccia delle famose dieci domande di Repubblica, il tragicomico gossip con cui si cerca coprire l’assenza di qualsiasi programma politico serio alternativo a quello realizzato mese dopo mese dal centrodestra.
Ma gli immigrati, tutti gli immigrati, sono rifugiati? Anche questa è una idiozia. Mi è capitato di attivarmi un paio di anni fa per il riconoscimento dello status di rifugiato per il figlio di un ministro di Saddam Hussein, in carcere a Bagdad, la cui famiglia era effettivamente perseguitata dai nuovi padroni dell’Iraq occupato dagli anglo-americani. Ma in quel caso lo status di rifugiato – poi ottenuto – era un atto dovuto, perché si era di fronte ad una persona direttamente immersa, sia pure in quanto figlio di un ministro, nel conflitto in atto nel paese. Invece, nel caso della stragrande maggioranza degli immigrati non è così: è possibile che manchi una codificazione di uno status intermedio fra il vero e proprio rifugiato politico e l’immigrato per motivi sociali ed economici, ma è un fatto che in base alla stessa Convenzione di Ginevra del 1951 non è possibile concedere lo status di rifugiato a chiunque entri in Italia, se privo di alcuna dimostrata esperienza politica, militante, di impegno civile. Non bastano le guerre o le dittature nei paesi di provenienza per trasformare automaticamente ogni emigrato in rifugiato. Chi insiste su questo argomento lo fa o per speculazione politica o per “buonismo” qualunquista, un sentimento di solidarietà privo di alcuna base logica e spesso dannoso per la costruzione di una vera e concreta solidarietà sociale. Gli immigrati come risorsa: ma per quale “economia”? Ed eccoci dunque alla decantata “risorsa” che gli immigrati rappresenterebbero per l’economia italiana, un tema rilanciato recentemente anche da uno studio della Banca d’Italia. E’ il più grande equivoco della questione immigrazione in Italia, fatto proprio da una sociologia e una politologia dell’immigrazione “facile” che non regge ad una critica razionale. In un articolo recente Famiglia Cristiana, citando appunto la ricerca dell’Istituto di via
Nazionale, titola: “Senza il loro lavoro saremmo tutti più poveri”. Un titolo ad effetto (“loro” sono gli immigrati) che non regge all’analisi dei fatti, a meno che non la si articoli compiutamente: un conto sono le colf e le badanti che possono risolvere i problemi di gestione quotidiana di tante famiglie a reddito medio-basso; un conto sono i lavoratori nell’industria nell’agricoltura e nel commercio.
In questi settori non è affatto vero che gli italiani non vogliono fare più certi lavori: non li vogliono fare – compresa la raccolta dei pomodori in Puglia, che a qualche studente italiano bisognoso di soldi per le vacanze potrebbe far comodo – per paghe basse o bassissime, come quelle che si sono diffuse proprio grazie alla concorrenza della massa di immigrati: un classico “esercito industriale di riserva”, per dirla alla Marx, che in questo ultimo quarto di secolo ha svolto la funzione storica di colpire – certo non da solo, ma in concomitanza con altri fenomeni e politiche “autoctone” – le conquiste salariali e occupazionali guadagnate dai lavoratori nazionali in decenni di lotte sindacali.
Questa verità indubitabile non è frutto di ideologismi: è raccontata dai fatti ed è stata ammessa anche (qualche volta) persino dalla CGIL. “Cipputi dice no all’operaio squillo” titolava un articolo de La stampa del 4 luglio 2000, che riportava il giudizio di un sindacalista di sinistra contro la sleale e crumira concorrenza degli immigrati. “E’ necessario superare lo stereotipo espresso dallo slogan che recita ‘gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare’ … – scriveva nel 1999 un sindacalista della CGIL bolognese – ci sono infatti moltissimi esempi che testimoniano quanto questo slogan sia sbagliato”. Parole sacrosante. Ma la questione immigrazione non viene quasi mai affrontata a sinistra per quella che è, allora come oggi: quella citazione la lessi durante un convegno all’Università di Teramo promosso nel 2000 nell’ambito di un progetto sulle “discriminazioni etniche” finanziato dall’Unione Europea. Fra gli oratori c’era l’on. Evangelisti dei DS, e sperai ingenuamente nell’apertura di un dibattito: ma non successe nulla. Intervenendo poco dopo il deputato ripeté semplicemente la solita solfa dell’immigrazione come “risorsa” dell’ “economia”. Punto e basta. Né a Bruxelles, nei lavori di coordinamento fra i project-leaders di altre consimili ricerche si respirava aria migliore. Anzi, lì il solo opporsi ad una visione fatalistica dei fenomeni migratori – come da sociologia e politologia imperanti – il solo parlare di controlli da una parte e di politica di pace dall’altra (le guerre degli anni Novanta hanno provocato ondate migratorie terribili) rischiava di farti giudicare in odore di “razzismo” e/o di pacifismo “estremista”. Certo la pace non basta, occorre anche il rilancio della cooperazione internazionale e un commercio equo. Certo il razzismo esiste, in Europa e in Italia: ma costituisce l’humus sì e no del 5-10 per cento
degli episodi denunciati come tali dalla stampa e dai mass media. O gli operai che oggi votano Lega e Pdl sono diventati tutti razzisti? E per caso, non è proprio l’immigrazione senza regole a diffondere il rischio razzismo in tutto il paese? Tabù, miti privi di logica e furbizie mediatiche impediscono ieri come oggi di affrontare correttamente da una parte la questione delle minoranze e dall’altra il rapporto oggettivamente non armonico – che riguarda per altro anche i servizi e il bene casa – fra lavoratori stranieri e nazionali.
Il mito delle minoranze sempre e comunque “brava gente” è noto: per certi militanti e politologi “buonisti” tutto il male viene dall’esterno, dall’ “oppressore” autoctono, italiano nel nostro caso. Non c’è nessuno o quasi a sinistra che denunci il razzismo diffuso dei cinesi e il bestiale sfruttamento cui coloro che detengono il controllo di queste comunità sottopongono i loro connazionali, minori compresi. Assolutamente nessuno a sinistra che avanzi almeno il dubbio che i Rom sono anch’essi razzisti, fino a costruirsi un’etica tribale che rende per loro assolutamente “morale” rubare il portafogli col cartone al pensionato, o prendersi i soldi delle Amministrazioni pubbliche non mandando, come loro dovere, i figli a scuola. Come si suol dire, con una fava due piccioni: si intascano sia i soldi dei minori costretti all’accattonaggio quotidiano, sia le 50- 70 euro al giorno per una scuola che essi sono costretti a non frequentare dai loro stessi genitori. Ma di tutto questo a sinistra si tace: c’è l’Opera Nomadi a convincere i rivoluzionari i multiculturalisti che “Rom è bello” sempre e ovunque.
Ma torniamo al tema principale, il rapporto fra lavoratori stranieri e nazionali: anche qui le perle non mancano. Come l’inconsistente analisi di Bernocchi a La 7 durante uno dei dibattiti sulle elezioni europee. Per il leader dei Cobas ci sarebbe stata e ci sarebbe in Italia un’alleanza degli industriali con i “penultimi” (cioè la classe operaia nazionale) ai danni degli “ultimi”, gli immigrati. E’ una assurdità: l’alleanza semmai è stata ed è fra industriali e forza lavoro immigrata ai danni dei lavoratori italiani, come da articolo prima citato, e come da semplice logica: con quali paghe, con quale disponibilità al lavoro iperprecario vengono assunti gli immigrati in tante aziende italiane? A quanto ammonterebbe un salario secondo tariffe contrattuali nell’edilizia, contro i 25 euro giornalieri (e per 12 ore di lavoro al giorno) garantiti agli immigrati, in condizioni peraltro di forte insicurezza, a rischio della vita, nei cantieri? Lo slogan “gli immigrati sono una risorsa per l’economia italiana”, condiviso da fior di ricerche economiche e sociologiche, parte da un assunto astratto e monolitico dell’economia. E’ chiaro che ci sono diversi interessi economici, secondo settori economici e secondo classi sociali. All’industriale senza scrupoli va bene l’immigrato, possibilmente clandestino, perché più sfruttabile; per l’operaio o il disoccupato italiano lo stesso immigrato costituisce una minaccia per il proprio posto di lavoro o almeno per la propria paga. Al cittadino di qualche quartiere bene – zona ricca, disponibilità di case per immigrati zero – l’immigrazione geograficamente lontana potrebbe apparire, con buona dose di scemenza o di ipocrisia, nientemeno che un arricchimento multiculturale grazie all’ astratto incontro col mitico “diverso”; ma al cittadino delle grandi periferie, la stessa immigrazione appare, in tutta la sua concretezza quotidiana, come uno dei tasselli del degrado urbano in cui è costretto a vivere: e il “diverso”, privo di un reddito sufficiente, di un lavoro garantito e di una vita affettiva e sessuale normale, può diventare molto meno poeticamente colui che ti rapina o ti stupra. E’ così difficile capirlo? Evidentemente per il centrosinistra sì: il centrosinistra preferisce demonizzare le leggi sull’immigrazione del centrodestra e i centri di permanenza degli immigrati, anziché svolgere una critica interna alla concreta applicazione della (necessaria) politica di contenimento e controllo dell’immigrazione straniera in Italia. Non interviene per criticare il singolo operatore di polizia o funzionario di stato per eventuali comportamenti “caricati” di arroganza razzista; vuole semplicemente abolire la Bossi Fini, la legge sulla sicurezza, i centri di permanenza, ogni forma di controllo. Non difende semplicemente il sacrosanto diritto dei musulmani in Italia ai loro luoghi di culto , ma semplicemente vuole che entrino nel nostro paese tutti i musulmani del mondo, altrimenti si è razzisti. Il tutto dentro una politica più o meno culturale che ha ben digerito il giornalismo islamofobo di Oriana Fallaci e di Magdi Allam; e una politica estera che prende in tanti modi le opportune distanze dall’Islam mediorientale, l’Islam autoctono con i suoi Stati sovrani e suoi movimenti di liberazione nazionale.
Così la sinistra ha perso le elezioni europee e la possibilità di governare in Italia; così ha mutato la base del proprio elettorato, come dimostra la geografia del voto nelle consultazioni degli ultimi dieci vent’anni. Classe operaia addio: adesso l’ex Partito di Togliatti e Berlinguer pensa agli immigrati come bacino di (improbabili?) voti per far fronte alla sua crisi senza scampo, dovuta alla sua subalternità totale al carro di Repubblica e di De Benedetti e all’assenza di ogni reale programma riformatore. L’immigrazione non è certo il solo terreno in cui si scopre e verifica “la sinistra che non c’è” – ce ne sono ben altri, a cominciare dalla politica economica per proseguire con la riforma della Giustizia, dell’Università, o la politica estera – ma sicuramente il principale, soprattutto per una forza che un tempo faceva del legame con le masse popolari la base dei propri successi in Parlamento e nel paese.
non condivido quasi niente dell’articolo di Moffa.
Sul manifesto mi pare non si parli di immigrazione, problema complesso, quindi penso che una discussione tra noi sia necessaria.
Comunque l’analisi di moffa è superficiale, ottusa, priva di dati, ideologica almeno quanto quelle analisi che lui critica. E priva di memoria, non viene neanche detto che prima della Bossi-Fini la legge che istituì i Cpt si chiamava Turco-Napolitano (legge che io peraltro condanno).
Il punto – non so se di sinistra o di destra – attiene a più alti
ragionamenti, e di questo si deve discutere, non del fatto che Moffa ha avuto i ladri in casa il mese scorso e magari non sa con chi prendersela.
Il punto è che nessun ordinamento giuridico dovrebbe impedire il
transito o la vita stanziale su un territorio a un individuo in base al fatto che quell’individuo lavori o no (argomento di diritto naturale), oltretutto decidendo prima ancora che l’individuo si sia manifestato se c’è lavoro per lui (parlo
del lavoro “a chiamata”, il lavoro è creato dall’uomo, non è un
oggetto preesistente all’uomo che con l’uomo si accoppia).
Anche rifiutando qualsiasi argomento di diritto naturale la risposta dovrebbe essere la stessa? Perché un individuo deve lavorare?
Se non eleviamo un po’ il discorso rischiamo di poggiarci sulla
matassa di opinioni indistinguibili che tengono in ostaggio il
dibattito su questo tema: se parliamo solo di realpolitik l’opinione di Moffa diviene accettabile, purché si espungano le parti sul razzismo degli immigrati, non pertinenti. Sul crumiraggio di chi accetta 25 euro al giorno di paga Moffa avrà pure ragione, ma non mi pare che il problema sia solo degli immigrati.
C’è poi l’esperienza degli storici come Bloch (mi pare)
che diceva che le migrazioni fanno la storia, e la
testimonianza opposta della politica internazionale che tende a
trattare tutti i problemi politici come problemi umanitari
snaturandoli e bloccandoli (per es. Palestina). Se queste opinioni non hanno peso e producono storture, vuol dire che il fenomeno deve ancora essere capito. Gestirlo senza capirlo significa agire in malafede.
Una persona mi ha severamente criticato per aver pubblicato l’articolo di Claudio Moffa. Dico subito che dell’articolo condivido la tesi di fondo – il succo del discorso – mentre mi lasciano perplesso talune osservazioni che l’autore svolge a margine, necessariamente con superficialità, come sempre accade quando si aprono parentesi, che sono laterali rispetto al discorso principale. A me interessava e interessa quest’ultimo.
Mi sembra che l’articolo di Moffa possa essere riassunto così: la sinistra si è suicidata anche perché ha diffuso e/o accolto il convincimento che il tema della immigrazione nel nostro paese debba essere risolto applicando due principi giuridici e due valutazioni (Moffa segnala molte altre ragioni del suicidio ma crede che le posizioni sull’immigrazione siano la ragione “principale”).
I principi giuridici (suicidi) sostenuti dalla sinistra sarebbero i seguenti: 1) a qualunque straniero deve essere attribuito il diritto di entrare e di rimanere nel territorio italiano senza alcun vincolo ( scrive Moffa: “primo dogma: chiunque chiede di poter entrare nel nostro paese (e di qui in Europa) ha il diritto di farlo”; 2) l’asilo politico deve essere concesso a chiunque lo richieda.
Le valutazioni (false e suicide) sostenute dalla sinistra politica, invece, asserirebbero che 3) chi è contrario ai due principi è razzista; 4) chi è contrario ai due principi è anche ignorante in materia di economia, perché l’aumento della immigrazione favorisce la crescita dell’economia italiana.
La tesi che Moffa attribuisce alla sinistra è una forzatura e non corrisponde a verità. Perché anche una parte della cosiddetta sinistra radicale non ha mai sostenuto con nettezza quei principi e quelle valutazioni. E perché i governi e i parlamentari di centrosinistra, che ai primi hanno dato fiducia, non hanno emanato norme ispirate ai due principi e, al di là delle battute televisive che ormai hanno sostituito il dibattito politico, non hanno rimproverato a tutti coloro che sono contrari a quei principi e a quelle valutazioni (a tutti, non, dunque, a Borghezio, ai suoi accoliti e ad altre simili figure) di essere razzisti e di essere ignoranti in economia.
Dunque, il primo rimprovero che si può muovere a Moffa è di aver attribuito alla sinistra idee, espresse in materia assolutamente estrema, che, al più, sono state professate soltanto da una parte della sinistra radicale (e secondo me più da alcuni “intellettuali” e dai dirigenti che dagli iscritti, dai militanti e dai votanti) e non dunque da tutta la sinistra e nemmeno da tutta la sinistra radicale.
Peraltro, questo rimprovero, sebbene fondato, sarebbe ingenuo e fuorviante e comunque di poca importanza.
Mi sembra che si debba dissentire anche dalla valutazione secondo la quale le posizioni sull’immigrazione sono state la ragione “principale” del suicidio della sinistra. Credo che ve ne siano state molte altre di pari se non maggiore importanza. Anche questo dissenso, peraltro, riguarda un profilo laterale rispetto alla linea del ragionamento seguito da Moffa.
Infatti, resta il problema centrale della posizione che si deve assumere dinanzi ai due principi. Devono essere accolti? O devono essere respinti? Dobbiamo perciò chiederci: i due principi esprimono posizioni “di classe”, nel senso che tutelano gli interessi della classe dei lavoratori (subordinati) italiani o sono posizioni classiste, che tutelano altri interessi contro gli interessi dei lavoratori (subordinati) italiani? Sacrificano interessi generali di rilievo o, addirittura di grande di rilievo ovvero non li sacrificano? Quali conseguenze comporterebbe la loro assoluta applicazione? Se le conseguenze, come sempre accade, fossero in parte favorevoli e in parte sfavorevoli (naturalmente secondo il punto di vista che si sceglie: perciò la valutazione può essere diversa da persona a persona a seconda del punto di vista e dell’interesse), il vantaggio supera lo svantaggio?
Relativamente alle due valutazioni, dobbiamo invece chiederci: sono fondate? E se si da che punto di vista? Quest’ultima domanda si pone soprattutto per la seconda valutazione, la quale, essendo un valutazione economica, deve necessariamente essere sottoposta ad esame – in particolare da coloro (ed è il caso, appunto, della sinistra radicale) i quali ( a mio a viso a ragione) negano persino l’economia politica critica e riconoscono valore soltanto alla critica dell’economia politica.
Tanto premesso, passo ora ad esaminare il primo principio criticato da Moffa. Si deve emanare una disposizione che preveda che a qualunque straniero deve essere attribuito il diritto di entrare e di rimanere nel territorio italiano senza alcun vincolo? Ovvero, comunque, si devono emanare una serie di disposizioni che, pur con qualche precisazione ed eccezione, siano ispirate a quel principio?
Moffa risponde di no e argomenta come segue: “Da che esistono gli Stati e i passaporti, per
entrare in un paese occorre un regolare visto, oppure un accordo fra
Stati che lo renda non necessario. Se poi l’ingresso non certificato e
non concesso si trasforma in residenza di fatto permanente, si è
oggettivamente clandestini nel paese di imposta accoglienza. Non si
capisce perché a questo punto uno Stato non possa e non debba
normare come reato un simile comportamento, ormai diventato
drammaticamente di massa?”.
Dunque, Moffa invoca soltanto l’argomento storico-comparatistico che di per sé non significa molto, posto che è sempre possibile introdurre un nuovo principio. Però l’argomento storico-comparatistico induce a chiedersi: perché gli Stati hanno sempre sottoposto a vincoli l’accesso nel territorio dello Stato? Perché dunque gli Stati hanno sempre punito e puniscono, sotto il profilo amministrativo e/o penalmente, chi viola quei vincoli. Il problema se, in caso di violazione, debba irrogarsi una sanzione amministrativa o penale è logicamente successivo e va affrontato soltanto dopo aver ammesso che lo Stato debba porre norme giuridiche che vietano l’ingresso e la permanenza nel territorio dello Stato in assenza di determinati requisiti. Siccome Moffa stava discutendo il problema se si debbano o meno porre dei vincoli, poteva anche fare a meno di porre il secondo quesito (senza peraltro prendere posizione), che è fuori tema. Proprio perché fuori tema non tocchiamo l’argomento che implica considerazioni tecniche, economiche e giuridiche (la Costituzione porrebbe dei vincoli e dunque il reato, sempre che sia la sanzione praticamente più efficace, dovrebbe essere configurato tenendo conto di quei limiti).
Credo che gli interessi tutelati dalle norme, pure diverse, che gli Stati pongono per condizionare l’ingresso e la permanenza nei loro territori siano innumerevoli.
Perché consentire che, senza controlli, possano entrare tutti, quindi anche persone che, eventualmente, nei paesi d’origine hanno fedine penali da criminali incalliti e violenti? Non ne deriva un rischio per la sicurezza pubblica, bene costituzionalmente tutelato? Perché consentire che all’interno del territorio dello Stato possano delinquere soggetti che lo Stato ignora siano presenti nel suo territorio? Non c’è un aumento del rischio che i colpevoli dei reati restino impuniti? Non ne deriva il potenziale sacrificio della giustizia, bene costituzionalmente tutelato? Perché consentire che possano entrare e restare a proprio piacimento persone che non hanno fatto i vaccini che sono obbligatori per i cittadini italiani (qualcuno sarà pure utile e non dovuto al dominio di BigFarma)? E perché consentire che entrino stranieri provenienti da Stati nei quali si sono diffuse pericolose epidemie, verso le quali non siamo preparati? Non ne deriva, in entrambi i casi un aumento del rischio per la salute pubblica o almeno per la salute dei cittadini, beni costituzionalmente tutelati? Perché consentire che entri un enorme numero di persone nel territorio di Stati, la cui storia è caratterizzata dal problema demografico, come la Cina, la quale (mi sembra) è stata costretta a ricorrere al terribile divieto del secondo figlio? Perché uno Stato dovrebbe suicidarsi accettando di cadere nell’obesità demografica? Perché noi Italiani, accogliendo quel principio dovremmo accettare il rischio di avere, tra molti o anche moltissimi anni, una densità demografica deprimente, come quella di Hon Cong?
Mi sembra, quindi criminale (se si è in mala fede) o idiota (se si è in buona fede) sostenere che lo Stato debba attribuire agli stranieri il diritto di entrare (che sarebbe un penetrare, in realtà) nel proprio Territorio, senza porre alcun vincolo e/o controllo e che quindi lo Stato debba disinteressarsi a coloro che sono entrati clandestinamente. Se poi chi sostiene questa tesi creda che chi non la condivide è un razzista o un fascista ho la certezza che non siamo di fronte a un criminale ma a un idiota.
D’altra parte, esistono innumerevoli interessi dello Stato a sapere quante persone si trovano all’interno del territorio, dove si trovano, di che cosa vivono, e così via. Infatti posto che a coloro che sono entrati clandestinamente o che, entrati regolarmente, sono rimasti in violazione della legge e dunque sono “immigrati irregolari”, devono essere necessariamente forniti taluni servizi pubblici, come per esempio l’assistenza sanitaria, è dato configurare l’interesse a conoscere il costo (che graverà sui bilanci pubblici e quindi sulle tasse dei cittadini) delle prestazioni delle quali i clandestini beneficiano e che non concorrono a sostenere (con il pagamento delle tasse). Oltre all’interesse a conoscere c’è l’interesse a limitare, posto che applicando fino all’estremo il principio criticato da Moffa, potremmo trovarci tra alcuni anni (magari tra un paio di decenni) ad avere cinque o dieci milioni di persone che gravano sui bilanci pubblici sotto molteplici profili e che non concorrono a sostenere quelle spese. C’è l’interesse a sapere dove sono reperibili le persone che si trovano sul territorio dello Stato e ciò per una pluralità di fini. Noi abbiamo, forzatamente una residenza, oltre che un domicilio. Perché centinaia di migliaia di persone o addirittura milioni di persone non dovrebbero averla, mettendo a rischio, così, i molteplici interessi, per quanto piccoli e settoriali, tutelati dalle norme che prevedono una residenza? Inoltre, esistono gli obblighi scolastici; i doveri di intervento dei servizi sociali nelle situazioni che l’ordinamento reputa critiche; e così via. Infine, ma gli esempi potrebbero continuare, mentre le statistiche dicono che la tendenza a delinquere degli immigrati regolari è addirittura inferiore a quella degli italiani (tempo fa lessi questa statistica), al contrario, la tendenza a delinquere degli immigrati irregolari è superiore a quella degli Italiani e probabilmente anche superiore a quella degli Italiani che lavorano in nero o non lavorano, i quali possono avere rendite, case, pensioni della nonna, “paghetta” dei genitori e quant’altro. Esiste dunque l’esigenza di evitare la commissione di reati penali, della quale si deve tener conto.
In definitiva, una infinità di interessi pubblici vengono sacrificati o sono messi a rischio di essere sacrificati, applicando il principio che chiunque possa entrare o, comunque, restare a proprio piacimento nel territorio italiano. Soltanto chi vuole la distruzione dello Stato (si tratta, in generale o forse esclusivamente di coloro che, chi sa perché, vogliono la distruzione “degli Stati” e non del solo nostro Stato) , ossia di quello strumento che il popolo stanziato su un territorio si è dato per regolare la propria vita associata, coerentemente può sostenere questo principio. Io non ho questo fine e dunque rifiuto quel principio.
La politica dell’immigrazione deve dunque muovere dai seguenti canoni. Lo Stato: 1) deve porre limiti e oneri all’entrata degli Stranieri nel territorio. Quali e quanti siano questi oneri e limiti è oggetto del dibattito politico. 2) conseguentemente deve prevedere sanzioni (personalmente penso che debbano essere amministrative e non penali) per l’inosservanza dei limiti e degli oneri (altrimenti non ha senso parlare di limiti e oneri); quali e quante siano queste sanzioni è oggetto del dibattito politico; 3) deve sapere quali e quanti stranieri si trovano sul suo territorio; 4) deve saper agevolmente rintracciare (almeno nella stessa misura in cui è possibile farlo con i cittadini italiani) gli stranieri residenti in Italia; 5) può cercare di evitare le spese e i disagi, per i propri cittadini, per le proprie strutture pubbliche e per gli stranieri irregolari, creati dalla necessità di sanzionare l’entrata o la permanenza irregolare sul proprio territorio, mediante accordi con altri Stati. L’opportunità e il contenuto di uno o altro accordo è oggetto del dibattito politico; 6) deve assicurare a coloro che sono entrati o siano rimasti irregolarmente e che siano stati individuati un trattamento dignitoso, evitando strutture paragonabili agli istituti carcerari o simili.
Il dogma criticato da Moffa, dunque, è inopportuno e ingiusto; non è mai stato applicato storicamente; non è sostenuto, non dico da una maggioranza, ma nemmeno da una rilevante minoranza dei cittadini italiani; non è dato ipotizzare che sarà mai sostenuto nemmeno da una minoranza rilevante; è irrealizzabile, ingenuo, ideologico, infantile, ridicolo, politicamente inconcludente e suicida.
Quando poi coloro che sostengono l’applicazione del dogma osano accusare chi lo contesta – e tra questi le posizioni sulla disciplina da porre sono innumerevoli e a volta totalmente diverse – di essere fascisti e razzisti, il limite del ridicolo è superato (anche un soggetto soltanto parzialmente insano di mente comprende che i razzisti sono soltanto coloro che si oppongono al dogma per motivazioni razziali o di pulizia della stirpe italiana o comunque per una patologica diffidenza o avversione verso il diverso). Quindi Moffa ha ragione anche nel contestare la valutazione secondo la quale chi non accetta l’assurdo dogma è razzista e fascista. Ha ragione, dunque Moffa quando scrive che la tesi secondo la quale “i respingimenti delle ondate di immigratiin Italia ricordano le leggi razziali del 1930, è veramente priva di
logica: è l’ennesimo segnale della perdita di qualsiasi approccio
razionale e obbiettivo alle grandi questioni sociali della nostra epoca
da parte della sinistra postmarxista. Le leggi razziali del 1938
discriminavano ingiustamente cittadini italiani di origine ebraica,
ultimi discendenti di una minoranza da secoli se non da millenni
residente nel territorio della penisola. Nel caso degli immigrati si è
di fronte a cittadini stranieri che pretendono di entrare in Italia e in
Europa in assenza di qualsiasi regola e programmazione della forza
lavoro economicamente assorbibile”. Anzi Moffa adduce una sola ragione (la necessità di disciplinare e programmare la forza lavoro economicamente sostenibile), sulla quale noi nemmeno ci siamo intrattenuti, mentre le regole servono a tutelare anche altri interessi pubblici.
Quanto alla idea di estendere l’asilo politico a tutti, essa implica che lo Stato non possa attuare per principio una o altra forma di limitazione della popolazione stanziata sul territorio e ciò anche quando la quantità degli stranieri senza lavoro abbia raggiunto livelli tali da comportare necessariamente e naturalmente una aggressione ai beni costituzionali della sicurezza pubblica e della giustizia e a prescindere da uno altro rapporto di equilibrio tra i cittadini votanti e gli stranieri residenti. Si tratterebbe, inoltre, di un ingenuo tentativo per aggirare i vincoli e i divieti di cui sopra. E non sembra, quindi, nemmeno opportuno che uno Stato e quindi un popolo prenda in giro sé stesso. Tra l’altro Moffa su questo punto è possibilista circa la creazione di un altro status (diverso dall’asilo politico), anche se l’idea appare difficilmente praticabile.
Mi sembra, pertanto ovvio, che è priva di senso (ingenua, infantile, egocentrica, presuntuosa, ecc.) l’affermazione secondo la quale chi è contrario a concedere l’asilo politico a tutti o quasi tutti coloro che ne facciano richiesta (senza requisiti di militanza, persecuzione, ecc., tradizionalmente richiesti) è un fascista o un razzista. Esistono parecchie ragioni, che non hanno nulla a che vedere con il fascismo e il razzismo, le quali si oppongono all’accoglimento del principio.
Dunque, la critica al primo dogma e alle due valutazioni (che Moffa chiama dogmi anch’essi) è sacrosanta, toglie il campo a posizioni ipocrite, inconcludenti, inopportune, irrealizzabili, non desiderate dalla stragrande maggioranza dei cittadini e quindi politicamente suicide e consente di affrontare il problema dell’immigrazione con cognizione di causa.
Poche note al secondo dogma (il quarto per Moffa): gli immigrati sono una “risorsa per l’economia”.
In primo luogo non si capisce come questa asserzione possa stare in bocca a coloro che sostengono la decrescita. Come si può perorare la decrescita e poi volere l’entrata del maggior numero possibile di immigrati argomentando che contribuiscono alla crescita? La decrescita comporta o dovrebbe comportare, tra l’altro, una notevole diminuzione del terziario (dei mille “servizi” immaginari) e un aumento del settore primario, attraverso la tutela e la diffusione dell’autoproduzione, dei mercati locali, delle piccole cooperative, e così via. Dunque gli italiani dovrebbero tornare a svolgere maggiormente lavori di fatica.
Tuttavia, anche a prescindere dalla precedente osservazione, resta da accertare se l’entrata in italia di un gran numero di immigrati, che concorrono a formare il marxiano “esercito industriale di riserva”, il quale da che mondo e mondo ha sempre comportato una riduzione complessiva dei salari, debba essere favorita e a quale fine? Il fine, peraltro, non sarà quello di tutelare i cittadini salariati, che invece ne saranno necessariamente svantaggiati. Da parte mia penso che bisognerebbe impedire e limitare la delocalizzazione delle imprese italiane e, posto questo primo vincolo al capitale, bisognerebbe anche costringerlo ad alzare i salari per “le prestazioni che gli italiani non vogliono più fare”. Questo è fascismo? Io credevo, invece, che fosse socialismo e che il fascismo fosse “l’imperialismo proletario” (sic!) la costruzione dell’impero e delle colonie nonché le leggi razziste nei riguardi di cittadini italiani. Ma forse ho studiato un’altra storia.
In definitiva, il succo del ragionamento di Moffa mi convince e perciò passo sopra: ad una acredine nella quale non mi riconosco; alla superficialità di qualche passaggio dell’articolo, il quale tocca profili laterali che avrebbero richiesto una più compiuta analisi; alla semplificazione di attribuire a tutta la sinistra postmarxista un’idea che appartiene soltanto ad una parte (credo minoritaria per quanto rumorosa) di essa; e alla valutazione, che non condivido e che reputo esagerata, secondo la quale le posizioni sulla immigrazione sarebbero state la ragione “principale” del suicidio della sinistra.
Quanto al commento di Marco, osservo che il Manifesto prevede che “Muoviamo dall’assunto che l’uomo deve lavorare, col pensiero, con la parola o con il corpo, per l’autoproduzione oppure per la produzione generale e vogliamo che la Repubblica sia fondata sul lavoro: autonomo e subordinato”; che l’uomo che non lavora o vive di rendita – e noi siamo per colpire tutte le rendite – o gode di qualche privilegio (pensione della nonna e paghetta del genitore, cosa che non si verifica per gli immigrati) o è un magnaccia o delinque. Nei paesi ex comunisti quando la polizia trovava un ragazzo per strada che aveva terminato gli studi gli trovava un posto di lavoro che doveva assumere fin dal giorno seguente. Perciò lo Stato deve tener conto del rapporto tra il numero di immigrati e le necessità dell’occupazione. Naturalmente questo non importa che si debba prevedere che chi viene in italia deve avere già il lavoro (è una pretesa ridicola), né che i tempi dei permessi di soggiorno non possano essere prolungati, ricorrendo determinati presupposti e così via.
Concordo con Marco, invece, osservando che, così come provo grande simpatia per gli operai che in Francia hanno sequestrato i dirigenti delle imprese, allo stesso tempo proverei simpatia per braccianti italiani che, disposti ad accettare offerte di lavoro per salari più alti, prendano a bastonate dietro la schiena i braccianti, italiani o stranieri (ma ormai sono quasi tutti stranieri), che accettano di svolgere il lavoro per un misero stipendio, togliendo il posto ai primi.
Stefano D’Andrea
Analisi molto dettagliata e ricca, convincente nelle sue conclusioni.
Non posso ribattere se non partendo dalle premesse e scavando punto per punto: credo che uno stato sovrano – fintantoché accettiamo che esista – debba imporre il rispetto delle sue leggi a chi vive sul territorio di sua pertinenza, e ciò comprende e investe il lungo elenco di punti che affrontano i beni costituzionalmente tutelati:
1) la fedina penale sporca di uno straniero che si presenta alle porte dell’Italia è sporca rispetto a un altro ordinamento giudiziario: sarà lo stato italiano (che deve ovviamente pretendere un documento d’identità dal visitante) ad attestare che la fedina penale sia pulita e in caso contrario a giudicare se quell’individuo può entrare nel territorio nazionale e con quali tutele o deroghe; naturalmente dovrà farlo in tempi rapidissimi, pretendendo la collaborazione del Paese di provenienza dell’immigrato. Di solito e per una certa parte del concerto dei Paesi del mondo basta a questo fine un passaporto; è vero anche che non ci si può fidare delle motivazioni che stanno dietro a un passaporto rilasciato in Mozambico o di un passaporto negato a Cuba. Il problema è allora come comportarsi in questi casi limite, avendo presente però che se le nostre frontiere e non solo le nostre abbondano di casi limite le ragioni sono parecchie e alcune dipendono da noi (come ci comporteremo con i profughi georgiani quando l’Eni avrà perfezionato i suoi contratti di estrazione in Kazakhstan e Azerbaijan e la guerra in Georgia sarà ricominciata?)
Credo che un Cpt non sia una soluzione accettabile; un regime temporaneo di libertà vigilata mi sembra la cosa migliore. E pure la più semplice. Quindi dico che l’esito di 15 anni di leggi imbecilli (turco-Napolitano + Bossi-Fini) è un esito un po’ fascista, anche se magari non lo erano le intenzioni, e anche un po’ razzista perché è servito a destra e sinistra per articolare le loro posizioni rispetto al razzismo latente che alligna nella nostra società
2) Se lo Stato ignora dove identità e presenza di un individuo su un territorio, la responsabilità di queste manchevolezze non può essere dell’individuo, restrizioni a parte (vedi sopra: libertà vigilata provvisoria); lo stesso per gli altri rischi connessi. Il garantismo, poi, dovrebbe essere alla base del ragionamento: in molti Paesi da cui provengono immigrati in Italia anche l’opinione è un reato, se non allineata, perciò occhio che le fedine penali non sono una pietra angolare.
3) I vaccini sono obbligatori? Vengano fatti alla frontiera a chi entra, allora.
4) Il problema demografico è mondiale, chiudere la porta in faccia a chi ha fame non è una soluzione.
5) Dove sta scritto che gli immigrati non pagheranno le tasse per anni e anni?
Representation with taxation, è l’unica soluzione: vivi qui e paghi la tasse qui? Allora puoi avere i servizi, altrimenti nisba. La cittadinanza è una bufala, un provvedimento poliziesco. Quanto agli immigrati che effettivamente per anni non pagano le tasse (perché non inseriti nel mondo del lavoro), diciamo che è un “non le pagano ancora” perché le pagheranno sul reddito, come tutti, e sulle rendite eventuali, se hanno soldi da investire. Sono assimilabili ai non produttori di reddito, come per es. tutti i nostri studenti universitari che sono sfuggiti alla patria potestà perché hanno superati i 18 anni d’età. Se invece non pagano tasse perché lavorano in nero, beh, credo che in Italia i cattivi maestri non manchino, ad ogni modo saranno amministrativamente perseguibili come tutti i cittadini italiani. Ricordo a tutti che ora come ora l’Italia è un Paese dove evadere il fisco non è reato penale, e scrivere sui muri invece sì.
6) La tendenza a delinquere degli immigrati irregolari è sopra la media per ovvie ragioni: vivono in clandestinità, e la clandestinità è una spirale, oltre che una tana.
Dopodiché la responsabilità (anche penale) E’ e DEVE SEMPRE ESSERE DEL SINGOLO: le statistiche a posteriori non valgono niente per chi è arrivato ieri, e non possono costituire per lui un vincolo o un pregiudizio nei suoi confronti. La responsabilità condivisa è invece uno dei pilastri del razzismo; in base alla generalizzazione che esonda dall’articolo di Moffa, non vedo perché dovrei stare a distinguere siciliani non mafiosi da quelli mafiosi, o veneti sobri da veneti ‘mbriai, così come non dovrei distinguere marocchini non spacciatori da marocchini spacciatori.
7) Il salario minimo è al giorno d’oggi frutto di (continue) contrattazioni sindacali a livello nazionale; io propendo per l’estensione di contrattazioni sindacali a ogni forma di lavoro, e che i lavori e i datori di lavoro e i lavoratori che ne sono fuori siano perseguiti.
8) Curiosa la grafia On Cong? Donde viene?
In conclusione, se si vuole essere fermi bisogna chiarirsi su un po’ di punti, prima dell’emergenza, se di emergenza si tratta.
E bisogna essere fermi e inattaccabili: l’Italia è tra i paesi meno efficienti nella gestione del fenomeno, e non solo perché promulga leggi che evidentemente non funzionano; i censimenti degli immigrati, l’esame delle domande di asilo politico e ultimamente anche i rinnovi dei permessi di soggiorno sono STRUMENTALMENTE molto lenti, e lasciati all’arbitrio delle forze di polizia.
I numeri 2008 parlano di 47mila domande d’asilo esaminate, rispetto alle 582mila (!) della Germania, 292mila della Francia, 160mila della Gran Bretagna, 77mila della Svezia e dell’Olanda, la cui popolazione complessiva è inferiore a quella di Piemonte Lombardia e Veneto sommati e il cui numero di funzionari di polizia è proporzionalmente in linea con quello italico tutto.
Inoltre l’Italia non è tra i primi Paesi per numero complessivo di immigrati (Germania, Francia, Inghilterra ne hanno ben di più).
Per quanto mi riguarda, il fenomeno immigrazione è uno dei punti più dolenti del panorama, è uno dei primi punti a cui va il mio pensiero quando mi vergogno della mia nazionalità. Ammettiamolo, questo è un Paese di m.
ciao a tutti