Materialismo storico e filosofia
I politici di sinistra sembrano riconoscere come imperativo categorico l’esecuzione di compiti storici. Alcuni critici hanno spiegato questo atteggiamento con l’influsso esercitato su Marx da Hegel, dal principio di questi secondo cui il reale è il razionale. Si tratta però di una spiegazione insostenibile: il culto della storia è una conseguenza del materialismo storico, propriamente del fatto che esso rifiuta il presente e vive nel futuro. Allo stesso modo, presumendo di aver divinato dove vada la storia, il politico di sinistra concepisce l’azione politica non come realizzazione nel presente dell’interesse generale, ma come eversione del presente a vantaggio del nuovo.
La necessità storica (il destino degli antichi) è il movimento per cui un cerchio di condizioni, raggiunta silenziosamente la sua completezza, diviene un’esistenza imprevista; questa imprevedibilità è l’essenza della necessità: la libertà la conosce solo a posteriori, e lo fa non perché possa modificarla, ovviamente, ma per acquisire consapevolezza della propria profondità. Invece il rifiuto del presente è anche rifiuto dell’imprevedibilità dal futuro, e immagine della storia come di un unico fiume in movimento, di cui si può aumentare la velocità suscitando l’azione rivoluzionaria delle masse o assecondando le iniziative dei poteri forti. L’onore del materialista storico consiste nell’accelerare il moto del fiume; egli dunque risponde non più alla politica, ossia al gioco delle libertà sostanziate o almeno ispirate da leggi universali, ma a un destino superiore alla stessa libertà; e l’etica gli appare come una velleità piccolo-borghese, irrilevante per colui che ha già conosciuto il destino e si è messo dalla sua parte; lo stato costituzionale, la forma per cui l’individuo in quanto tale è persona, gli appare come una sovrastruttura insincera, finalizzata a creare negli schiavi l’illusione della libertà che li rende più docili. Poiché il materialista storico agisce non politicamente, come libero rispetto ad altri liberi, ma storicamente, come strumento della necessità assoluta, il presente non ha diritto davanti a lui; così, nell’applicazione estrema di quest’ottica, Stalin poteva non solo privare i kulaki della proprietà della terra, ma sterminarli, privarli anche della proprietà del loro corpo. Così i comunisti italiani potevano tradire apertamente il loro fine politico, cioè la difesa degli interessi dei lavoratori all’interno dello stato italiano, per continuare a sentirsi al servizio del destino che con la globalizzazione aveva rivelato una nuova sua età.
Nella sua pretesa di conoscere la legge della storia così da poterne accelerare il corso, il materialista storico fa della stessa storia un ambito della natura, concepisce la libertà come un gioco illusorio della necessità, regredisce cioè al fatalismo. Questa pretesa e il conseguente naturalismo non sono hegeliani. Hegel ha ben chiara la distinzione tra ciò che semplicemente è e ciò che è giusto. In riferimento al diritto positivo, egli riconosce che tutte le leggi positive, anche le più disumane come quelle romane sui debitori, trovano una spiegazione nei contesti storici in cui sono diventate vigenti; ma la conoscenza di queste spiegazioni non ne costituisce in alcun modo la giustificazione; anzi, proprio il fatto che trovano una spiegazione soltanto nel loro contesto storico ne prova la caducità e dunque l’aberrazione etica: con la fine del contesto che le genera finisce anche la loro esistenza empirica; esse restano come relitto di un passato terribile che può suscitare forse un interesse storiografico, ma certo non più filosofico.
La distinzione tra il semplice essere e la sua legittimità etica è distinzione tra la storia e la filosofia: mentre la storia accerta e spiega il semplice essere, solo la filosofia può mostrarne la giustizia. La filosofia ha questo potere non perché usurpi prerogative teologiche (essa è la fine della teologia), ma perché il suo metodo consiste nell’esposizione della verità attraverso il dispiegamento sistematico della critica. La mentalità comune concepisce ogni cosa buona nel suo genere; il metodo hegeliano trova il difetto, ossia la contraddizione, proprio nel genere; in questo non fa che generalizzare la scoperta kantiana dell’antinomia delle idee cosmologiche. Hegel va però oltre: la contraddizione è l’annullarsi del genere; ma il genere annullato non è il vuoto bensì un nuovo genere in cui la contraddizione del primo è risolta: questo esito positivo della dialettica è la speculazione. Anche il nuovo genere è contraddittorio e dunque si annulla a sua volta. Questo annullamento non è però identico al primo: nega il secondo genere che è il negativo del primo, dunque RIpropone il primo. La circolarità che così si stabilisce è la verità in senso enfatico, come unità di essere e dover-essere. Per esempio, il torto nega la legge astratta, ma è un’esistenza contraddittoria, negativa: è la volontà che si realizza annullando la volontà; la sua esistenza sembra libera, assoluta, ma in effetti è uno scivolare nella pena – risveglia le Erinni; il contrappasso è dunque la verità dell’intero movimento: è un torto che cancella il torto, un’azione che nell’eliminare il suo negativo elimina anche la propria negatività e ripristina la giustizia. Mentre il materialismo storico si limita a concepire la storia come il procedere di un fiume verso un fine indeterminato, Hegel ha concepito la verità come ritorno dal procedere. È dunque erroneo pensare insieme ai marxisti che Hegel abbia sostenuto che la storia si sviluppi in base alla coscienza e alle sue idee, anziché in base all’essere cosciente, alla struttura materiale; la verità è invece che la storia non ha nessuno sviluppo organico immanente, ma nella storia e nonostante la sua casualità si sviluppa la libertà, in base all’autocritica immanente dell’idea.
Viceversa, il materialismo storico non è, né purtroppo vuole esserlo, una filosofia della storia, ossia esso non è valutativo. L’indicazione che la politica e la cultura non abbiano un’evoluzione propria, ma seguano quella dell’economia, gli preclude il diritto di poter discriminare la giustizia e la verità degli oggetti storici. Negare infatti alla politica e alla cultura l’evoluzione propria, fare dei progressi scientifici ed etici un semplice riflesso dei progressi del modo di produzione, oltre a trascurare che il modo di produzione si evolve anche in base alla tecnica, che progredisce solo se progredisce la scienza, che quindi è fondato da ciò che deve fondare, equivale ad affermare che la politica e la cultura non progrediscano per la critica, dunque in base al criterio di giustizia e di verità, ma perché si adeguano al contesto storico-materiale, ossia che non ci sia scienza, ma solo ideologia e che siamo tutti nell’oscurità. Allo stesso modo, se, come il termine «materialismo» suggerisce, la struttura economica è cieca natura, allora i passaggi da un modo di produzione all’altro non sono salti dalla necessità alla libertà, ma sono come lo svilupparsi di una nuove specie viventi a partire dalla selezione naturale, uno sviluppo indifferente alla volontà umana, perché vi si va da una forma animale a una diversa forma animale. Le successive ibridazioni del marxismo con il positivismo e addirittura con il naturalismo nietzschiano non sono dunque una degenerazione, ma è nella natura stessa della concezione di Marx rifiutare la distinzione tra verum e factum, tra filosofia e storia naturale. Come il neo-hegelismo crociano, anche il marxismo fa della storia l’unica scienza e solo per una fortunata incoerenza non considera i concetti scientifici come pseudo-concetti.
È paradossale che entrambe queste scuole che pretendono di avere in Hegel un punto di riferimento, abbiano trascurato che per Hegel la storia si identifica con la conoscenza solo empirica, che certo applica categorie al suo oggetto, ma non può arrivare a conoscenze universali, le uniche che abbiano dignità scientifica, le uniche che siano suscettibili di giustificazione filosofica. L’equivoco è nato dall’incapacità di staccarsi dal pregiudizio dell’immobilità delle essenze logiche: poiché sembra evidente che la logica segua il principio di identità, sia cioè tautologia, il moto del concetto non può essere logico, ma un debito della logica dall’empiria – questo sostenne Trendelenburg e a questo si sono attenuti tutti i critici di Hegel, che in questo modo sono arretrati anche rispetto a Kant. A Hegel è invece evidente il contrario: poiché la contraddizione è un dato logico ineludibile la logica stessa, prima della sua applicazione alla natura e allo spirito, non è identica, ma ha l’inquietudine propria dell’attività vitale. Dunque a prescindere dall’empiria storica, l’uomo supera la sua naturalità e si giustifica in virtù della sua anima logica: essa, e nulla di mistico, è la verità della storia, ma soltanto la sua verità, non la causa degli avvenimenti storici, tanto meno il fine cosciente degli attori storici. Dunque non esiste nessuna concezione idealista della storia che sia contrapposta a quella materialista; esiste una considerazione filosofica che nel gioco delle lotte di classe, delle guerre e delle paci scorge anche un progresso della libertà politica conseguente al suo carattere autocritico. Questo progresso, riscontrabile non dalla storiografia, ma solo dalla filosofia nella storiografia, è la sola giustificazione della storia, una giustificazione che non riguarda gli avvenimenti e che non risarcisce in alcun modo le sofferenze (è la storia stessa, nella sua maniera imperfetta e casuale, a farlo), ma soltanto consente a noi di non volgere via lo sguardo dalla storia, travolti dal senso di nausea.
Una nota frase di Togliatti, poi credo ripresa anche da Occhetto, al tempo della Bolognina, è: “Veniamo da lontano e andiamo lontano”! Una conferma dell’idea di fondo dell’articolo, secondo la quale “il culto della storia è una conseguenza del materialismo storico, propriamente del fatto che esso rifiuta il presente e vive nel futuro”.
Ho molto apprezzato l’articolo, che ho letto e riletto, a causa della mia poca attitudine con i concetti filosofici. Non ho note o appunti da fare, se non avanzare una ipotesi, con riguardo al rapporto con il passato. Se il materialista storico ha un rapporto assente con il presente, ha altresì un rapporto malato con il passato. Molti profili della vita associata non si prestano, almeno all’interno di una epoca che può durare secoli, a continui sviluppi di disciplina, nel senso che da una norma A si passa a una norma B e poi a una C e a una D, dove D è meglio di C, che è meglio di B, che è meglio di A. Né i casi in cui si torna indietro sono sempre errori della storia o parentesi o una “escrescenza”,come Croce definì il fascismo. Spesso, almeno all’interno di un’epoca, ossia di una fase storica che dura secoli, le possibilità di disciplina di una certa materia sono fondamentalmente due: A o B (dove B spesso è non A). Due sono i principi che si possono accogliere e le varianti riguardano i corollari. Con riguardo a questi numerosissimi casi, mi capita di affermare che il progresso sta indietro, che bisogna riaffermare il vecchio principio e che spesso il nuovo principio che contestiamo non è a sua volta che un ritorno indietro. Insomma oggi vige B e io voglio tornare ad A che vigeva prima di B; ma A aveva sostituito B; quindi l’avversario non ha fatto altro che reintrodurre il suo vecchio principio. Ebbene i residui materialisti storici hanno una ostinata e preconcetta avversione ad ammettere che possano esistere situazioni in cui si tratta fondamentalmente di scegliere tra due principi opposti, che spesso sono stati entrambi vigenti (una lotta tra due restauratori o reazionari!), perché sostengono che ci sarebbe sempre un terzo principio, definito ovviamente in modo vago a mo’ di credo religioso, e che è appunto “il futuro” e la liberazione assieme.
La citazione da Togliatti è del tutto pertinente a quello che intendevo dire e sono d’accordo con quello che osservi. Il materialismo storico nasce dal metodo hegeliano, ma se ne scosta profondamente: il metodo hegeliano è filosofico, ossia espone la verità come ordine eterno delle cose, ma dopo aver fatto propria la scoperta kantiana dell’antinomicità delle categorie, dunque dopo aver riconosciuto nell’ordine eterno un tipico movimento, quello 1) dell’estraniarsi da sé e 2) del ritornare in sé; il materialismo storico 1) accusa di misticismo questo doppio moto delle essenze logiche (è un’incomprensione che inizia da Feuerbach), 2) attribuisce il doppio moto ai modi di produzione storici. In questo modo 1) non può più però distinguere tra “verum” e “factum”, non può dire che la condizione di operaio dell’industria capitalistica è più giusta di quella dello schiavo, ma quella dello schiavo è meno giusta (anche se viene dopo) di quella del lavoratore delle civiltà fluviali pianificate; 2) deve dire che il “factum” è “verum”, ossia, come noti tu nel commento, che la storia ha lo stesso ritmo delle essenze logiche (di fatto la irrigidisce in uno schema aprioristico) e che ciò che in essa viene dopo è, per il FATTO stesso del suo seguire, più progredito di quello che viene prima. Di qui la superstizione del nuovo (il sogno) in cui si è perduta la sinistra.
Mi trovo abbastanza d’accordo tanto con l’autore dell’articolo, quanto con il commento postato immediatamente sotto da Stefano D’Andrea. Tuttavia, vorrei aggiungere al tema un problema di metodo. Lo storicismo è una forma di pensiero che legge il presente come forma storica e contingente della comprensione umana del mondo. Esso però, ammettendo che ogni visione del mondo ha una sua logica interna di valori e categorie, ammette anche insieme che lo storicismo, come forma di comprensione del mondo, è contingente e insufficiente a spiegare rigorosamente il passato (perché non le è costitutivamente interno). In questo senso, o la conoscenza storica pone le basi per il suo stesso superamento (un giorno le categorie della comprensione saranno non storiche) o pone se stesso come termine teleologico ultimo del cammino storico della comprensione umana. Nel secondo caso, restaurando un giudizio di valore separato dalle categorie della comprensione, distorce e si trova in contraddizione con il fondamento del suo stesso pensiero. Mi sembra perciò evidente che tale scuola di pensiero non possa interamente propendere per l’assolutizzazione del presente, perché esso è la forma storica in cui vige una specifica Weltanschaung (spero si scriva così).
Nascendo Popper ricevette il dono di conoscere la filosofia senza avere studiato i filosofi. Ne approfittò per applicare al pensiero di Marx e a quello di Hegel la qualifica di “storicismo”, trascurando che il termine era già stato occupato da Dilthey per indicare una concezione relativistica della conoscenza storica, con tutti gli annessi contraddittori che indicati con lucidità nel commento. A me sembra però che né Marx né il marxismo successivo (meno che mai Hegel, i cui interessi storici sono relativamente poco sviluppati) siano compatibili con lo storicismo in senso rigoroso al quale si riferisce il commento. Per quanto contenga qualche problema logico, la posizione di Marx è che della realtà sia possibile la conoscenza oggettiva, che anzi il materialismo storico costituisca la chiave definitiva di comprensione della storia, proprio come l’evoluzionismo lo è del mondo biologico e le altre scienze lo sono della natura.
la tesi della derivazione dello storicismo dal materialismo storico non è nuova. Più che una articolazione del pensiero marxiano, lo storicismo rispose alle esigenze dei partiti socialdemocratici ( e poi comunisti cioè staliniani) di posticipare a babbo morto una rivoluzione sociale che non era più di fatto nei loro programmi, diventata rivoluzione politica. bella novità.
Marx era così cosciente del filone di pensiero (borghese) Hobbes-Malthus-Darwin che scrisse a Engels: «È notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese. Mentre Hegel nella Fenomenologia raffigura la società borghese quale “regno animale dello spirito”, in Darwin il regno animale è raffigurato quale società borghese»
Forse sarà che sinistra e marx hanno poco a che fare?
Lungi dall’essere un’interpretazione del pensiero di Marx o Hegel, infatti, col termine “storicismo” in questo caso volevo porre le aporie di un pensiero dominante nell’occidente che ha fatto “scuola” a sinistra e ha sostenuto inseparabilità dei giudizi valutativi dalle categorie della comprensione teorica, e facendolo ha contribuito a creare quella fuga dal presente e una astratta fede nel futuro. Tuttavia, per evitare ciò, occorre anche guardarsi anche dai perversi meccanismi messianici dell’hegelismo esasperato, per i quali se la storia non è che lavoro dialettico della negazione, e l’uomo soggetto e oggetto di tale azione, l’esito (cioè la fine della storia) non può che essere la fine dell’uomo. L’uomo alla fine della storia sembrerebbe riconciliarsi con la sua natura animale, perché cessa il tempo dell’Azione dialettica. Ciò segna la scomparsa non solo di guerre e conflitti, ma anche della stessa filosofia nel tempo post-storico. Le categorie vere della comprensione saranno finalmente astoriche, dal momento della riconciliazione tra uomo e natura. Facile intuire come la fine della storia possa configurarsi come un eterno presente, non meno pericoloso, in cui il ritorno dell’uomo all’animalità possa apparire non come una possibilità futura, ma come una certezza già presente, attualizzata nel genere di vita “american way of life”, come teorizzato da Alexandre Kojeve.
Caro Rocco, so di contrastare una verità assodata dell’interpretazione hegeliana, ma, per quello che ho capito in 25 anni di studio intensivo dei testi, il problema della fine della storia, a differenza di quello della fine dell’arte, in Hegel non si presenta né può presentarsi; si tratta di una distorsione nata dal riflettere su Hegel il materialismo storico oppure le frustrazioni esistenzialiste. Per Hegel non c’è un progresso “della” storia, ma solo un progresso dell’autocoscienza “nella” storia. Le epoche attraverso cui l’autocoscienza arriva a conoscersi come libera sono epoche non della storia storiografica, ma della storia universale, cioè della storia filosofica. Mentre la storia storiografica si dibatte nei rovesciamenti dal casuale al necessario, l’autocoscienza, con la sua lentezza esasperante (lo spirito ha tutto il tempo a disposizione, dice Hegel), in forza della SUA negatività logica, dalla sostanzialità iniziale, tramite l’armonia greca e la scissione romana, perviene a una consapevolezza di sé a partire dal cristianesimo in avanti fino ai regni germanici. Hegel non presenta dunque una concezione della storia empirica; lo sviluppo dell’autocoscienza non spiega NIENTE di quello che accade, ma determina cosa ORA sia il RAZIONALE, il BENE. Che la storia filosofica abbia superato la scissione, non comporta alcun effetto sulla storia empirica, se non il fatto che ora all’interno dei gruppi umani si presenta la libertà dei singoli, mentre in precedenza il singolo era legato alla comunità come il membro della famiglia alla famiglia, che ora la schiavitù è un reato, mentre prima di Cristo (e, a riprova della casualità della storia empirica, anche parecchio dopo) un’istituzione legale. Dico di più: anche se la storia universale non fosse solo storia filosofica (cioè il determinarsi del bene, della razionalità) ma anche (come il materialismo storico) spiegazione della storia empirica, ciò non determinerebbe nessuna fine della storia. Il metodo filosofico è circolare, ritorna all’inizio; ma poiché l’inizio è ora risultato, questo risultato è l’inizio di un altro circolo; per esempio la dialettica di essere e nulla ha come risultato il divenire, ma il divenire non è la fine della logica, esso stesso ha la sua dialettica di nascere e perire il cui risultato è l’esserci, e così via. Hegel direbbe dunque che la nostra libertà, razionale, buona, rispetto a quella dispotismo orientale, a quella greca, a quella romana, scivolerebbe nei millenni futuri nella sua brava scissione che nei millenni futuri si ricomporrebbe nella sua brava conciliazione; siccome però non è un autore che si abbandoni al sentimento del sublime, lascia a noi il compito di capirlo.
L’ultima frase contiene un paio di refusi; va letta così: “Hegel direbbe dunque che la nostra libertà, razionale e buona rispetto a quella del dispotismo orientale, a quella greca, a quella romana, scivolerebbe nei millenni futuri nella sua brava scissione che nei millenni futuri si ricomporrebbe nella sua brava conciliazione; siccome però non è un autore che si abbandoni al sentimento del sublime, lascia a noi il compito di capirlo.”