Foucault e il liberalismo
di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
La sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il grande merito delle lezioni del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de France[1] è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo, rintracciandone la doppia radice nell’ordo-liberalismo tedesco della scuola di Friburgo degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e narrandone con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell’Unione Europea, ma la sua stessa retorica; l’espressione «economia sociale di mercato», infine scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in polemica con l’economia keynesiana; l’adorazione ordo-liberale della concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della natura fortemente competitiva dell’Unione Europea[2]; la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la disoccupazione in occupabilità dei lavoratori ha la sua genesi nella scuola di Friburgo. Dall’anarco-capitalismo americano è invece influenzato, più che il moralismo europeista della competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare dell’individuo, qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia, un’impresa[3].
Non è il caso di riassumere il lavoro di Foucault: meglio leggerlo, anzi studiarlo, per trarne il quadro dell’ideologia neoliberale nella sua ossessiva pervasività; è invece il caso di chiedersi perché mai il libro non sia diventato né un segnale d’allarme né un’arma di lotta politica. La risposta può essere anticipata subito: Foucault condivide con il neoliberalismo e con il marxismo il suo presupposto più interno: l’identità di libertà e natura, ossia la concezione che la libertà sia una proprietà originaria di un individuo fuori dal contesto politico, determinato cioè come naturale. Perché la sua indagine avesse risonanza politica, Foucault avrebbe dovuto esporre il neoliberalismo confrontandosi a fondo con la natura dello Stato, mettendo in questione non solo il liberalismo, ma lo stesso Marx, risalendo quindi a Hegel.
L’identità di libertà e natura detta a Marx un’utopia della società civile. Se nella «Questione ebraica» egli l’ha concepita come realtà ultima del mondo etico, come struttura scissa, dilaniata dalla lotta tra le classi che pone in contrasto individuo e società, la scelta decisiva del suo materialismo storico è aver concepito il superamento di questo contrasto, la conciliazione, come risultato del movimento interno della società civile: sviluppando il sistema dei bisogni essa è già arrivata a un livello di produttività che rende virtualmente superfluo lo sfruttamento e la lotta di classe; il socialismo, coscienza di questa superfluità, è anche la fine della lotta di classe, è la società civile conciliata, l’individuo che ha nell’altro non più il suo limite, ma la certezza di se stesso.
Con tutto questo Marx non solo accetta una contraddizione: la conciliazione reale è una conciliazione sperata, cioè irreale; ma nel contempo rompe con Hegel, per il quale la società civile è eticità essenzialmente estraniata da se stessa, cioè preda di una conflittualità che nessun moto interno può comporre, la cui negazione comporta perciò la negazione della società civile stessa, ossia lo Stato. In questo pensiero Marx e con lui l’interno Novecento filosofico hanno visto soltanto una mistificazione. A questa loro valutazione sfugge però ciò che Hegel effettivamente intende, ossia che la conciliazione della società civile è reale soltanto sulla base dalla possibile ostilità esterna: il conflitto della società civile è realmente domato dallo Stato non per un suo arcano potere magico, ma perché ogni Stato deve fronteggiare il rapporto potenzialmente ostile con altri Stati[4]. In una parola: è l’eventualità della guerra che smussa il conflitto di classe e trasforma in Stato la società civile realizzandovi la conciliazione che in essa è eternamente potenziale; è l’esigenza di sovranità verso l’esterno che fonda la sovranità verso l’interno, che cioè impedisce il radicalizzarsi della differenza tra le classi, tra gli individui; ed è questa intima connessione tra sovranità interna e sovranità esterna – non certo un cedimento a impulsi crudeli[5] –, che induce Hegel a riconoscere l’eticità della guerra.
Marx, come del resto tutto il pensiero che potremmo definire ‘progressivo’, nel quale rientrano il liberalismo e lo stesso Foucault, non ha sensibilità per la guerra: la considera un epifenomeno del conflitto di classe, destinato a volatilizzarsi con il socialismo, non un’implicazione necessaria dell’essere individuale, che nel suo stesso concetto è respingere l’altro, soppressione del riferimento[6] – su questo punto egli è lontanissimo dal realismo politico iniziato da Machiavelli. Il pensiero ‘progressivo’ che dichiara la nullità dell’universale a vantaggio dell’essere individuale, si imprigiona nel contempo in un concetto edulcorato dell’individualità: l’individualità non individuale, ma universale, non respingente ma comunicativa, per cui i molti individui sono una naturale attrazione reciproca e l’umanità è essenzialmente pacifica. Contro l’immagine di questa individualità già pacifica per sua natura, lo Stato, la cui prima funzione è fare della moltitudine internamente repulsiva degli individui un individuo, pacificarla così da permetterle di fronteggiare altre società altrettanto individualizzate, appare l’origine unica della violenza, che scomparirebbe con la sua scomparsa. In altri termini, il pensiero ‘progressista’ sottrae all’individuo la sua repulsività accollandola allo Stato e, con una coerenza che sfida il senso della realtà, intravede nella fine dello Stato, anziché il trionfo della violenza, l’avvento della pace.
La separazione di origine liberale tra individuo e repulsività, la conseguente volatilizzazione della guerra tra le casualità, e non la carenza di governamentalità, come crede Foucault[7], sono dunque i difetti più profondi e gravidi di conseguenze storiche della concezione politica marxista; l’irenismo dell’individualità ha infatti dissolto non solo la ragion d’essere dello Stato, ma anche la consapevolezza del contrasto reale tra universalismo dello Stato e particolarismo della società civile. Questa non è composta di individui desiderosi di scambi simmetrici, come immagina la mitologia liberale seguita istintivamente dal pensiero ‘progressivo’, ma da scambi ineguali che determinano una gerarchia di classi e l’emergere di oligarchie. Nella prospettiva interna, la sovranità dello Stato consiste dunque nel domare l’oligarchia; viceversa, l’eterna polemica contro il dispotismo dello Stato è sempre difesa del privilegio oligarchico.
La difesa oligarchica del privilegio particolare è il terreno in cui germoglia la rappresentazione della libertà come natura e come opposta allo Stato. Quando si realizza questa libertà come privilegio naturale in contrasto con l’universalità dello Stato, anziché il ritorno all’età dell’oro dell’umanità pacificata, si verifica dunque soltanto una regressione alla forma oligarchica, più elementare, più dispotica, di esercizio del potere di classe. Così, quando durante il medioevo l’aristocrazia feudale vanifica il potere monarchico e dà un carattere pubblico al suo potere privato, non solo l’Europa diventa incapace di difendersi dalle invasioni, ma al suo interno si impongono rapporti asfissianti di dipendenza personale, nonostante si sia già affermato l’universalismo della religione cristiana. Viceversa, quando nella storia moderna il potere monarchico ricostituisce la sfera dello Stato richiamando a sé i poteri privatizzati dall’aristocrazia, nella conseguente condizione di suddito è contenuta non solo la dipendenza dalla monarchia assoluta, come lamentano i liberali, ma anche l’inizio dell’affrancamento dal potere paternalistico dell’oligarchia feudale.
La lotta contro lo Stato assoluto è iniziata come rivendicazione di privilegi feudali: è stata innescata dall’oligarchia che cercava di assicurarsi una libertà fatta della stessa materia delle libertà che i feudatari laici ed ecclesiastici un tempo avevano strappato agli imperatori e ai re. Contro il proprio intento iniziale essa è però diventata lotta contro i residui feudali dello Stato, ha purificato la sfera pubblica portando a compimento l’universalismo proprio dello Stato: dopo la rivoluzione francese lo Stato cessa di essere un clan feudale che schiaccia gli altri clan feudali, ma diventa un organismo regolato da leggi universali che sostanziano la libertà, l’uguaglianza e la fraternità.
Le vicende dell’origine dello Stato moderno, il fatto che solo in corso d’opera il privilegio particolare reclamato dagli oligarchi si sia trasformato in diritto pubblico, hanno coniato l’ambigua nozione di diritti dell‘uomo: i diritti umani, che durante la rivoluzione francese il terzo stato formula, hanno il carattere contraddittorio di essere universali e di essere privilegi, di essere un diritto universale ma non mediato dallo Stato, anzi possesso immediato dell’individuo nella sua naturalità che lo Stato coarta per sua natura e non solo per difetti fattuali; sono cioè un prodotto dell’universalismo statale, eppure, in quanto storicamente sorti dal privilegio, la loro universalità pretende di superare l’universalità dello Stato. Un’universalità politica oltre lo Stato è però oltre la stessa realtà: è la società civile immaginata come pacifica. Essendo legge di una società che non solo non è ma neanche può essere, i diritti dell’uomo diventano ideologia del privilegio, utopia in cui la particolarità dei pochi può mascherarsi da universalità dei tutti: tutti i nati da donna hanno diritto alla proprietà, anche se pochi sono i proprietari. Rivendicare l’incondizionatezza del diritto di proprietà diventa dunque la forma tipica dell’agitazione dell’oligarchia borghese. In altri termini, poiché l’universalità astratta che supera le frontiere per cui uno Stato è particolare rispetto all’umanità in generale, è un ripiombare dalla realtà alla possibilità, dalla teoria alla magia, dall’idea all’essenza, i diritti universali dell’individuo sono reali solo in quanto l’universalità reale (il diritto positivo) dello Stato li realizza e decadono con la decadenza dello Stato. Simul stabunt, simul cadent.
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Il non aver messo in conto la guerra, il non aver preso in considerazione, all’interno della teoria, l’orrore nella sua forma estrema, ha imposto nel pensiero progressivo, nel liberalismo, in Marx e da ultimo in Foucault, la stessa rappresentazione irenica dell’umanità, che li ha allontanati dall’intuizione dello Stato e li ha sviati a concepire la libertà sul modello del privilegio oligarchico. Mentre però l’antistatalismo liberale vuole essere ideologia del privilegio oligarchico, l’antistatalismo marxista si trova a tenere insieme la rappresentazione oligarchica della libertà e la lotta antioligarchica, senza consapevolezza del contrasto; così attraverso il pathos anti statalista si è insinuato nel marxismo una simpatia nascosta per l’oligarchia, che non è stata estranea alla sua capacità di espansione tra la piccola borghesia e gli intellettuali. Il militante di sinistra si distingue con orgoglio dalla massa contadina e dal Lumpenproletariat, da sempre parla di movimento delle masse, ma è ben consapevole dell’ingenuità dello spontaneismo e si concepisce come aristocrazia (il termine tecnico, adottato anche in estetica, è ‘avanguardia’) alla guida della massa. La sinistra, già Lenin lo dové constatare a proposito dei comunisti, ha avuto in sé da sempre qualcosa dell’autocoscienza signorile che nel radical chic assume la forma della supponenza, la fiducia che il proprio attivismo sia dalla parte giusta per un favore diretto del destino, che le fa apparire ogni mediazione – lo Stato con le sue leggi e con i suoi doveri, la scienza con la sua disciplina e le sue fatiche, la stessa bellezza artistica con la sua astrazione dall’empirico – una raffinatezza infeconda, dunque, per l’eterno scambio tra desiderio e realtà, già condannata all’estinzione. È questo sentimento aristocratico di sé, che pone la sinistra in un riferimento così prossimo all’ideologia liberale, ad averle infine sgombrato lo spazio di rincorsa per saltare sul carro avversario.
Pur inconsapevole dell’origine della concezione di libertà naturale dal privilegio oligarchico, pur intimamente suo adepto, in virtù del suo eroico scetticismo, Foucault è infastidito dalla pretestuosità della fobia dello Stato nutrita dal liberalismo. Poiché con una sfida al senso della realtà gli ordo-liberali hanno più volte sostenuto la sostanziale identità tra interventismo economico redistributivo e totalitarismo, egli ritorna più volte sulla tendenziosità di concepire come identiche la natura dello Stato e quella del fascismo e imputa quest’ultimo non a un’evoluzione interna dello Stato, ma all’imporsi del partito politico come organizzazione totale sovrapposta all’organizzazione statale. Questo suo fastidio è un lucido riconoscimento del carattere di forzatura ideologica del neoliberalismo, che usa la calunnia, anziché la critica contro l’avversario di classe. Nondimeno lo sforzo di Foucault è inibito da debolezze filosofiche troppo importanti per poter raggiungere quel potere di illuminazione politica che pure egli si era auspicato; la presa di distanza dalla fobia dello Stato non mette in discussione la sua estraneità all’essenza della politica, tanto profonda da porlo in segreta sintonia con le esigenze individualistiche neoliberali. Questa estraneità è riscontrabile sia a livello formale, nel metodo, che a livello di contenuto.
Nelle prima lezione Foucault, dopo aver annunciato il tema del corso, ne espone il metodo. Il tema è il governo politico, non le sue pratiche particolari, ma la riflessione su di esse, il loro innalzamento all’universale. Il metodo è esposto subito dopo. Benché abbia scelto oggetti di indagine universali, Foucault non parte da universali: sovranità, popolo, Stato ecc. per vederli realizzati o smentiti dalla storia – egli rifiuta questo metodo che chiama ‘storicista’; parte invece con una epochè husserliana, mettendo tra parentesi gli universali, supponendone la non esistenza, e considerando direttamente ciò che nell’oggetto, nella storia, cioè nella riflessione sulle pratiche politiche crede di riferirsi ad essi. Qui occorre capire cosa significhi ‘universale’. Lo si può definire una determinazione presa come identica: la legge che esprime la regolarità di un comportamento osservabile, priva però del differente che invece è sempre presente nell’individuo osservabile. Poiché contiene la propria determinazione e il differente da questa determinazione, l’individuo empirico e l’empiria, in quanto sono il contrario di se stessi, sono anche l’inquietudine che smentisce ogni sua permanenza; viceversa, la determinazione presa come identica, l’universale, appare fissa, costante, uguale a se stessa: ha i caratteri di ciò che comunemente si ritiene verità: la regolarità, la legge, il bene.
Quando dichiara l’inesistenza degli universali, Foucault mette dunque tra parentesi ciò che nella sua stessa forma esprime l’esigenza di verità. Questo ostracismo ha un significato ambiguo: in sé la negazione dell’universale non sarebbe un rifiuto della verità, la verità è infatti non il semplice universale (l’intelletto, direbbe Hegel) ma la corrispondenza di universale e particolare (in linguaggio hegeliano: la ragione), e questa corrispondenza nega l’assolutezza di ciò che corrisponde, tanto dell’universale quanto del particolare. Tuttavia, la negazione dell’universale che non sia nella scienza, anzi avvenga prima, nel metodo che lo mette al bando come se fosse una parvenza del tutto illegittima, riduce la verità al particolare astratto, unico superstite della selezione, e la scienza, anche quando si riferisca agli universali in re, ossia non alle pratiche empiriche ma alla riflessione su di esse, non può che smentirne la pretesa di universalità e ridurla alla sua base empirica. È quanto accade a Foucault. Quando, in polemica contro l’universalità, scrive che la libertà «non è un universale che si particolarizza con il tempo e la geografia»[8] sembra non comprendere che il particolarizzarsi dell’universale è proprio la sua critica immanente, la sua negazione all’interno della scienza, negazione determinata, nella quale sono dunque dati sia il suo conservarsi nel particolare che la premessa alla critica di questo – e questa doppia critica, dell’universale e del particolare, è la verità e la scienza. In altri termini, il dogma di illegittimità degli universali lascia a Foucault come residuo teorico soltanto gli universali posti nell’oggetto stesso, nel tema scelto, che, come si è visto, non è composto da singoli atti di governi empirici, ma dalle riflessioni teoriche sulla pratica di governo; poiché però la legittimità dell’universale è stata sbandita una volta per tutte, gli stessi universali che dall’oggetto si fanno incontro alla conoscenza sono presi come semplici equivoci, da spiegare come un gioco di pratiche particolari dotate di una loro vicenda, da accettare come tale. Il radicalismo nominalista contro l’universale riduce la critica, che dovrebbe essere la semplice descrizione del contrasto interno delle cose, a una loro valutazione esterna.
Tutto ciò è confermato nel ritorno al problema metodologico della seconda lezione. Qui Foucault osserva che il liberalismo resta interno alla ragion di Stato, ma è finalizzato, anziché all’espandersi della polizia (polizia nel senso, proprio del XV e XVI secolo, di regolamentazione amministrativa del sociale) in ogni ambito vitale, al governo frugale, al governo minimo. Non è il sapere economico a ridurre il governo al minimo, non gli economisti con le loro teorie, ma il mercato: in quanto è lasciato libero alle dinamiche del suo meccanismo, il mercato offre nei suoi prezzi valutazioni oggettive a cui deve adattarsi e limitarsi l’azione del governo che voglia far prosperare lo Stato. L’aver pregiudicato come illegittima ogni universalità e legittima ogni particolarità, si vendica su Foucault: egli si sente esonerato dall’impegno di osservazione critica di questa particolare pretesa di universalità del mercato. Poiché è operata a priori dalla scelta metodologica, la critica si spegne nel momento di passare all’esposizione dell’oggetto; dunque all’esposizione non resta che descrivere il particolare come se fosse identico a se stesso, come se fosse privo di contraddizione. In altri termini, poiché il nominalismo dogmatico ha già neutralizzato ogni pretesa veritativa, non c’è più necessità di criticare la singola pretesa di verità; la critica è lasciata all’umore: può esserci, può non esserci. L’esposizione di Foucault può non prendere sul serio il contenuto logico del suo oggetto, può accettarlo come un particolare tra gli altri particolari e restare indifferente alla minaccia contenuta nella sua pretesa di verità, trascurare di dare l’allarme e privarsi di efficacia politica.
Mentre nel XVI e XVII secolo il governo regolava con una sua giurisdizione il mercato affinché fosse giusto, dalla metà del XVIII il mercato è vero, e a questa sua verità deve limitarsi il governo che vuole la prosperità e la potenza dello Stato. Nel tramonto del problema della giustizia del mercato, nel presupporlo come manifestazione della verità e nella conseguente sollecitazione che esso diventi norma dell’azione di governo consiste il liberalismo. Foucault non si impegna nella critica in concreto di questo rovesciamento. La critica in concreto non consiste nell’assoggettare l’oggetto a un criterio estraneo, a un dover-essere soggettivo, consiste invece nel riconoscere la sua intima contraddittorietà. In questo senso l’atteggiamento acritico è una perdita di contatto con l’oggetto. Qui l’oggetto è il liberalismo, l’ideologia generata non dal mercato in generale, cioè dallo scambio di equivalenti, ma dall’irruzione del mercato, tradizionalmente dislocato sui confini del sistema economico, dove si scambia il superfluo, nel suo cuore, nella produzione del necessario. Come Marx ha scoperto, e questo è uno dei suoi meriti immortali, l’irruzione trasforma intimamente il mercato e lo rende contraddittorio: mentre tradizionalmente era stato soltanto scambio pacifico e reciprocamente vantaggioso di equivalenti contrapposto alla violenza predatrice, ora è non solo scambio, ma anche spoliazione dei lavoratori, dunque una variante della violenza predatrice. In una parola: il mercato moderno è la contraddizione di essere opposto alla violenza predatrice e insieme violenza predatrice.
A differenza del mercato tradizionale, che scambia il prodotto eccedente, il mercato capitalista contiene come suo settore particolare il mercato del lavoro, caratterizzato da uno squilibrio cronico tra una offerta eccedente e una domanda deficitaria. Questo squilibrio essenziale del mercato capitalistico condanna l’offerta di forza-lavoro all’anelasticità esasperata: contrariamente alle altre merci la cui offerta reagisce in misura più o meno direttamente proporzionale alla variazione dei loro prezzi, la forza-lavoro, al diminuire del suo prezzo, continua ad offrirsi nella stessa quantità o addirittura in quantità maggiore: con la diminuzione di salari già vicini al livello di sussistenza gli operai desiderano (così amano esprimersi i manuali neoliberali di economia) l’aumento (anziché la diminuzione) del tempo di lavoro: desiderano gli straordinari o mandare in fabbrica coniuge e figli. Viceversa, l’aumento dei salari può portare a una diminuzione dell’offerta di forza-lavoro: all’aumentare del loro reddito i lavoratori potrebbero desiderare che i propri figli vadano a scuola anziché bruciarli in fabbrica, o addirittura l’aumento del loro tempo libero. In termini drastici si potrebbe dire che per la natura monopsonistica del mercato del lavoro la curva di offerta della forza-lavoro consiste in una proporzione inversa tra prezzo e quantità, dunque asseconda, invece di contrastarla come accade negli altri mercati, la domanda di forza-lavoro. È quanto registra il linguaggio comune, nel quale le ‘offerte’ di lavoro indicano non l’offerta di ore da parte degli aspiranti lavoratori, ma la domanda di lavoro da parte degli imprenditori[9]. Se quanto più diminuisce il prezzo della forza-lavoro, tanto più ne aumenta la quantità offerta, è ovvio che il mercato del lavoro efficiente appaia ai capitalisti una dolce carezza, una mensa gratis in un sistema che assegna a ogni cosa il giusto prezzo tramite uno snervante conflitto tra interessi, e faccia apparire il mercato in generale come un’eccitante navigazione sospinta da un costante vento in poppa. – Questa è l’origine dell’ottimismo liberale.
La contraddizione per cui nel mercato capitalista, in cui si scambiano equivalenti, si forma anche un settore in cui avviene il contrario dello scambio di equivalenti, consente la formazione di una nuova oligarchia, la borghesia capitalistica. Forte della propria sconfinata elasticità alle variazioni di prezzo di un’offerta di lavoro sconfinatamente anelastica, per esercitare il proprio potere sul lavoro essa non ha più bisogno, come le oligarchie feudali, di degradarsi all’uso della violenza e della superstizione; di qui il suo rigetto della morale cavalleresca e di quella religiosa. La borghesia capitalistica non riesce però a non occultare sotto un velo di universalità la propria natura oligarchica, non può non lenire la sua autocoscienza con una sua morale – il liberalismo – che mistifica come scambio di equivalenti lo stesso rapporto asimmetrico tra capitale e lavoro, che nega la contraddittorietà del mercato capitalistico (questa la prima origine del suo odio istintivo della dialettica) e lo purifica come meccanismo imparziale di formazione dei prezzi ottimali sulla base del libero scambio di equivalenti.
Poiché col metodo ha messo tra parentesi l’universale e con esso l’esigenza di verità, Foucault non è obbligato a prendere sul serio l’universalità del mercato e la sua pretesa di verità; poiché per principio considera tutto particolarità neutra, gli manca il pungolo di percepire la particolarità caustica a cui il mercato capitalistico è ridotto dalla sua natura contraddittoria. Egli non racconta la contraddizione, cioè non critica la cosa, trascura che la trasformazione in merce della forza-lavoro trasforma il mercato stesso da luogo di libero scambio, in luogo in cui la libertà dello scambio di equivalenti convive con la negazione della libertà, che solo da questo momento in poi, e solo per occultare questa antinomia, il pensiero oligarchico si configura come liberalismo universalizzante e attribuisce poteri di veridizione a ciò che in precedenza aveva bisogno di giurisdizione. Poiché non racconta la natura contraddittoria del mercato capitalistico e la natura oligarchica del liberalismo, il suo racconto perde lo spessore critico e si volatilizza nell’enumerazione delle casualità la cui congiunzione casuale ha dato alla luce quel rovesciamento.
Foucault tende a compensare la deludente neutralità di questo raccontare con uno sforzo retorico, parla di «una relazione poligonale, o poliedrica, se preferite, tra [diversi fenomeni]: una situazione monetaria specifica del XVIII secolo[10], con un nuovo afflusso di oro …, e una relativa costanza di monete …; la crescita ininterrotta, economica e demografica, che caratterizza quella stessa epoca; l’intensificazione della produzione agricola; l’ingresso nella pratica di governo di un certo numero di tecnici, dotati sia di metodi sia di strumenti di riflessione; infine la messa in forma teorica di una serie di problemi economici»[11]. Benché vi riconosca un «fenomeno di importanza essenziale nella storia dell’occidente», Foucault pensa che ci si debba limitare ‘semplicemente’ (e ripete due volte questo avverbio imbarazzato) a «conferirgli intelligibilità mettendo in relazione i differenti fenomeni» menzionati sopra. Nei «Lineamenti di filosofia del diritto», Hegel ha però rilevato la differenza tra genesi empirica e derivazione concettuale[12]: questa è portatrice della necessità della determinazione, dunque della sua scienza e, qualora si tratti di una determinazione etica, della sua maestà, quella ha un interesse soltanto storico e non può sostituire in alcun modo la prima, che le è del tutto indifferente. La genesi storica di una determinazione non ne può mai mostrare la validità universale, ma soltanto una necessità particolare, dipendente dalla casualità ed equivalente ad essa. Se si è deciso in anticipo che ogni universalità sia una generatio aequivoca e tuttavia si conserva un disperato bisogno di non ammutolire, allora non resta che volgersi alla genesi empirica. Nietzsche, che ha già percorso questa strada affinché si producesse la controprova dell’invalidità dell’universale, le ha dato il nome di genealogia.
Il discorso metodologico di Foucault sulla genealogia del liberalismo è esitante: rendere intelligibile il reale significherebbe mostrare non che è necessario (questo non sarebbe possibile, dice Foucault, senza notare che l’impossibilità è sinonimo della necessità, che dunque sta affermando la necessità della non necessità), ma ‘semplicemente’ che è stato possibile. ‘Necessario’ e ‘possibile’ non sono però determinazioni stabili, che sia possibile tenere distinte una volta per tutte: sono dialettiche, sono il proprio negarsi e mutare in altro. La possibilità da cui Foucault si attende l’intelligibilità, con tutta evidenza, non è l’astratta identità della cosa, è invece la possibilità reale, ossia un insieme di fenomeni dapprima indifferenti tra loro, le condizioni, che in quanto sono tutte le condizioni della cosa, perdono la loro prima indifferenza reciproca e sono risucchiate nell’unità della cosa stessa; mentre quella indifferenza delle condizioni ancora incomplete è la possibilità reale, il loro essere risucchiate in virtù della totalità, il ridursi a condizioni necessarie e sufficienti di un altro, cioè della cosa, è però già la necessità. La condizione è questo doppio: un indipendente e insieme un momento di un altro; come possibilità è indipendenza e, come necessità, è già momento chiuso nella compattezza della cosa. Poiché sono unite nella condizione, possibilità e necessità non possono essere pensate separatamente, e d’altra parte solo in quanto la possibilità reale è il proprio collassare nell’unità, solo in quanto essa è se stessa e la necessità, solo in ciò la possibilità è intelligibilità della cosa. Viceversa, se la condizione non si riducesse a momento, non subisse cioè la necessità, non sarebbe neanche possibilità e non offrirebbe nessuna intelligibilità. Che Foucault rifiuti la necessità e privilegi la possibilità, si restringe dunque al ribadire a posteriori l’ipoteca nominalistica del metodo. Esso ha liquidato a priori ogni universale, quindi ogni attesa di verità; la sua applicazione deve giungere allo stesso risultato anche a posteriori, deve mostrare che ciò che è di «essenziale importanza nella storia della governamentalità occidentale» è – non un risultato, sarebbe già troppo – ma un gioco casuale di circostanze e nulla più. Il sostanziale è casuale: questo è il principio del pensiero di Foucault; egli ha voluto mostrarlo nel campo della follia, della detenzione carceraria, della sessualità: ovunque nel XVIII secolo una ricombinazione casuale di fattori nelle pratiche giurisdizionali ha generato un atteggiamento veridizionale, una pratica di potere non più diretta, ma non meno, anzi più, pervasiva, perché concepita e spacciata come derivante da una conoscenza essenziale.
In questo modo il magistrale sforzo conoscitivo di cui Foucault è capace tende a neutralizzarsi da solo: «La critica che vorrei proporvi non consiste nel denunciare quel che ci sarebbe di continuamente – stavo per dire monotonamente – oppressivo sotto il dominio della ragione, poiché dopotutto, credetemi, la sragione è altrettanto oppressiva . Questa critica politica del sapere non consiste nemmeno nella messa a nudo della presunzione di potere implicita in ogni verità riconosciuta, perché, credetemi di nuovo, la menzogna o l’errore (è) anch’essa abuso di potere»[13]. In queste proposizioni, mentre parla di abuso di potere e quindi concede la possibilità di un uso del potere, nel contempo sopprime di nuovo questa possibilità uguagliando ragione e sragione, verità e menzogna sotto il segno dell’abuso. Poiché tutto, ragione e sragione, verità e menzogna, è abuso, ciò che resta da fare è mostrare la genealogia, cioè la casualità dell’origine di ogni quadro di regole da cui nasce ogni differenza tra vero e falso, proprio per mostrare la nullità della differenza. Infatti, poiché la verità è falsità e l’una e l’altra sono oppressione e abuso, «che importanza può avere sapere quando una determinata scienza ha cominciato a dire la verità?»[14]. Invece «la capacità di determinare quale [sia] il regime di veridizione che viene instaurato in un determinato momento», ossia la genealogia, «ha un’importanza politica attuale»[15] – nell’unico senso, però, che essa libera l’azione politica dalla preoccupazione del vero e del falso, così che può proiettarsi nel caso e forgiarvi un senso abusivo, non migliore degli altri abusi, ma neanche peggiore. Qui Foucault inclina di nuovo verso Nietzsche, il Nietzsche della «Seconda inattuale» per il quale il bisogno di conoscere la storia nasce dalla paralisi della capacità di fare storia, e solo la conoscenza che conosce che non c’è nulla da conoscere, che l’universale è soltanto la superiorità quantitativa di una particolare volontà di potenza che dà forma casuale alla casualità, sarebbe una conoscenza utile alla volontà di potenza, ossia alla politica. E se poi di questa deriva nella volontà pura si volesse cercare un ribaltamento teoretico, non si potrebbe fare a meno di sentire l’alito di Heidegger: se il vero e il falso sono determinati da regole ontiche determinate a loro volta dalla congiunzione casuale dei casi, allora «la storia della veridizione» è nel contempo la storia dell’essere che in quanto tale si manifesta nascondendosi nella nuda, ottusa eventualità.
Nella terza lezione il nominalismo estremo del metodo esposto nelle prime due lezioni diventa contenuto. Foucault rimprovera al liberalismo, e tanto più al neoliberalismo, non l’ipocrisia arcaicizzante della sua concezione del mercato, non che il mercato sia lo strumento di affermazione dell’oligarchia moderna, ma il fatto che basi la libertà del mercato su una regolamentazione pervasiva, asfissiante, non meno di quella posta in opera nello stato di polizia. Ossia, Foucault mostra chiaramente di condividere con il liberalismo l’identità di natura e libertà, di confondere, come il liberalismo, libertà e spontaneità, senza sospettare che la libertà pratica è il nesso pensato di diritto e dovere che si stabilisce tramite la negazione della spontaneità naturale operata dall’educazione e dalle leggi. Foucault non può percepire l’assurdo della concezione naturalistica della libertà, perché è l’a priori di ogni sua ricerca. Così ritiene che l’imperativo «sii libero» sia contraddittorio, mentre è ovvio che nell’individuo la libertà, essendo il nesso non spontaneo ma pensato di diritto e dovere, implica sempre quella forma di imperativo[16]. E poiché la libertà è il contenuto di un imperativo, produrla e organizzarla non sono prerogative del liberalismo, come crede Foucault, ma della vita politica in generale. La polemica di Foucault contro il liberalismo e il neoliberalismo anziché colpirli nel loro punto debole, cioè nella loro volontà di funzionalizzare lo Stato alle sole esigenze dell’oligarchia borghese, decade in una polemica anarchica contro la politica, che lo pone in prossimità per lo meno sentimentale con la fobia dello Stato alimentata dal neoliberalismo, nonostante ne abbia sondato con grande lucidità l’ipocrisia. Mentre gli sfugge la percezione della propria pericolosa vicinanza all’avversario, al tempo stesso concepisce come inconvenienti la sensibilità al pericolo, la pratica della sorveglianza e l’interventismo keynesiano per ovviare alle tendenze autodistruttive del mercato. Il non aver concepito l’essenza mediata della libertà lo spinge a non distinguere l’interventismo in stile neoliberale, in esclusivo favore del potere oligarchico, dall’interventismo keynesiano finalizzato alla piena occupazione, dunque essenzialmente antioligarchico. Se però il problema è l’interventismo in genere, e non l’interventismo in favore dell’oligarchia, allora è impossibile smascherare l’ipocrisia del neoliberalismo; anzi la sua esigenza conclamata sembra acquisire una giustificazione, quella di aver denunciato che i «meccanismi garanzia di libertà, messi in atto per produrre un surplus di libertà, o in ogni caso per reagire alle minacce che pesavano sulla libertà, appartenevano tutti all’ambito dell’intervento economico, vale a dire dell’imposizione, o in ogni caso dell’intervento coercitivo nel contesto della pratica economica»[17], cioè nel mercato.
Foucault manifesta un sovrano disprezzo per la dialettica; la ritiene «una logica che mette in gioco dei termini contraddittori nell’elemento dell’omogeneo». Ora, la dialettica non è esattamente questo, perché la contraddizione è l’opposizione a se stesso di un termine, e non è solo questo, perché essa è altrettanto[18] sviluppo della contraddizione dall’omogeneo. Ciò che Foucault oppone alla dialettica è però regressivo rispetto alla sua stessa immagine: una «logica della strategia», che non dissolve i termini in unità, ma stabilisce «le connessioni possibili tra termini disparati, che restano tali» – una logica della diversità (Verschiedenheit), di cui Hegel ha già mostrato l’instabilità: il mutare nell’opposizione, che a sua volta muta nella contraddizione. Nella sua forma canonica, ossia come metodo speculativo, la dialettica nutre lo stesso scetticismo nei confronti dell’universale che è proprio di Foucault: l’individuare la contraddizione nell’omogeneo, che Foucault disconosce, è proprio il momento della critica dell’universale. Ma essa non lo dissolve con una decisione sovrana, così da privarsi del terreno della scienza e da ridursi a quello della strategia. Come abbiamo detto, di contro all’individualità reale, che ha il potere di essere anche il contrario di se stessa, l’universale è la determinatezza che appare come identità, che dunque non è l’identità. Così, se è vero che l’universale non è già oltre se stesso come lo è l’individuale, tuttavia, in quanto è identità determinata, è l’impulso oltre se stesso. Nell’accogliere questo impulso, nel dissolvere l’universale mostrandone la contraddizione implicita, la dialettica lo conserva, gli rende onore, conservandolo come differenza e ritornandovi nel momento in cui la dissolve, ma non più come in un omogeneo, bensì come articolazione conciliata del particolare. È l’idea di conoscenza contro la logica della strategia in cui vero e falso finiscono risucchiati in una notte della falsità che spegne la stessa azione politica.
[1] Michel Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2015, edizione stabilita da F. Ewald e A. Fontana e tradotta da M. Bertani e V. Zini.
[2] Cfr. il terzo comma dell’art. 2: « L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico.» Il corsivo è nostro.
[3] Una pretesa tanto estrema quanto inconcludente. La trasformazione dell’uomo in imprenditore è infatti solo una variante della riduzione liberale dell’uomo a persona, la forma parossistica della contraddizione per cui l’homo oeconomicus è, da una parte, titolare di diritti dipendenti da un contesto politico, cioè dalla realtà della reciproca fiducia, e nel contempo è indifferente o addirittura ostile alla produzione del contesto politico da cui dipendono i diritti goduti: vi si insedia parassitariamente e non può che provocarne la disgregazione e la propria rovina.
[4] Si è rilevato come la conoscenza della storia di cui Marx dispone sia debole – per uno studioso straordinariamente produttivo quale Marx è stato, la debolezza non può essere imputata alla pigrizia, semmai alla volontà di negare la realtà della guerra.
[5] Cfr il § 328 dei ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ in cui la guerra è rappresentata in tutta la sua contraddittorietà.
[6] ‘Aufheben des Andernseyns’ lo definisce la logica di Hegel.
[7] Cfr. p. 85 della Nascita della biopolitica, op. cit.
[8] P. 65 dell’opera citata.
[9] L’elasticità è un termine piuttosto anodino per indicare il potere della domanda e dell’offerta, per celare i rapporti di forza già tipici del libero mercato: l’impossibilità di rinunciare a comprare la merce il cui prezzo è aumentato, l’impossibilità di rinunciare a vendere la merce il cui prezzo è disceso contrassegnano l’impotenza del consumatore e del produttore. Essi hanno potere se possono reagire: il lavoratore ha potere se al diminuire del salario può non andare a lavorare, ossia può sostituire il salario con un’altra forma di reddito, il capitalista ha potere se all’aumento del salario può non acquistare forza-lavoro, cioè può cambiare il settore di investimento o sostituire la forza-lavoro con un altro fattore produttivo – dove si vede subito che il venditore di forza-lavoro è appunto determinato dalla mancanza di altra forma di reddito. Su questo argomento cfr. Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia, Imprimatur, 2016 Reggio Emilia, pp. 88 sgg., in cui la curva dell’offerta della forza lavoro è rappresentata, ancora troppo ottimisticamente, da una retta verticale.
[10] Il testo presenta ‘XVII’, ma è sicuramente un refuso, poiché nel XVII secolo si verifica il contrario di ciò che la frase gli attribuisce.
[11] Cfr. p. 40 dell’opera già citata di Foucault.
[12] Cfr. la nota al § 3.
[13] A p. 43 dell’opera citata.
[14] Più sotto nella stessa pagina
[15] Poco più sotto.
[16] Cfr. p. 65. Non ha nulla di contraddittorio neanche nel significato di «sii spontaneo»; esso infatti equivale all’imperativo: «Non tener conto delle convenzioni che abbiamo stabilito tra noi e dà soddisfazione ai tuoi impulsi».
[17] P. 71 dell’op. cit.
[18] Anzi, nel suo significato pregnante, è solo sviluppo della differenza dall’omogeneo; il momento dell’unirsi dei differenti è quello speculativo.
Molto interessante come sempre il buon Paolo di remigio.
Mi permetto solo di osservare che le grandi ideologie escatologiche moderne (liberalismo, comunismo, anarchismo) sono figlie della sovversione originaria operata dal cristianesimo.
è il cristianesimo, figlio dell’ebraismo e quindi della condanna biblica della Storicità come peccato e quindi di Caino come assassino, a operare la separazione fra civitas dei (eterna e perfetta) dalla civitas in terra (transeunte e corrotta).