Luciano Canfora: Pericle e lo stato sociale ateniese
Il brano che segue è tratto dalla recensione (uscita sul “Corriere della Sera” il 12 gennaio scorso) al libro di Massimiliano Papini Fidia. L’uomo che scolpì gli dei (ed. Laterza)
Che lo «Stato sociale» sia un peso lo pensano soprattutto coloro che non hanno problemi economici. Essi predicano, con calore e convinzione, la virtù. Va da sé che lo Stato sociale è costoso. E infatti coloro che se la passano bene temono sempre che, in un modo o nell’altro, il peso di esso ricada sulle loro spalle. Di qui la loro costante esortazione all’altrui virtù e l’ostilità che essi sempre manifestano verso i politici che dallo Stato sociale traggono forza e consenso.
L’archetipo occidentale dello Stato sociale fu l’Atene di Pericle, fatte salve beninteso le differenti misure e proporzioni. Roosevelt, figura-simbolo dello Stato sociale nella prima metà del Novecento, non ne ebbe forse sentore, ma subì, per molti aspetti, contraccolpi e ottenne successi analoghi rispetto a quelli che toccarono all’aristocratico ateniese alla metà del V secolo a. C. L’ostilità di cui Pericle fu bersaglio ci è nota soprattutto grazie alla Vita di lui scritta da Plutarco sulla base di buone fonti che colmano egregiamente la distanza tra Pericle e l’età di Nerva e Traiano (in cui Plutarco visse e scrisse le Vite parallele).
La massa di informazioni allarmanti su Pericle che Plutarco riesce a mettere insieme — le insinuazioni sulla sua vita privata, i processi contro i suoi migliori collaboratori e in primis contro Fidia, vero cervello della sua politica urbanistica e di lavori pubblici, gli attacchi velenosi dei comici etc. — non deve portarci fuori strada. Sul piano della comprensione storica, il fatto principale è che Pericle è riuscito a farsi rieleggere stratego per decenni e decenni consecutivamente. Ciò significa che affrontava ogni anno la campagna elettorale e ogni anno la vinceva. Il che non era certo fatica da poco con un elettorato così politicizzato e volubile. Non si riflette a sufficienza sulle implicazioni concrete di questo fatto macroscopico. Dunque il consenso (fino all’incauta decisione di entrare in guerra nel 431 a.C.) non gli è mai mancato. (Anche lui, come Roosevelt, ha dovuto faticare per convincere i concittadini della necessità di entrare in quella guerra, ma è morto troppo presto per poter vedere gli effetti di tale scelta).
Come si consolidava un tale ininterrotto consenso? La grande politica di lavori pubblici gli consentiva di assicurare lavoro e salario a molti. Né mancava, nel meccanismo della «democrazia» ateniese il modo di far gravare, al tempo stesso, il peso di tante spese per la città (feste, teatro, arsenali, navi: le cosiddette «liturgie») sui ricchi. Scrisse nei primi anni di Weimar un notevole storico berlinese, allora comunista, Arthur Rosenberg, che i ricchi erano, all’interno del «sistema Atene», la «mucca da spremere». Non espropriare, dunque, ma costringere la ricchezza (la quale di solito, diceva Benjamin Constant, «si nasconde e fugge» e perciò è «più forte del governo») a farsi piegare per usi sociali.
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