La prossemica: l’inscindibile legame tra spazio e cultura
di DAVIDE VISIGALLI (ARS Liguria)
Continuo il discorso iniziato qui con il tempo e la sua percezione. In questo post vorrei dare delle brevi suggestioni sulla percezione dello spazio. Inoltre questo argomento lascia interessanti possibilità interpretative sul fenomeno dell’immigrazione e del suo controllo, cronaca di questi giorni.
La prossemica è la scienza che studia il significato dello spazio e la sua influenza sulle dinamiche comportamentali animali e umane. Nel suo classico, La Dimensione nascosta, il Professor Hall, antropologo, cerca di riassumere una vita di esperimenti e interviste riguardanti lo spazio e la distanza tra individui:
Voglio dimostrare come l’uomo sia condizionato dall’esperienza dello spazio praticamente in ogni suo tratto culturale e in ogni sua azione. Il senso dello spazio è una sintesi di molti apporti sensoriali: visivi, uditivi, cinestetici, olfattivi e termici. Ognuno di questi sensi, a sua volta, costituisce in realtà un sistema di comunicazioni assai complicato. Poichè ciascuno degli usi dei sensi è plasmato e modellato dalla cultura, dovremo accettare come un dato di fatto che le persone cresciute in culture diverse vivono anche in diversi mondi sensoriali. Di conseguenza, quando persone che provengono da diverse culture vengono a contatto, nell’interpretazione del comportamento altrui restano prigioniere dei propri modelli, e fraintendono facilmente, relazioni, attività ed emozioni. Questo conduce a rapporti di reciproca estraniazione, o, comunque, alla distorsione del significato delle comunicazioni.
Il modo di usare il tempo e lo spazio, e inoltre il tono della voce, la maniera di muovere gli occhi, di atteggiare la mimica delle mani e del corpo, sono così contrastanti, che spesso le due parti non riescono ad intendersi, non tanto o non sempre a causa del reciproco pregiudizio, ma proprio perché non riescono a “leggere” correttamente nel comportamento dell’altro.
Quindi, culture diverse sottendono modi di percepire lo spazio differenti e che inevitabilmente potrebbero scontrarsi. Inoltre, è praticamente impossibile liberarsi dei propri condizionamenti culturali, perché attraverso di essi interpretiamo il mondo che ci circonda:
L’uomo, per quanti artifici possa mettere in opera, non potrà mai sradicarsi dalla sua propria cultura originaria, perché essa è così profondamente penetrata nelle pieghe del suo sistema nervoso da determinare la sua percezione del mondo. Gran parte della cultura giace nascosta nell’inconscio, fuori dal controllo della volontà.
Da qui, l’idea che con la coercizione forzata tra culture sensoriali opposte, dovuta perlopiù a fenomeni immigratori, si arrivi prima o poi ad un’unica entità multiculturale è una distorsione evidente della realtà.
Un punto che voglio sottolineare è che, oggi, nella maggiori città degli Stati Uniti, non c’è compenetrazione, crogiolo (melting pot), tra le varie culture,anzi, i maggiori gruppi etnici conservano i loro tratti distintivi per generazioni.
Noi americani, badando più al contenuto che alla struttura o alla forma, siamo indotti a minimizzare l’importanza dell’ambiente culturale. Il risultato più grave di questo nostro abito mentale è stato il testardo rifiuto di riconoscere l’esistenza di culture differenti entro i confini degli Stati Uniti. A causa di un vero e proprio “pregiudizio a-culturale” noi americani crediamo addirittura che tutte le differenze fra i popoli che abitano il nostro pianeta siano soltanto superficiali. Così, trascurando di approfondire la conoscenza delle altre civiltà, non soltanto priviamo la nostra cultura di nuova linfa vitale ma, nelle relazioni internazionali, davanti a difficoltà impreviste, manchiamo spesso di prontezza di reazione e di duttilità: invece di prendere tempo per riconsiderare la questione, siamo inclini a moltiplicare gli sforzi nella stessa direzione, con conseguenze che possono rivelarsi insospettatamente gravi.
Quest’ultimo paragrafo mi sembra la perfetta descrizione delle dinamiche sociali che stanno avvenendo all’interno dell’Unione Europea.
Chi gioca il vero ruolo del razzista in questo contesto?
Non è razzista chi riconosce che i modelli culturali sono diversi: è razzista colui che, su queste diversità effettive, edifica una discriminazione, privilegia un modello culturale sugli altri, e tenta di ridurre il modello altrui al proprio, o di distruggere chi ne pratica uno diverso.
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