Per una fondazione filosofica del sovranismo: la figura di Costanzo Preve (1/5)
di SIMONE GARILLI (ARS Mantova)
In questo breve saggio tenterò di delineare una solida proposta filosofica a fondamento e sostegno della prospettiva sovranista, attraverso gli insegnamenti del filosofo torinese Costanzo Preve, scomparso nel novembre del 2013.
Per farlo, dividerò il saggio in cinque parti logicamente correlate.
Innanzitutto sarà utile rispondere ad una domanda inattuale: cos’è la filosofia?
Superato questo primo ostacolo, il più ostico, andrò ad illustrare il metodo filosofico di Costanzo Preve, messo a punto per riportare la filosofia alla sua funzione primaria: costruire una ontologia dell’essere sociale che permetta di conoscere e valutare in maniera unitaria la società attuale, al fine di trasformarla in senso comunitario.
Il terzo passaggio mi consentirà di transitare dal metodo al contenuto, e l’ontologia dell’essere sociale sarà applicata in estrema sintesi alla storia del pensiero occidentale, dai Greci ad oggi, perché non si può conoscere, valutare e trasformare davvero la nostra società senza ricostruirne la genesi millenaria.
Dopo aver messo sul tavolo i sistemi di pensiero occidentali, sarà possibile scegliere in un certo senso il migliore di essi. Detto con Preve, è auspicabile un “ritorno ai Greci” per superare vittoriosamente il sistema di pensiero relativistico e nichilistico prodotto dal capitalismo post-borghese e post-proletario.
In chiusura, una volta presa confidenza con la categoria principale dell’intera filosofia greca – il ‘metron’, o ‘giusto mezzo’ – sarà bene chiedersi a cosa corrisponde oggi, sul versante ideale e politico, questa categoria ad un tempo ontologica e strategica. La risposta può già essere anticipata: lo Stato nazionale sovrano.
PARTE PRIMA: Cos’è la filosofia?
Costanzo Preve risponde più volte a questa domanda nel corso del suo vero e proprio ‘testamento filosofico’, ultimato nel 2009 ma pubblicato solo nel 2013. Il libro – Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia[1] – farà da pietra angolare di questo saggio. La filosofia – o scienza filosofica, o pratica filosofica – è definita a partire da diverse prospettive.
Prima di tutto Preve, sulle orme di Hegel, stabilisce che la filosofia “ha un oggetto veritativo generale, che consiste proprio in ciò che è, ed è eternamente […] l’essere sociale “in generale”, ciò che contraddistingue lo specismo umano dallo specismo animale, e quindi il minimo comune denominatore di <<genere>> che unifica le storicità differenziate dei vari e distinti modi di produzione”[2].
Potremmo definire ontologico questo primo aspetto della filosofia, che si occupa in sostanza della ‘Natura Umana’ nelle sue determinazioni storiche e trans-storiche.
D’altra parte, però, è anche vero che “questo occuparsi di ciò che è, ed è eternamente , deve trovare la sua specifica determinazione in una società concreta, che è appunto il luogo ideale del presente storico in cui vive il filosofo”[3].
La prima e principale definizione divide quindi la filosofia in due elementi complementari: la permanenza ontologica (ciò che è, ed è eternamente) e la storicità determinata (il proprio tempo appreso nel pensiero).
Non potendo bastare questa definizione primaria, Preve approfondisce il contenuto della pratica filosofica in corso d’opera. Possiamo dedurne almeno altre tre utili specificazioni.
La filosofia, infatti, può essere definita anche come “sapere assoluto che lega insieme l’elemento della conoscenza e della valutazione, e quindi l’elemento della concettualizzazione di un oggetto di conoscenza […] e l’elemento della sua valutazione etico-morale […]”[4]. Nel caso di Marx, si tratta di conoscere il capitalismo attraverso la ricostruzione genetica della sua nascita e della sua riproduzione interna (‘struttura’ e ‘sovrastruttura’), e poi di valutarlo attraverso le categorie di ‘alienazione’ e ‘sfruttamento’.
Da questa prima specificazione ne discende una seconda, che vede nella filosofia “l’unione di due elementi inscindibili, il sistema delle conoscenze razionali e l’insieme di ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo”[5] o, detto in altro modo, “la filosofia come luogo di fusione fra il suo concetto scolastico ed il suo concetto mondano […] incompatibile con il suo sequestro elitario in apparati snobistico-elitari di supercolti (o presunti tali) con la puzza al naso e con la convinzione di essere migliori degli altri”[6].
Emerge a questo punto un rilievo pratico importante, che Preve sviluppa a più riprese: la filosofia come insieme unitario di conoscenza e valutazione è efficace solo se si traduce in processo comunitario. La riduzione della filosofia a dibattito colto e autoreferienzale non può servire il fine ontologico e sociale che ne rappresenta il motore primo.
Ciò detto, come declinare questo comunitarismo filosofico?
Preve riprende l’esempio storico del sokratikòs logos, sostenendo che Socrate “non era interessato a vincere sul campo la tenzone retorica , ma ad avviare un processo problematico-maieutico che coinvolgesse entrambi gli interlocutori per giungere ad una accettabile definizione concettuale comune”[7].
In questo senso Socrate non è un filosofo fra i tanti, ma l’inventore della pratica filosofica vera e propria, che esce dai primi circoli autoreferenziali e diventa modello di dialogo comunitario intorno alla ‘Verità’. È proprio intorno al concetto di ‘Verità’ e alla sua negazione moderna che si annidano i contrasti tra filosofi comunitari e non-filosofi elitari, tra filosofia greca classica e non-filosofia moderna.
Il dialogòs comunitario di Socrate, in effetti, rischia di rimanere una pura astrazione allorquando ci si trasferisca dalla teoria filosofica alla pratica sociale. Marx, su tutti, ha mostrato che tra il dialogo socratico e l’avvicinamento alla Verità condivisa c’è un ostacolo insormontabile: l’interesse di classe. In questo senso la filosofia è, nei termini di Kant, un campo di battaglia (Kampfplatz) e “non ha nulla del dialogo buonista e del chiacchericcio esibizionistico da caffè letterario”[8]. Ne deriva necessariamente che si può fare filosofia solo se si accetta la sfida politica concreta. La filosofia, oggi, non può che essere la messa in pratica conflittuale della conoscenza e della valutazione della società.
È utilissimo però comprendere perché nella pratica filosofica socratica e più in generale dei Greci, il conflitto di classe resti ai margini della riflessione. Non si può capire con una scorretta e anacronistica riduzione di Socrate a ingenuo idealista e di Marx a disincantato materialista, ma solo ricostruendo geneticamente il tessuto economico e sociale dei Greci (nel linguaggio marxiano la ‘struttura’). Per ragioni di spazio non lo farò qui, e mi limiterò alla conclusione di Preve, quando sostiene che “Socrate non viveva in una società individualistica liberale, per cui non ha senso retrodatargli il nostro atteggiamento […] ma viveva in una società politica. Vivere in una società e vivere in una comunità non è certamente la stessa cosa”[9].
Con questo Preve non vuole dire che nella Grecia classica fosse inesistente la libera individualità e che regnasse il comunismo dei beni, senza alcun differenziale di ricchezza e di potere. Per la precisione, Preve colloca la Grecia classica in una terza fase della storia umana, nella quale è già avvenuta quella ‘divisione antagonistica del lavoro sociale’ che ha prodotto ‘classi sociali antagonistiche’ e che ha subordinato ad una società classista quell’unità ontologica fra microcosmo sociale e macrocosmo naturale che caratterizzava il comunismo tribale originario.
I Greci conoscevano quindi il fenomeno dell’arricchimento privato e dello sfruttamento del lavoro. Si potrebbe anzi dire che lo conoscevano molto meglio di noi moderni, nella misura in cui sottoponevano questo arricchimento a critica filosofica e non lo giustificavano con una fantomatica ‘mano invisibile’ che produrrebbe utilità sociale grazie al libero sfogo delle pulsioni individuali.
“In conclusione: è bene partire dal fatto che la filosofia, nella forma socratica del logos portato nell’agorà, intendeva essere conoscitiva e veritativa […] Essa era quindi rivolta non tanto al convincimento in generale di individui, ma al convincimento comunitario […] per il semplice fatto che non si trattava di convincere qualcuno di questioni irrilevanti […] ma di che cosa sia il Bene, ossia il bene politico […] Negare alla filosofia greca classica la finalità (telos) del convincimento comunitario significa precludersi la comprensione del mondo antico”[10].
Il Bene, la Comunità, la Giustizia e, più in generale, la Verità. Sta in queste categorie ad un tempo ontologiche e sociali – e soprattutto nell’ultima – la chiave di lettura della filosofia e della società greca, come vedremo meglio nella quarta parte. Ciò che interessa qui, è notare che la Verità intesa nel senso di conoscenza comunitaria del Bene e della Giustizia fosse patrimonio dei Greci, mentre non lo è in nessun modo della società moderna atomizzata e non-comunitaria, nella quale la verità – dopo la ‘morte di Dio’ – risiede esclusivamente nelle teorie scientifiche e non si applica invece né alla morale individuale, né all’etica familiare né, infine, a quella politica.
Ecco perché, secondo Preve, ci troviamo in una parentesi storica di profonda crisi antropologica, ed è necessario ristabilire la scienza filosofica veritativa sulle ceneri non certo della scienza – in sé utilissima per la comunità – ma dello scientismo che delegittima le pretese ontologico-valutative della filosofia e la ridimensiona a ‘dibattito relativistico sui valori’ o a stampella epistemologica delle scienze naturali (da Popper in giù).
La proposta di Preve, in questo senso, è ritmata dal trittico Aristotele-Hegel-Marx. In particolare, da Hegel è bene portare con sé la pretesa veritativa della filosofia, come unione di ontologia e storicità determinata (lo ‘Spirito Assoluto’); di Marx è bene conservare la critica filosofica al modo di produzione capitalistico (‘alienazione’ e ‘sfruttamento’) e il suo metodo di deduzione storico-sociale delle categorie (attraverso la ‘struttura’ e la ‘sovrastruttura’); di Aristotele, invece, è bene valorizzare la categoria ontologica e normativa di ‘Natura Umana’[11], costruita a partire dalle due determinazioni aristoteliche: la prima afferma che l’uomo è un animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), mentre la seconda che l’uomo è dotato di ragione, di linguaggio e di capacità di calcolo delle proporzioni geometriche applicate al ben vivere sociale (zoon logon echon).
Qualsiasi progetto filosofico e politico di trasformazione sociale deve quindi mirare a ristabilire concretamente questo dettato ontologico (la natura umana comunitaria[12], appunto) arricchendolo con gli elementi che risultano da una seria e sistematica ontologia dell’essere sociale. È importante insistere sulla necessità di una ricostruzione globale della storia universale, sia dal punto di vista della Verità filosofica permanente (ontologia; natura umana), sia da quello della struttura e della sovrastruttura (storicità determinata; modi di produzione, ideologie).
Questo perché la legittimazione ideologica moderna si fonda sulla necessità storica del capitalismo e sulla fine della storia, con annessa accettazione disincantata di questo modo di produzione, che per definizione è invece storico e passeggero. La chiave del successo ideologico del capitalismo sta quindi nella ‘destoricizzazione’ e ‘desocializzazione’ del pensiero filosofico millenario (ridotto a “filastrocca di opinioni”, come diceva Hegel), e nella delegittimazione conseguente di ogni metafisica filosofica che tenti di storicizzare il capitalismo e valutarlo come unità concettuale a partire dalle categorie fondamentali di ‘Verità’ e ‘Natura Umana’[13].
Procederemo allora nella seconda parte alla definizione dell’ontologia dell’essere sociale di Costanzo Preve, per poi applicarla alla storia occidentale e da qui trarne alcune conclusioni sulla filosofia comunitaria dei Greci e sul ‘nostro tempo appreso nel pensiero’.
[1] Petite Plaisance, Pistoia, 2013.
[2] Ivi, p. 24.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 300.
[5] Ivi, p. 506.
[6] Ivi, p. 507.
[7] Ivi, p. 455.
[8] Ivi, p. 456.
[9] Ivi, p. 511.
[10] Ibidem.
[11] Emerge in questo modo, nell’interpretazione previana dello ‘spirito filosofico’ greco, una sostanziale sovrapposizione fra le categorie di ‘Verità’ e di ‘Natura Umana’, nel senso che il percorso (mai definitivo e sempre originale) verso la Verità è possibile solo a partire dalla convinzione “[…] dell’esistenza di un fondamento ontologico proprio dell’essere umano che è alla base dei suoi bisogni, della sua realizzazione e del senso stesso della sua esistenza” (Lorenzo Dorato, Verità, ontologia umana e capitalismo in Per un pensiero forte, Koinè, Gennaio-Dicembre 2012, Petite Plaisance, Pistoia, p. 8).
[12] “Prevalgono infatti spesso concezioni, talvolta esplicite ma ancora più spesso implicite, ispirate o a un relativismo storico e sociologico assoluto, che identificano la natura umana con la configurazione storica data dei rapporti sociali dominanti, oppure a un biologismo riduzionistico, per cui la cosiddetta “natura umana” è interamente ricavabile dalle conoscenze della biologia e della genetica” (Costanzo Preve, Individui liberati, comunità solidali. Sulla questione della società degli individui, CRT, Pistoia, 1998, p. 10).
[13] Ai tempi classici non sono succeduti soltanto ‘secoli bui’, come ama sostenere la ricostruzione ideologica moderna per legittimarsi, ma tradizioni filosofiche e culturali originali e (almeno in parte) positive, come lo stesso cristianesimo europeo.
Grazie a Simone Garilli per il contributo e lo stimolo verso la Conoscenza.
Spero siano in tanti a leggere e rimeditare.
Visto, ma ecco che mi devo già fermare, così come dovranno fare i più leggendo questo “appello al popolo” non si può prescindere dalla lettura almeno di “L’Ontologia sociale e l’etica comunitaria nel lascito filosofico di Costanzo Preve” di Roberto Donini e di ” Verità e relativismo: religione, scienza, filosofia e politica nell’epoca della globalizzazione” di Costanzo Preve! Ditelo :D
Bene così! Il sovranismo deve entrare in ogni campo dellq cultura e da ciascuno di questi deve trarre nuova forza e fondamento.
Verità è “adaequatio intellectus et rei”. Hegel tiene molto a questa definizione; egli la interpreta nel senso che l’intelletto e la cosa sono DAPPRIMA identici, con sacrificio della loro differenza, POI si differenziano, con sacrificio della loro identità, INFINE negano questa differenziazione e si adeguano nell’identità dell’identità e della differenza. Questa capacità di tenere insieme (identificare) ciò che si differenzia è la libertà, cioè “il minimo comune denominatore di <> che unifica le storicità differenziate dei vari e distinti modi di produzione”. Poiché l’ontologia è sì eterna, ma non immobile – è infatti la vicenda del differenziarsi e del negare la differenza, vicenda in cui consiste la libertà – la storia, e il proprio tempo, non è il disertato dall’ontologia, ma sotto la sua corteccia di casualità e di intempestività contiene un nucleo essenziale che il pensiero apprende. Inoltre, poiché l’ontologia non è immobile, ma si inabissa nella differenza e nella contraddizione prima di comporsi speculativamente nella verità, allora la realtà stessa opera su se stessa la propria critica; così la valutazione che la filosofia offre non ha nulla di moralistico, ma è la descrizione del conflitto con se stesso del reale, tramite cui il reale è come libertà. Questa libertà ha per Hegel la sua forma oggettiva nello stato. Marx contesta la capacità dello stato di tenere insieme l’identità (il momento comunitario) e la differenza (l’interesse classista); ma la sua critica porge il fianco all’accusa di messianismo (abbandono del presente e scivolamento nella speranza). Forse questo è il punto in cui costruire una feconda sintesi filosofica e politica.
Paolo, sono d’accordo solo in parte con la tua precisazione.
Sono pienamente d’accordo sul fatto che la Verità non sia qualcosa di dato ed immutabile, ma il risultato mai definitivo di una dialettica tra ontologia (natura umana) e storicità determinata (struttura, sovrastruttura, ideologia). La Verità muta quindi insieme al mutare dialettico degli elementi che la compongono e compito della filosofia è arrivare a conoscere il processo dialettico storicamente determinato, valutarne gli effetti sociali (in senso lato) e nel caso di valutazione negativa, trarne i principi alla base di una trasformazione.
Questo è vero, ma con dei limiti, secondo me. E credo anche secondo Preve, nel momento in cui si spinge a dichiarare che insieme ad Hegel e Marx è necessario anche Aristotele. Di Aristotele è necessaria la categoria di natura umana che vede nell’uomo un animale comunitario e razionale. Questo dettato ontologico è ETERNO, DATO, TRANS-STORICO.
Il modo di produzione capitalistico può aver molestato e sconfitto questo dettato ontologico di base, ma non l’ha certo annientato definitivamente. L’individualismo esasperato anti-comunitario tipico del capitalismo (e in particolare di quello post-borghese di oggi) è una parentesi di corruzione antropologica che non può che portare sul lungo e lunghissimo periodo a reazioni sistemiche in senso comunitario e anti-individualistico. Non dico che siano resistenze destinate ad un successo necessario (ricadrei negli errori del marxismo storico), ma che queste resistenze sempre ci saranno, rinnovandosi con le generazioni. Non riuscirai mai ad eliminare la base ontologica dell’essere umano, che consiste nella libertà declinata come comunità e razionalità.
Questo è il limite delle interpretazioni storicistiche e marxiste. Manca il punto di partenza ontologico e normativo: la natura umana eterna e trans-storica. Ad Hegel e Marx aggiungiamo Aristotele, quindi.
Simone, non mi sono spiegato bene. La concezione hegeliana che cercavo di esporre non è altro che la valorizzazione metodica di una valutazione aristotelica: Aristotele distingue tra l’inerte (la materia), il movimento imperfetto (irreversibile), il movimento perfetto, ossia l’attività formale, il finalismo che nell’uscire ritorna in sé. La mutevolezza che Hegel attribuisce alla verità non è il movimento imperfetto, quella propria del casuale (Hegel NON è uno storicista, come Preve ha ben visto, e meno che mai io lo considero tale), ma l’attività finalistica (finalismo interno nel senso kantiano). Poiché la mutevolezza della verità non è dispersiva ma la verità si alimenta dalla sua dispersione, ossia è come libertà che nell’altro è presso se stessa, la filosofia si tuffa nella casualità storica (nel moto imperfetto) sicura di estrarne l’eterno, cioè l’ampliarsi e l’approfondirsi della libertà. Insomma, tramite il concetto aristotelico di attività è possibile animare l’ontologia e insieme salvare la storia dalla sua casualità (da cui lo storicismo NON sa uscire). Quindi sono d’accordo con la tua esigenza anti-storicistica, perfettamente d’accordo; anziché però tenere ontologia e storia distanti, volevo modulare il loro rapporto con un motivo che la filosofia moderna e contemporanea (eccetto Hegel) ha completamente trascurato, quello della verità come ritorno in sé, cioè come libertà, che considero sì, proprio come ti esprimi tu, “base ontologica dell’essere umano”, ma anche essenza della conoscenza in generale.
Perfetto. Siamo completamente d’accordo.