Gli anticapitalisti, le nazioni e l'internazionalismo
di Stefano D’Andrea
E’ stimolante rileggere il Manifesto del Partito Comunista a piccole dosi. Brani isolati. Pochi pensieri. Per lo più stringati ragionamenti su innumerevoli concetti importanti della vita, della politica, della società.
Alcuni brani appaiono totalmente condivisibili. Il giudizio di valore o il giudizio storico è rimasto identico. Altri brani necessitano di un semplice adeguamento linguistico. In particolare i termini “borghese” e “borghesia” non sono adatti a descrivere alcun fenomeno del mondo moderno, perché, per molti versi, la borghesia alla quale Marx ed Engels alludevano non esiste più. Anche il termine proletariato, con riguardo alle realtà politiche dell’occidente sviluppato, è poco calzante. Non perché non esistano realtà fenomeniche definibili mediante tale termine. Bensì perché esso designa una parte del tutto, che è costituito dai lavoratori – anche autonomi, oltre che subordinati- anzi, più precisamente, dagli spiriti anticapitalistici. Molti lavoratori, infatti, non sono minimamente contrari alla suprema regola della valorizzazione del capitale. Basta però sostituire il termine che appare indebolito con un termine di uso più comune (per esempio, secondo il mio avviso,“proletariato” con “partito anticapitalista”) ed ecco che la frase ha un significato chiaro e sovente pienamente condivisibile. Altri brani non ci trovano d’accordo e spesso non ci hanno mai persuaso. Con riguardo a questi brani è piacevole fissare il nostro pensiero prendendo le distanze da due giganti. Lo stile del Manifesto è limpido: obbliga a chiarire il dissenso e impegna ad adottare uno stile altrettanto cristallino.
C’è un brano del Manifesto del Partito Comunista appositamente dedicato al concetto di nazione:
“Si è inoltre rimproverato ai comunisti di voler liquidare la patria, la nazionalità.
I lavoratori non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. Dovendo anzitutto conquistare il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, il proletariato resta ancora nazionale, ma per nulla affatto nel senso in cui lo è la borghesia.
Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli tendono sempre più a scomparire già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà del commercio, con il mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle condizioni di vita che ne derivano.
Il potere proletario li farà scomparire ancora di più. L’azione comune almeno dei paesi più civilizzati è una delle prime condizioni della sua liberazione.
In tanto in quanto viene eliminato lo sfruttamento del singolo individuo da parte di un altro, svanisce anche lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra.
Con l’antagonismo delle classi all’interno delle nazioni cade la reciproca ostilità fra le nazioni”.
Il brano stupisce e spinge a chiedere: quanti comunisti lo hanno letto con attenzione? Esso contiene affermazioni sistematicamente negate da moltissimi comunisti delle ultime due generazioni.
Intanto Marx ed Engels stanno difendendo i comunisti dall’accusa “di voler liquidare la patria, la nazionalità”. Essi non scrivono “è vero”, precisando poi in che senso l’accusa è fondata, come invece fanno con riguardo ad altre accuse rivolte ai comunisti. Al contrario, replicano: non è vero che i comunisti vogliono liquidare la patria, la nazionalità.
Paradossalmente, nella forma dello slogan (“il proletariato non ha nazione”), ha avuto successo l’affermazione secondo la quale “I lavoratori non hanno patria”. Ma essa o è smentita dal contesto linguistico – direi da tutte le altre proposizioni – ; oppure, più esattamente, va intesa in senso molto lato; è un’iperbole che vuole contestare l’idea di nazione delle classi dominanti, non l’idea di nazione in sé. Infatti, quando gli autori iniziano l’analisi, assegnano al concetto di nazione un ruolo imprescindibile e fondativo: “Dovendo anzitutto conquistare il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, il proletariato resta ancora nazionale, ma per nulla affatto nel senso in cui lo è la borghesia”.
I comunisti, dunque, sono comunisti di una nazione: vogliono che la nazione sia comunista. Le nazioni sono perenni e ci saranno anche quando i comunisti avranno preso il potere. Sono “Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli” che, secondo Marx ed Engels, tendono a scomparire; non le nazioni. Già lo sviluppo del mercato mondiale tenderebbe a questo risultato – e qui non direi che il carattere futurologico del pensiero Marxiano abbia colto nel segno -; “Il potere proletario li farà scomparire ancora di più”. Sarebbero scomparsi gli antagonismi nazionali. Non le nazioni: “svanisce anche lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”. Svanisce lo sfruttamento di una nazione sull’altra. Non le nazioni, che anzi, nell’ottica del Manifesto, permangono.
Dunque i comunisti (oggi direi più semplicemente i membri del partito anticapitalista) sono e non possono che essere nazionali, perché aspirano a conquistare il potere politico e ad elevarsi a classe nazionale – altrimenti il tentativo fallirebbe ben presto. L’organizzazione politica dei comunisti, secondo Marx ed Engels, non sarebbe stata aggressiva nei confronti delle altre nazioni. Perciò, il mondo ideale, immaginando che i comunisti avessero preso il potere in ogni nazione – si fossero elevati ovunque a classe nazionale –, sarebbe stato un mondo di nazioni pacifiche.
E l’internazionalismo che cos’è? E’ “l’azione comune” dei proletari delle varie nazioni, la quale “è una delle prime condizioni” della liberazione del proletariato (oggi degli anticapitalisti). Nel Manifesto del Partito Comunista non vi è un progetto paragonabile alla Ummah che gli islamisti internazionalisti vorrebbero ricostruire. Questi ultimi sono talvolta contrari agli stati nazionali, perché quegli stati – quei confini, quei regnanti e quelle nazioni – sono stati imposti dalle nazioni imperialistiche e colonialistiche straniere. Dunque gli islamisti internazionalisti, oltre a voler ricostituire il califfato (l’unità politica superiore) che copra tutti i terreni dell’islam (in senso stretto), vorrebbero o sarebbero disposti anche a modificare i confini delle unità politiche derivate o secondarie. Niente di tutto ciò emerge dal brano del Manifesto del Partito Comunista appositamente dedicato alle nazioni. Marx ed Engels non pensano ad un super stato (uno stato mondiale o universale) comunista; e non contestano le ragioni e le lotte in forza delle quali erano sorti gli stati nazionali europei – d’altra parte, Engels aveva combattuto sulle barricate per la creazione della Germania. “L’azione comune” è la solidarietà internazionale; solidarietà di pensiero e di azione. Allora perché i proletari di ogni nazione conquistassero il potere nella loro nazione; e oggi perché il partiti anticapitalisti conquistino il potere nelle rispettive nazioni.
Quale deve essere oggi la linea politica del partito anticapitalista rispetto all’idea di nazione? Credo che debba essere, nelle linee essenziali, quella tracciata nel Manifesto del Partito Comunista, la quale, paradossalmente, non ha nulla a che vedere con quella seguita, generalmente, dai comunisti delle ultime due generazioni.
Dunque l’ideale è che gli anticapitalisti si facciano classe nazionale e che proliferino nazioni anticapitaliste. L’avversione dei comunisti delle ultime due generazioni per il concetto di nazione è ingenua, frutto di posizioni irrealistiche, contraria alla storia dei comunisti (quando erano veramente comunisti) e generatrice di un universalismo falso che non consente la critica della globalizzazione. Un universalismo che non preme per la nascita di una forte volontà di ridurre gli scambi internazionali (i quali, sovente, hanno come unica ragion d’essere la valorizzazione del capitale). Non muove dal riconoscimento, ad ogni partito anticapitalistico, della piena dignità e legittimazione a perseguire e a edificare una società anticapitalistica singolare, particolare, originale e unica. Marx ed Engels avevano intuito, infatti, che sono i detentori (e oggi anche i gestori) dei grandi capitali a voler distruggere le nazioni e prima ancora ad avere interesse a distruggerle. Si legge in altro luogo del manifesto:
“Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale”.
E’ la suprema regola secondo la quale occorre massimizzare la valorizzazione del capitale ad essere contraria alle nazioni, nel senso che i titolari e i gestori di grandi o medi capitali perseguono l’omogeneità dei consumatori, l’apertura e la scomparsa dei confini, la libertà di circolazione delle merci, del lavoro e dei capitali. Gli appartenenti ad una nazione che hanno accumulato un certo capitale, nonché gli appartenenti a quella medesima nazione che si trovino a gestire grandi capitali, hanno interesse a “investire” o semplicemente ad acquistare azioni e in genere titoli ovunque reputino che gli investimenti o i titoli siano redditizi. Il capitale risparmiato da un imprenditore di una nazione con cento anni di svolgimento di un’attività di impresa e quindi con l’apporto di lavoratori di una nazione (italiani per esempio) durante cento anni, a un certo punto è impiegato per acquistare materie prime da soggetti dello stato A, per produrre nello stato B e vendere nello stato C, anche se né A, né B e né C sono gli stati originari nei quali è stato accumulato quel capitale. Il capitalismo deve funzionare. E per funzionare non deve trovare attriti: giuridici; religiosi; posti da secolari tradizioni; derivanti dalla eterogeneità dei consumatori. Il capitale ha la vocazione per lo spazio planetario e lo vuole senza frontiere.
Siamo dinanzi ad un apparente paradosso. Il capitale può riuscire a massimizzare la propria valorizzazione soltanto abbattendo e distruggendo sempre più gli Stati Nazione; o comunque internazionalizzandosi rallenta la caduta tendenziale del tasso di profitto. Gli anticapitalisti – che è bene siano uniti nonostante tutte le possibili diversità di obiettivi (in realtà gli anticapitalismi si differenziano per la diversità dei valori o beni che in via prioritaria si vogliono sottrarre alla logica necrofila del capitale) – “devono farsi nazione” (come scrivevano Marx ed Engels con riguardo ai Comunisti); devono conquistare il potere nelle nazioni e cominciare così o a sottrarre al capitale, in uno o più luoghi della terra, il dominio sulla nuda vita degli uomini; o, comunque, a ridurre l’ambito e le forme di quel dominio. Per il capitale le nazioni sono un ostacolo. Per gli oppositori del capitalismo – ossia della suprema regola secondo la quale lo scopo dell’attività sociale dell’umanità deve essere quello di massimizzare la valorizzazione del capitale – l’edificazione di una nazione anticapitalistica è l’obiettivo.
Se oggi l’anticapitalismo, in tutte le sue forme, nuove e vecchie (compresa quella, “relativa” ma significativa, della socialdemocrazia) è così debole, ciò è dovuto allo stato oggettivo in cui sono state ridotte molte nazioni, ma anche e soprattutto alla irragionevolezza degli anticapitalisti, i quali, osteggiando il concetto di nazione, sono destinati a restare nello stato velleitario delle declamazioni fumose, posto che il loro obiettivo dovrebbe essere quello di impegnarsi per costruire nazioni anticapitaliste. E va da sé che, se è giusto solidarizzare con anticapitalisti di altre nazioni ed eventualmente partecipare a una o altra battaglia reputata importante, è pur sempre ovvio che, per mille ragioni, gran parte dell’impegno di ogni anticapitalista dovrebbe essere indirizzato ad indebolire, all’interno della propria nazione, la forza della regola sulla quale affondano pressoché tutte le costituzioni nazionali: il capitale si deve valorizzare.
Complimenti per l'articolo. Diventerebbe così chiaro perchè l'Euro (inteso come area di libero mercato), invece di contrastare il predominio del dollaro, si limiti invece a diventarne l'inutile succedaneo. Eppure Saddam è stato impiccato per avere voluto sostituire il dollaro con l'euro nei pagamenti del petrolio iracheno. Il suo concetto di Stato Nazione indipendente non ha retto il confronto con la politica imperialista internazionale, così come Gheddafi sta subendo l'unanime condanna internazionale per volere mantenere il controllo sulle sorti del proprio Stato Nazione. Insomma oggi sembra che sia veramente difficile quella che tu chiami l'edificazione di una nazione anticapitalistica .
Non facile, ma possibile.
http://www.marxists.org/glossary/people/s/pics/stalin.gif
http://www.fisicamente.net/SCI_SOC/index-714.htm
PERCHÉ IL SOCIALISMO?
Albert Einstein
(Questo testo di Einstein fu pubblicato dalla rivista Monthly Review di New York nel 1944. Fu ripubblicato varie volte e particolarmente in Pensieri degli anni difficili dello stesso Einstein).
È consigliabile per chi non sia un esperto di problemi economici e sociali esprimere delle opinioni sulla questione del socialismo? Per un complesso di ragioni credo di sì.
Consideriamo in primo luogo la questione dal punto di vista della conoscenza scientifica. Potrebbe sembrare che non vi siano delle differenze metodologiche essenziali fra l'astronomia e l'economia: in entrambi i campi gli scienziati tentano di scoprire leggi di validità generale entro un ordine circoscritto di fenomeni, in modo da rendere quanto più possibile comprensibile connessioni fra questi fenomeni. In realtà, però, differenze di metodo esistono. La scoperta di leggi generali nel campo economico è resa difficile dal fatto che nei fenomeni economici osservati intervengono spesso molti fattori che è assai difficile valutare separatamente. Inoltre, l'esperienza accumulatasi fin dall'inizio del cosiddetto periodo civile della storia umana è stata, come è noto, fortemente influenzata e limitata da cause che non sono affatto di natura esclusivamente economica. Per esempio, la maggior parte degli stati più importanti dovettero la loro esistenza alla politica di conquista. I popoli conquistatori si imposero legalmente ed economicamente, come la classe privilegiata del paese conquistato. Essi si riservarono il monopolio della proprietà terriera e crearono una casta sacerdotale con membri appartenenti alla loro stessa classe. I sacerdoti, avendo il controllo dell'educazione, trasformarono la divisione in classi della società in una istituzione permanente ed elaborarono un sistema di valori a mezzo del quale, a partire da allora, il popolo fu guidato, in larga misura senza che ne avesse consapevolezza, nel suo comportamento sociale.
Ma la tradizione storica è, per cosi dire, cosa di ieri; in nessuna parte del mondo abbiamo di fatto superato quella che Thorstein Veblen chiamò "la fase predatoria" dello sviluppo umano. I fatti economici che ci è dato osservare appartengono a tale fase, e le stesse leggi che possiamo eventualmente ricavare da tali fatti non sono applicabili ad altre fasi. Dato che il vero scopo del socialismo è precisamente quello di superare e di procedere oltre la fase predatoria dello sviluppo umano, la scienza economica, al suo stato attuale, può gettare ben poca luce sulla società socialista del futuro.
In secondo luogo, il socialismo è volto a un fine etico-sociale. La scienza, però, non può stabilire dei fini e tanto meno inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali raggiungere certi fini. Ma i fini stessi sono concepiti da persone con alti ideali etici; se questi ideali non sono sterili, ma vitali e forti, vengono adottati e portati avanti da quella gran parte dell'umanità che, per metà inconsciamente, determina la lenta evoluzione della società.
Per queste ragioni dovremmo stare attenti a non sopravvalutare la scienza e i metodi scientifici quando si tratta di problemi umani; e non dovremmo ammettere che gli esperti siano gli unici ad aver il diritto di pronunciarsi su questioni riguardanti l'organizzazione della società.
Da un po' di tempo innumerevoli voci affermano che la società umana sta attraversando una crisi, che la sua stabilità è stata gravemente scossa. Caratteristico di una tale situazione è il fatto che gli individui si sentano indifferenti o addirittura ostili verso il gruppo sociale, piccolo o grande, al quale appartengono. Per illustrare ciò che intendo dire, voglio ricordare qui un'esperienza personale. Recentemente discutevo con una persona intelligente e di larghe vedute sulla minaccia di una nuova guerra che, secondo me, comprometterebbe seriamente l'esistenza dell'umanità, e facevo notare che solo un'organizzazione sopranazionale potrebbe offrire una forma di protezione da questo pericolo. Allora il mio interlocutore, con voce molto calma e fredda, mi disse: "Perché lei è cosi profondamente contrario alla scomparsa della razza umana?"
Sono sicuro che solo un secolo fa nessuno avrebbe fatto una domanda del genere con tanta leggerezza. È l'affermazione di un uomo che ha lottato invano per raggiungere un equilibrio interno e ha perduto, più o meno, la speranza di riuscirvi. È l'espressione di una solitudine e di un isolamento dolorosi di cui soffrono moltissimi in questi tempi. Quale ne è la causa? Esiste una via d'uscita?
È facile sollevare tali questioni, ma è difficile dare loro una risposta con un qualche grado di sicurezza. Debbo tentare, tuttavia, come meglio posso, anche se sono perfettamente consapevole del fatto che i nostri sentimenti e i nostri sforzi sono spesso contraddittori e oscuri, e non possono venir espressi mediante facili e semplici formule.
L'uomo è, allo stesso tempo, un essere solitario e un essere sociale. In quanto essere solitario, egli cerca di proteggere la propria esistenza e quella di coloro che gli sono più vicini, di soddisfare i propri desideri personali, e di sviluppare le proprie qualità naturali. In quanto essere sociale, egli cerca di guadagnarsi la stima e l'affetto dei suoi simili, di condividere le loro gioie, di confortarli nel loro dolore, e di migliorare le loro condizioni di vita. Soltanto l'esistenza di questi sforzi diversi, frequentemente contrastanti, spiega il carattere particolare di un uomo, e la loro particolare combinazione determina la misura nella quale un individuo può raggiungere un equilibrio interno e contribuire al benessere della società. È perfettamente possibile che la forza relativa di queste due tendenze sia sostanzialmente determinata dall'eredità. Ma la personalità che alla fine ne emerge è in gran parte formata dall'ambiente in cui un uomo viene a trovarsi durante il suo sviluppo, dalla struttura della società in cui egli cresce, dalla storia di quella società, e dal giudizio che essa dà dei differenti tipi di comportamento. Il concetto astratto di "società" significa, per l'essere umano individuale, la somma totale di queste relazioni dirette e indirette con i suoi contemporanei e con tutti gli uomini delle generazioni precedenti. L'individuo può pensare, sentire, lottare, e lavorare da solo; ma egli dipende dalla società, nella sua esistenza fisica, intellettuale ed emotiva, tanto che è impossibile pensare a lui, o comprenderlo, al di fuori della struttura della società. È la "società" che fornisce all'uomo il cibo, i vestiti, una casa, gli strumenti di lavoro, la lingua, le forme di pensiero, e la maggior parte dei contenuti di pensiero; la sua vita è resa possibile dal lavoro e dalle realizzazioni dei molti milioni di uomini del passato e del presente che si nascondono dietro quella piccola parola: "società".
È evidente, perciò, che la dipendenza dell'individuo dalla società è un fatto naturale che non può venir abolito, proprio come nel caso delle api o delle formiche. Tuttavia, mentre l'intero processo vitale delle formiche e delle api è determinato fin nei più minuti particolari da rigidi istinti ereditari, lo schema sociale e le interrelazioni degli esseri umani sono assai variabili e suscettibili di mutamento. La memoria, la capacità di realizzare nuove combinazioni, il dono della comunicazione orale, hanno reso possibili fra gli esseri umani degli sviluppi non dettati da necessità biologiche. Tali sviluppi si manifestano nelle tradizioni, istituzioni, e organizzazioni, nella letteratura, nelle scoperte scientifiche e tecniche, nelle opere d'arte. Questo spiega come succede che, in un certo senso, l'uomo possa, attraverso il comportamento, influenzare la propria vita, e che in questo processo possano avere una funzione il pensiero e la volontà coscienti.
L'uomo riceve ereditariamente, alla nascita, una costituzione biologica che dobbiamo considerare fissa e inalterabile, e che comprende le esigenze naturali che sono caratteristiche della specie umana. Inoltre, nel corso della vita, egli acquisisce una costituzione culturale, che gli viene dalla società attraverso la comunicazione diretta e attraverso molti altri tipi di influenze. È questa costituzione culturale ad essere, nel corso del tempo, soggetta a mutamenti e a determinare in larga misura i rapporti fra l'individuo e la società. La moderna antropologia ci ha insegnato, attraverso lo studio comparato delle cosiddette culture primitive, che il comportamento sociale degli esseri umani può essere molto diverso, a seconda degli schemi culturali predominanti e dei tipi di organizzazione che prevalgono nella società. È su questo fatto che coloro che lottano per migliorare il destino dell'uomo possono fondare le loro speranze: gli esseri umani non sono condannati, a causa della loro costituzione biologica, a distruggersi l'un l'altro o ad essere, ad opera delle proprie mani, alla mercé di un fato crudele.
Se ci domandiamo in qual modo la struttura della società e l'atteggiamento culturale dell'uomo dovrebbero essere modificati al fine di rendere il più possibile soddisfacente la vita umana, dovremmo essere coscienti del fatto che esistono certe condizioni che non possiamo modificare. Come abbiamo ricordato prima, la natura biologica dell'uomo non è suscettibile di mutamenti a ogni fine pratico. Inoltre, gli sviluppi tecnologici e demografici degli ultimi secoli hanno creato delle condizioni destinate a perdurare. In popolazioni stabili relativamente dense, dotate dei beni che sono indispensabili alla continuazione della loro esistenza, sono assolutamente necessarie una estrema suddivisione del lavoro e un apparato produttivo altamente centralizzato. È passato per sempre il tempo, che a volgersi indietro sembra cosi idilliaco, in cui gli individui o i gruppi relativamente piccoli potevano essere completamente autosufficienti. Non si esagera molto dicendo che l'umanità già oggi costituisce una comunità planetaria di produzione e di consumo.
Giunto a questo punto del discorso posso indicare brevemente ciò che secondo me costituisce l'essenza della crisi del nostro tempo. Si tratta del rapporto dell'individuo con la società. L'individuo è diventato più consapevole che mai della propria dipendenza dalla società. Egli però non sperimenta tale dipendenza come un fatto positivo, come un legame organico, come uno forza protettrice, ma piuttosto come una minaccia ai suoi diritti naturali, o addirittura alla sua esistenza. Inoltre, la sua posizione nella società è tale che gli impulsi egoistici del suo carattere vengono costantemente accentuati, mentre i suoi impulsi sociali, che per natura sono più deboli, si deteriorano progressivamente. Tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro posizione nella società, soffrono di questo processo di deterioramento. Inconsciamente prigionieri del loro egotismo, essi si sentono insicuri, soli, e spogliati della ingenua, semplice e non sofisticata gioia di vivere. L'uomo può trovare un significato nella vita, breve e pericolosa come è, soltanto dedicandosi alla società.
L'anarchia economica della società capitalista, quale esiste oggi, rappresenta secondo me la vera fonte del male. Vediamo di fronte a noi un'enorme comunità di produttori, i cui membri lottano incessantemente per spogliarsi a vicenda dei frutti del loro lavoro collettivo, non con la forza, bensì tutto sommato in complice ossequio a regole stabilite in forma legale. In questo senso è importante rendersi conto che i mezzi di produzione, vale a dire l'intera capacità produttiva necessaria per produrre sia i beni di consumo che i beni capitali addizionali, possono essere con pieno crisma legale, e per la maggior parte lo sono, proprietà privata di singoli.
Per ragioni di semplicità, nella discussione che segue indicherò con la parola "lavoratori" tutti coloro che non partecipano alla proprietà dei mezzi di produzione, anche se ciò non corrisponde pienamente all'uso normale del termine. Il proprietario dei mezzi di produzione è in grado di acquistare la forza-lavoro del lavoratore. Usando i mezzi di produzione, il lavoratore produce nuovi beni che diventano proprietà del capitalista. Il punto essenziale di questo processo è la relazione fra quanto il lavoratore produce e quanto egli è pagato, entrambe le quantità misurate in termini di valore reale. Fintantoché il contratto di lavoro è "libero", ciò che il lavoratore riceve è determinato non dal valore reale dei beni che produce, ma dalle sue necessità di sopravvivenza e dalla domanda di forza-lavoro da parte del capitalista, rapportata al numero di lavoratori che sono in concorrenza per i posti di lavoro. È importante comprendere che anche in teoria il salario del lavoratore non è determinato dal valore del suo prodotto.
Il capitale privato tende a concentrarsi nelle mani di pochi, in parte a causa della concorrenza fra i capitalisti, in parte perché lo sviluppo tecnologico e la crescente suddivisione del lavoro incoraggiano la formazione di più grandi complessi di produzione
a spese dei minori. Il risultato di questi sviluppi è un'oligarchia del capitale privato il cui enorme potere non può essere efficacemente controllato neppure da una società politica democraticamente organizzata. La verità di ciò è determinata dal fatto che i membri dei corpi legislativi vengono scelti dai partiti politici, ampiamente finanziati o in altro modo influenzati dai capitalisti privati i quali, a ogni fine pratico, separano l'elettorato dal corpo legislativo. La conseguenza è che i rappresentanti del popolo non proteggono, di fatto, in modo sufficiente gli interessi degli strati meno privilegiati della popolazione. Inoltre, nelle condizioni attuali, i capitalisti privati controllano inevitabilmente, direttamente o indirettamente, le fonti principali d'informazione: stampa, radio, educazione. È quindi estremamente difficile e anzi, nella maggior parte dei casi, del tutto impossibile, che i cittadini pervengano a delle conclusioni oggettive e facciano un uso intelligente dei loro diritti politici.
La situazione dominante in un'economia basata sulla proprietà privata del capitale è perciò caratterizzata da due principi fondamentali: primo, i mezzi di produzione (capitale) sono proprietà privata e i proprietari ne dispongono a loro piacimento; secondo, il contratto di lavoro è libero. Naturalmente non esiste, in quanto tale, una società capitalista pura in questo senso. In particolare, occorre notare che i lavoratori, attraverso lunghe e amare lotte, sono riusciti ad assicurarsi una forma in certo modo migliorata del "contratto libero di lavoro" per certe loro categorie. Peraltro, considerata complessivamente l'economia dei nostri tempi non differisce molto dal capitalismo puro.
Si produce per il profitto, non per l'uso. Non vi è alcun provvedimento grazie al quale tutti coloro che possono e vogliono lavorare ne abbiano sempre la possibilità; esiste quasi sempre un "esercito di disoccupati". Il lavoratore ha sempre la paura di perdere il proprio posto di lavoro. Dato che i disoccupati e i lavoratori mal retribuiti non rappresentano per i beni di consumo un mercato vantaggioso, la produzione di tali beni ne risulta limitata, con un conseguente grave danno. Il progresso tecnologico si risolve frequentemente in un aggravamento della disoccupazione piuttosto che in un alleggerimento della quantità di lavoro per tutti. Il movente del profitto, congiuntamente alla concorrenza fra i capitalisti, è responsabile di una instabilità nell'accumulazione e nell'impiego del capitale, che conduce a depressioni sempre più gravi. La concorrenza illimitata porta a un enorme spreco di lavoro, e a quelle storture della coscienza sociale nei singoli individui, di cui ho parlato prima.
Queste storture nell'individuo, secondo me sono la tara peggiore del capitalismo. Tutto il nostro sistema educativo soffre di questo male. Un atteggiamento esageratamente concorrenziale viene inculcato nello studente, abituandolo ad adorare il
successo, come preparazione alla sua futura carriera.
Sono convinto che vi è un solo mezzo per eliminare questi gravi mali, e cioè la creazione di un'economia socialista congiunta a un sistema educativo che sia orientato verso obiettivi sociali. In una tale economia i mezzi di produzione sono proprietà della società stessa e vengono utilizzati secondo uno schema pianificato. Un'economia pianificata, che equilibri la produzione e le necessità della comunità, distribuirebbe il lavoro fra tutti gli abili al lavoro e garantirebbe i mezzi di sussistenza a ogni uomo, donna e bambino. L'educazione dell'individuo, oltre a incoraggiare le sue innate capacità, si proporrebbe di sviluppare in lui un senso di responsabilità verso i suoi simili anziché la glorificazione del potere e del successo, come avviene nella nostra società attuale.
È necessario, tuttavia, ricordare che un'economia pianificata non rappresenta ancora il socialismo. Una tale economia pianificata potrebbe essere accompagnata dal completo asservimento dell'individuo. La realizzazione del socialismo richiede la soluzione di alcuni problemi sociali e politici estremamente complessi: in che modo è possibile, in vista di una centralizzazione di vasta portata del potere economico e politico, impedire che la burocrazia diventi onnipotente e prepotente? In che modo possono essere protetti i diritti dell'individuo, assicurando un contrappeso democratico al potere della burocrazia?
COMPLIMENTI PER L'ARTICOLO ANCHE SE CI SONO COSE NON CONDIVIDO.
SOCIALISMO E' EVOLUZIONE NON VIOLENTA
● Non votiamo: esercitiamo il nostro diritto a NON votare per i banditi.
● Non siamo un partito, ne un movimento. Non abbiamo struttura, ne sede. Non siamo destra, ne sinistra. Siamo un ideologia anti-statale, poiché lo Stato è il più grande e vorace parassita della moderna società capitalista.
● Non paghiamo tasse se non quelle relative ai beni di consumo ( luce, gas ecc ). Facciamo in modo di non possedere nulla di pignorabile.
● Siamo a favore della giustizia individuale o “fai da te”. Niente magistrati, niente tribunali, nessuno che decide per noi come chi ha commesso reato nei nostri confronti debba essere punito.
● Siamo contrari alle forze di polizia statali, il braccio armato puntato alla tempia del cittadino e a protezione dei veri criminali: i politici e i banchieri.
● Siamo avversari delle banche e in esse NON riponiamo i nostri risparmi. Piuttosto che vedere le fatiche del nostro sudore divorate da chi non fa che sedere in poltrona e campare a spese nostre, o farci usare come numeri senza diritti da una qualche multinazionale, preferiamo il lavoro nero.
● Siamo pacifici finché ci sarà permesso esserlo. Esercitiamo il nostro democratico diritto ad opporci allo Stato. Qualora un giorno i regimi decidessero che questo è illegale, allora saremo criminali.
Siamo Anti-capitalismo e Rivoluzione.
Siamo l’AER!