L'Italia è finita?
«Mi pare che la traduzione di questo libro arrivi nel momento opportuno per capirlo, quando l'Italia, partecipando allo sforzo di molte nazioni desiderose giustamente di non diventar asiatiche per forza della Russia, si unisce ad esse per fondersi in un'Europa, capace di resisterle. L'Italia fa benissimo […]. Ciò vuol dir riconoscere che il suo tentativo di formare uno Stato nazionale è fallito. L'Italia sarà forse una provincia dell'Impero europeo. Il Risorgimento arrivò troppo tardi, come troppo tardi l'Italia riuscì a diventare un paese coloniale, quando il tempo della colonie stava per tramontare. Fondendosi in un'Europa, che non graverà la mano sull'Italia, come farebbe la Santa Russia, essa si salverà, rinunzierà a competere con le altre nazioni e ad acquistare quel primato che speravano Mazzini e Cavour, De Sanctis e Garibaldi, Crispi e Oriani; per non parlare del padre del Risorgimento, Gioberti. Sarà sempre il giardino di Europa e il paese preferito per il viaggio di nozze degli Europei. Spupillerà i lords inglesi, come Boswell, e aprirà gli occhi ai giovani tedeschi, come Goethe; ma non detterà leggi ai vicini. Se l'Europa sarà fatta» (G. Prezzolini, L'Italia finisce, ecco quel resta, Rusconi Libri, 1994 Milano, p. 9)
Oggi che l'Europa è fatta, o comunque sperimentiamo con mano i concreti effetti di ciò che è stato fatto fino a qui, le parole sopra riportate suonano come profetiche; furono scritte da Giuseppe Prezzolini nel lontano 1958 nella prefazione alla prima edizione italiana della traduzione del libro da lui concepito e pubblicato in inglese, dieci anni prima, nel 1948, durante il periodo in cui fu "esule volontario" (come egli stesso si definì) negli Stati Uniti.
Ho ripreso in mano il saggio di Prezzolini per due ragioni. In primo luogo, per il suo valore intrinseco e la sua capacità di analisi indubitabile, per la sua freschezza nel descrivere e analizzare alcuni elementi essenziali della storia italiana, dello spirito italiano, e soprattutto del nostro "carattere nazionale", da intendersi come l'insieme dei nostri pregi e difetti, del genio del nostro popolo come delle sue manchevolezze; che si condividano o meno le sue tesi, il libro merita la lettura, la capacità di osservazione di Prezzolini, infatti, è magistrale.
Certo, i giudizi che esprime non sono separabili del tutto dal personaggio, dalla sua figura di intellettuale sempre contro corrente, di bastian contrario, profondamente scettico e ironico, pessimista, caustico nel vagliare le debolezze degli Italiani, indomito nell'avversare tutto ciò che è paludato o accademico, instancabile nel dissodare luoghi comuni. Per queste caratteristiche di intransigenza, per il suo carattere difficile, a tratti brusco, oltre che per la posizione politica di "anarchico conservatore" – come egli si definì – è stato spesso e sovente emarginato ingiustamente dalla cultura ufficiale, soprattutto nella seconda metà del '900. Chi legge il testo, tuttavia, non può non rimanere colpito da quanto le sue critiche severe rivolte agli Italiani siano ancora valide oggi a tanti anni di distanza, come, per certi aspetti, siamo poco cambiati da allora. Per fare solo qualche esempio: Prezzolini rileva la nostra litigiosità, il nostro preferire di essere governati da uno straniero piuttosto che da un altro italiano, il nostro scarso senso civico, il servilismo e l'arrivismo di molti nostri intellettuali e uomini politici, la vena retorica che ci porta alla pessima abitudine di scambiare le cose dette per cose fatte, e così via. L'analisi è sempre profonda, mai superficiale; lo sforzo di Prezzolini è teso a dare a questi elementi una spiegazione storica. Altra cosa da tenere in considerazione per inquadrare bene il saggio è il contesto in cui nasce: è stato scritto appena dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale e la prefazione viene stilata in piena Guerra Fredda; un mondo nuovo si affacciava all'orizzonte di Prezzolini, un mondo affatto diverso da quello che aveva conosciuto nella sua precedente fervente attività intellettuale sempre svolta in primo piano: è inevitabile perciò che alcune sue analisi appaiano, oggi che una nuova epoca si sta dipanando, datate e legate all'incertezza di quel periodo.
La seconda e ancor più importante ragione che mi ha spinto a leggere questo saggio, per quanto a prima vista, paradossalmente, estrinseca e secondaria, è il titolo della traduzione in italiano: L'Italia finisce, ecco quel che resta (quello in inglese, meno intrigante per il mio discorso, ma egualmente esplicativo del contenuto dell'opera recita invece: The Legacy of Italy, vale a dire L'eredità dell'Italia).
Insomma Prezzolini agli albori della nascita dell'Europa, quando venivano gettati i semi per ciò che oggi dà i suoi primi frutti, con estrema lucidità, data forse dal suo distacco e dalla sua conoscenza approfondita della storia del nostro paese, vedeva come ciò comportasse per l'Italia, lo Stato unitario nato con il Risorgimento, l'inizio della fine. Aggiungiamo subito che Prezzolini constatava la fine dello Stato italiano senza troppo rammarico, per le ragioni che fra poco analizzeremo. Non si deve credere con ciò che egli ne fosse contento, ma semplicemente registrava l'andamento delle cose, oggettivamente, le esponeva come un inesorabile procedere. Secondo il suo modo di vedere, di fronte al nuovo equilibrio di poteri a livello mondiale, una politica nazionale aveva poco senso. Come detto, forse questa "oggettività" può essere messa in dubbio, può essere discussa, può essere considerata come un portato dell'epoca e del personaggio.
Per tornare all'oggi chiedo: possiamo aggiornare l'affermazione di Prezzolini dicendo con amarezza che l'Italia è finita? Apparentemente sì ed è finita male: affatto serva rispetto alle direttive dell'Unione Europea in campo di economia, di politiche sociali, sembra continuare nella spirale di accettazione della totale eteronomia che la conduce a decisioni che vanno contro il suo interesse, a strategie che potremmo definire suicidarie, sia in politica interna che in politica estera. Provincia di un Impero dominato da pochi soggetti non democraticamente eletti, quelle élite economico-finanziarie che hanno come unico fine l'interesse del grande capitale transnazionale e globale, l'Italia si dibatte in una crisi mai vista prima, crisi che prima di essere economica è crisi di identità.
Sebbene non sia questo il luogo in cui approfondire il pensiero di Prezzolini, reputo importante riportare le sue tesi principali. Semplificando molto, posso sintetizzare così la sua posizione: secondo Prezzolini ciò che ha fatto e fa ancora grande il nostro popolo, nonostante tutto, ciò che distingue l'Italia dal resto del mondo, non sono le istituzioni politiche nate con il Risorgimento, non è il suo Stato nazionale, bensì la sua capacità creativa nel campo dell'arte e del saper vivere; non sono stati gli uomini politici a fare l'Italia, ma i poeti, i navigatori, gli scultori, gli artisti, gli avventurieri, che hanno invaso il mondo dando prova della loro intraprendenza, della loro genialità. Ecco perché sottolinea più volte che gli Italiani non sono Romani: il mito della discendenza spirituale dai Romani e dell'eredità della loro potenza, che si concretizzò con capacità di conquista, di dettar legge, di amministrare, mito nato con l'Umanesimo, in auge durante il Risorgimento e ancora di più ideologicamente rimarcato durante il Fascismo, viene qui totalmente smascherato, sfatato: gli Italiani non sono discendenza diretta dai Romani, ma un popolo nuovo. Il culto di Roma nasce come retorica consolazione di fronte alle sconfitte e alle lotte intestine e non ha alcun fondamento.
Secondo l'avviso di Prezzolini, inoltre, le uniche creazioni politiche originali italiane sono il Comune e la Signoria e pertanto le istituzioni liberali e moderne non sono nate spontaneamente in Italia, non sono autoctone, ma sono state importate. «Le uniche istituzioni politiche originali corrispondenti al carattere e alle tradizioni italiane furono quelle del Comune e della Signoria, o del Papato. Tutti sanno che la Signoria fu tirannica, ma pochi ricordano che il Comune fu oligarchico, cioè di pochi. E nulla di più italiano del Comune! Esso è l'antitesi del Risorgimento. Questo dovette combattere lo spirito "municipale" ed ebbe le sue origini nel pensiero d'Inglesi, Francesi, Americani, e nelle loro istituzioni; salvo che in quelle italiane» (p. 10).
La civiltà italiana secondo Prezzolini non ha carattere nazionale, ma universale, infatti «l'Umanesimo rispecchiò la grande capacità per gli Italiani, fatale per l'Italia, di scoperte e di creazioni di modelli artistici e di verità di conoscenza umana che hanno fatto dell'Italia la seconda patria, cioè la super-patria delle nazioni educate nella tradizione greco-latina (…) Patria di tutti, non poté nel passato l'Italia, e non può oggi, esser la patria degli Italiani» (p. 12).
Per concludere riporto una frase che ha il pregio di riassumere il pensiero di Prezzolini:
«l'Italia del Risorgimento, la parentesi unitaria di questo disunito paese, appare finita. Ma l'Italia universale – quella che importa di più – contina ad occupar e preoccupar le nostre menti per opera dei singoli individui italiani, sempre mirabili nel cavarsi d'imbarazzo e nel corregger le situazioni penose e gravose nelle quali i loro capitani li conducono» (p. 13).
Sebbene consideri stimolante nella sua provocazione la concezione di Prezzolini, non posso condividerla fino in fondo; di fatto in parte è smentita dallo sviluppo successivo del nostro paese nel Dopoguerra, caratterizzato da progressi economici e civili anche favoriti dai principi fissati nella nostra Costituzione. Prezzolini non prende in cosiderazione questi aspetti essenziali che hanno portato la nostra democrazia a una condizione di relativo benessere, di progresso e di tutela di molti diritti importanti. C'è da aggiungere che il discorso può anche essere ribaltato: di fronte alla fine (o presunta tale) dello Stato nazionale unitario rivolgere lo sguardo al passato e ricercare l'autentico spirito italiano in valori universali, che hanno raggiunto la massima espressione in un passato ormai remoto, non è forse un voler mascherare i problemi del presente o voler ricercare facili consolazioni?
Questo è un po' il limite del saggio, che tuttavia rimane valido principalmente per due motivi.
Innanzitutto, possiamo leggere le parole di Prezzolini come monito e in questo senso a contrario rispetto allo spirito in cui furono scritte: se gli Italiani non agiranno e non si mobiliteranno in massa per riascquisire la sovranità della loro nazione, depotenziata dai trattati europei, allora l'Italia potrà dire addio alla propria autonomia, allora l'Italia sarà davvero finita, apparterrà al passato. In questo senso meglio la lezione che deriva dal pessimismo di Prezzolini, che sa guardare in faccia alla realtà, rispetto all'illusione di chi crede o mostra di credere e ci fa credere di essere autonomo, mentre come un burattino viene manovrato dall'alto, si fa dettare la linea da Bruxelles; meglio senz'altro il realismo disincantato alla ipocrisia e alla furbizia di chi sa e dissimula.
Non concordo con Prezzolini nel pensare che non esistano alternative a questa situazione, non penso che ci si debba rassegnare. Il fatto che le cose siano andate in questo modo fino a qui, non ci deve indurre ad arrenderci: non si tratta di fenomeni naturali, indipendenti dalla volontà, ma di precise scelte a cui si possono opporre altre scelte, altre politiche e un altro pensiero. Un altro modo di governare l'economia, di condurre la politica interna e estera, è possibile e si deve lottare per renderlo attuale.
In secondo luogo, le pagine di Prezzolini sono istruttive per l'afflato che le percorre: la ricerca di ciò che è autenticamente italiano. Leggerle ci fa sentire orgogliosi di noi, della nostra storia, delle nostre tradizioni, ci fa ripercorrere e ammirare le biografie e le opere degli Italiani che hanno lasciato duraturi segni della loro grandezza, chi nel campo della scienza, chi della filosofia, chi della religione, chi dell'arte, chi della politica. La riconquista della sovranità non può prescindere dalla ricerca individuale e collettiva della nostra identità. L'identità non è mai data a priori, non è acquisita una volta per tutte. È sempre fragile e da ricreare.
L'Italia dunque non è finita, deve risollevarsi come nel Dopoguerra, costruire una alternativa al pensiero unico dominante, riedificare a partire dalle macerie spirituali, culturari, politiche, economiche del presente.
Da quanto leggo, l'analisi di Prezzolini non costituisce un' utile, costruttiva critica dei difetti del popolo italiano, allo scopo di spingerlo a correggerli; e' il risultato di un pessimismo totale, anzi di un nichilismo (in senso politico), che puo' portare solo a autodisprezzo e rassegnazione. E non serve il solito panegirico dei singoli Italiani geniali e famosi (tra l'altro ormai molto rari). In un sito come questo dovrebbe interessare la capacita' di costituire un'entita' politica e nazionale funzionante; quindi il pensiero di Prezzolini non e' utile, se non per quanto riguarda la previsione che l'Italia nella UE diventera' solo una provincia. Il fatto poi che abbia scritto il suo libro in America e in Inglese e' una chiara dimostrazione di una sua sudditanza, almeno psicologica, all'imperialismo anglosassone.
Durga,non condivido. Come ammetti tu la la previsione sull'Europa è straordinaria. In chi la trovi una previsione così perfetta? Poi di Italiano nell'articolo c'è Prezzolini stesso (chi lo conosce oggi?), al quale si deve una lucida, onesta, coraggiosa interpretazione del fascismo (nel 1920 predisse a Gobetti che il fascismo sarebbe durato 25 anni), contenuta nel manifesto dei conservatori. E poi c'è il commento di Daniele, che evidenzia come dopo la scrittura di quel saggio le cose non andarono poi così male, salvo l'indipendenza perduta, fino a quando il progetto europeo non accelerò, approfittando della caduta dell'URSS (caduta che secondo logica doveva costituire la fine delprogetto). Immeritata anche l'accusa sull'uso della lingua,sia perché,se ben ricordo, Prezzolini visse a lungo all'estero già durante il fascismo, sia perché fu oltremodo nazionale (e forse anche nazionalista), oltre che "conservatore".
La storia d'Italia non si taglia a fette, la si ricostruisce a poco a poco e si trae ricchezza da tutto il meglio che vi si trova.
Aggiungo che la citazione si conclude così "Se l'Europa sarà fatta" e ci indica quindi la strada, che è quella di distruggere la UE.
Mi permetto umilmente di aggiungere che la guerra di indipendenza prossima ventura che l'Italia, ed il Popolo Italiano tutto, dovrà affrontare per affrancarsi dall'occupazione europea e soprattutto dalla sua ideologia sterminazionista, rappresenta l'occasione che per secoli è mancata alla nostra nazione di impegnarsi definitivamente in una lotta che le consenta di conquistare la libertà con le proprie forze, di maturare sia da un punto di vista storico-politico che civico-sociologico, ed affermare imperituro il proprio diritto ad esistere sia come Nazione (millenaria) che come entità statale.
Viva l'Italia.
"Fondendosi in un'Europa, che non graverà la mano sull'Italia, come farebbe la Santa Russia, essa si salverà,..". Questa frase mi lascia perplesso, ma devo tener conto che Prezzolini la scriveva nel 1958, quando non poteva prevedere che tipo d'Europa sarebbe nata, o comunque anch'egli sognava un'Europa molto diversa da questa offertaci dall'Unione europea. Non possiamo immaginare cosa ne avrebbe pensato della UE, ma sicuramente, intellettuale realista e disincantato qual'era, non gli sarebbe sfuggito che questa Europa la mano sull'Italia la grava, eccome! e, a quel punto, non sarebbe stato tenero neanche con gli europei o europoidi. Forse avrebbe modificato parecchie sue opinioni anche sui suoi connazionali. Chissa! L'altra stranezza è l'accenno alla Santa Russia. Nel 1958 non esisteva più la santa russia, a meno che non si voglia considerare l'URSS un prodotto della religione comunista, e dunque "santo". In ogni caso non avrebbe gravato la mano sull'Italia, che in quegli anni si stava salvando alla grande, mentre in questi anni "europei" si sta dannando. Per il resto, Prezzolini è sempre stato un nazionalista.
"quando l'Italia, partecipando allo sforzo di molte nazioni desiderose giustamente di non diventar asiatiche per forza della Russia, si unisce ad esse per fondersi in un'Europa, capace di resisterle. L'Italia fa benissimo […]. Ciò vuol dir riconoscere che il suo tentativo di formare uno Stato nazionale è fallito"
Questo si può dire anche nei riguardi di Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia.
Poi nei riguardi del Inghilterra, che si unì negli 70 al EU è poi Spania è Portogallo nagli anni 80.
Ma in tutti questi paesi non esiste quel autolesionismo cronico che c'è in italia.
Il Popolo italiano (non solo quello meridionale) è sempre stato trattato dai suoi governanti o politici con un disprezzo che non ha uguali in europa, ricordiamo come furono trattati dai politici italiani i 300.000 prigionieri italiani dopo la disfatta di caporetto, i prigionieri italiani erano gli unici che non ricevevano paccetti alimentari dalla patria, per la campania altamente denigratoria del governo italiano nei loro confronti, tanti morirono di fame.
Poi c'è anche la storia del trattato italo-belga del carbone, io mi domando come si può umiliarsi fino a questo punto.