La finanza come contro-religione
di GIAMPIERO MARANO (RI Varese)
Aldo Nove ha pubblicato quest’anno per le Edizioni dell’Asino (85 pp., 10 euro) un libello dal titolo dantesco (e sanguinetiano) di Malebolge, nel quale sono raccolti una settantina di brevi articoli, o “microrubriche”, apparsi sul quotidiano “Avvenire” nel 2020.
La scelta del titolo ci viene spiegata dall’autore stesso nell’introduzione: “L’unico cerchio della Divina Commedia ad avere un nome è l’ottavo. Quello, appunto, delle “Malebolge” (…) Vi ci sono costretti ruffiani, lusingatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordie, falsari. Ossia chi vive tradendo chi non se l’aspetta. Parrà dunque evidente che, a XXI secolo avanzato, tale cerchio, rispetto ai tempi di Dante, è in crisi di sovraffollamento (…) Nelle modernissime tribù di subumani benestanti e di umani sfruttati da secoli, il Verbo marcio del profitto impone la fraudolenza. La pubblicità è fraudolenza. Un agguerrito e sempre più accentratore libero mercato è fraudolenza. La competitività come valore principale è fraudolenza. L’allucinazione di Stato è fraudolenza”.
La creatura che nella Commedia rappresenta allegoricamente la frode è Gerione, un essere mostruoso con il volto di uomo giusto, il corpo di serpente, la coda di scorpione, le branchie villose, il dorso, il petto e l’addome dipinti: “Ecco la fiera con la coda aguzza, / che passa i monti e rompe i muri e l’armi! / Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!”, esclama Virgilio presentandolo a Dante.
E, in effetti, sono proprio la frode e la contraffazione parodistica a costituire per Nove la cifra della nostra epoca, paragonabile a “un sofisticato casinò dove tutto è truccato” – proprio tutto, a cominciare da un benessere completamente “immaginifico”. L’origine dell’inganno va ricercata nella “religione rovesciata (…) via via sempre più spietata e invisibile” che è diventata la finanza: “La finanza è quantità pura. La religione dell’Anticristo”.
Nove è uno dei pochi scrittori contemporanei che, sfidando un’omertà diffusa, abbia osato denunciare la svolta autoritaria e securitaria messa in atto dalle oligarchie capitaste con il pretesto fraudolento della pandemia. Da meditare le considerazioni sull’ossessione immunitaria dei nostri giorni: “il paradosso della sicurezza onnipresente, quasi a sfidare l’invalicabile imprevedibilità della vita, può diventare un’ossessione peggiore del male che dovrebbe prevenire”. Di qui la netta condanna dell’idea secondo cui “la salute valga più della volitività del corpo che attraverso di essa esprime la sua anima” e la critica del confinamento sanitario: ”Allontanare, isolare non è mai proteggere e, ancor di più, non è salvare”.
Lo stravolgimento della realtà, messo in atto soprattutto attraverso la digitalizzazione, ha colpito in particolare la dimensione del tempo, compresso in un grigio eterno presente mondiale privo di qualsiasi punto di fuga: “nell’assenza di ogni teleologia, resta accampato il mondo globale”, quest’ultimo definito anche (nel sonetto proemiale) come l’”Impero / della banalità assassina”.
Il tempo atomistico e disperante proprio del “fascismo globale” (a cui è intitolato il secondo sonetto, epilogo del libro) si pone come parodia di quella sempiternità (e cioè, chiarisce Nove, di “un eterno umilmente e maestosamente attuale”) alla quale, in ultima analisi, hanno sempre mirato tutte le religioni e qualsiasi cammino spirituale: ”La Fede ci concede di ‘fermare questo mondo’ e non di scenderne, ma di dettarci attraverso la liturgia un’alternativa di verticalità interiore e comunitaria, ricucendo eterno e quotidiano”.
Questa ricucitura sembrava ancora in qualche misura possibile quando l’autore era bambino nel suo borgo natale sulle Prealpi lombarde: ”Nel sole bruciante delle estati alla fine della messa tutti si riunivano, si amavano più di prima. Quanto mi manca quel tempo”. Qui, ovviamente, l’indicazione cronologica e anagrafica non ha nulla di banale e nostalgico ma va piuttosto recepita nell’accezione non letterale: come ogni vero poeta, Nove parla per enigmi e allegorie che chiamano il lettore a sondare oltre le apparenze la realtà essenziale delle cose.
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