Sapir: l’Euro e il contesto internazionale
Un importante articolo di Sapir disegna i processi mondiali ed europei verificatisi negli ultimi trent’anni: la fine dell’Unione Sovietica e la preoccupazione per lo strapotere degli Stati Uniti hanno spinto la Francia ad avviare una costruzione europea che però è subito andata fuori dal suo controllo per diventare preda della globalizzazione e devastare le economie e le istituzioni del mezzogiorno europeo; l’impossibilità degli Stati Uniti di conservare il ruolo di iperpotenza ha infine messo in crisi la globalizzazione e sta ricreando la situazione normale di un mondo diviso in Stati sovrani che, si spera, cerchino e trovino la via della cooperazione.
Traduzione di Paolo Di Remigio
L’articolo può essere consultato al seguente indirizzo:
http://russeurope.hypotheses.org/5425
L’euro e il contesto internazionale
di Jacques Sapir • 12 novembre 2016
La nascita dell’euro risale a un periodo in cui si poteva credere, o almeno avere l’illusione, della fine delle Nazioni. Se le possibilità di una moneta unica per i paesi della Comunità economica europea erano state evocate molto presto, dalla fine degli anni ’60 all’inizio degli anni ’70 e in particolare dal «Piano Werner»[1], è nel 1989 che sono state prese le decisioni che miravano a fare dell’Unione economica e monetaria (UEM), e dunque dell’Euro, uno dei pilastri della futura Unione europea generata dall’«Atto unico» del 1984, e di cui il trattato di Maastricht avrebbe scritto il copione [2].
Il contesto della fine degli anni ’80 e l’errore strategico delle élite francesi
L’origine dell’euro e della UEM va cercata direttamente nel rapporto Delors, che fu pubblicato nell’aprile 1989[3]. Si era allora nel periodo segnato dalla perestrojka in URSS ed era divenuto evidente che essa avrebbe segnato la fine dell’Europa quale era stata generata dalla fine della seconda guerra mondiale. Si può supporre che ciò che guidava allora gli esperti riuniti sotto la bacchetta di Delors fosse il tentativo di costruire un porto di stabilità in Europa, attorno al quale avrebbero potuto aggregarsi i paesi dell’ex campo sovietico. Gli obiettivi geostrategici sono dunque stati probabilmente dominanti, anche se nel rapporto non sono stati esplicitati apertamente.
L’obiettivo principale della regolamentazione della UEM era di completare il mercato unico europeo con una moneta unica e una forte stabilità di prezzi. In un certo senso, la UEM e l’euro che ne discendeva derivavano direttamente dall’Atto unico europeo, entrato in vigore nel 1987[4]. Oggi si tende a dimenticarlo, ma l’Atto unico europeo fu il primo testo a includere dispositivi sovranazionali nei meccanismi istituzionali di quella che ancora all’epoca era la CEE. Tuttavia, in quanto prevedevano l’abolizione di tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra gli Stati membri, la UEM e l’euro erano prodotti caratteristici del periodo della fine degli anni ’80. Si era in un periodo segnato dall’ascesa dell’ideologia neoliberale, che si traduceva in un disprezzo delle Nazioni e in un’importanza sempre maggiore delle strutture sovranazionali. Il trattato di Maastricht ne porta tracce incontestabili. [5]. Più in generale, l’ideologia dell’epoca in Europa, e in particolare in Francia, è segnata dall’idea della necessità di un superamento delle Nazioni e questo nel momento stesso in cui alcune nazioni ritrovavano la loro sovranità. Non si poteva fare un controsenso storico più grande rispetto periodo e al contesto.
Conviene allora ricordare il contesto geopolitico dell’epoca. La fine dell’Unione Sovietica, che planava sulle relazioni internazionali dopo l’inverno 1990-1991, prima di diventare una realtà nel dicembre 1991, aveva lasciato gli Stati Uniti come sola superpotenza esistente [6]. Si era persino forgiato su questa materia il vocabolo di iperpotenza [7]. Il XXI secolo si annunciava dunque, almeno in apparenza, come il secolo americano. Per i paesi europei questa situazione implicava degli aggiustamenti importanti. Alcuni, di cui Jacques Delors non fu l’unico, ne dedussero che era dunque tempo di superare gli Stati e di costituire, in Europa, un polo suscettibile di equilibrare questa «iperpotenza» americana. Tuttavia questo progetto era profondamente viziato sin dall’inizio. La Francia era certo uno dei pochi paesi, se non il solo, a difendere l’idea di una «Euro – potenza». Per la maggioranza degli altri Stati europei, o almeno facenti parte all’epoca della CEE, l’idea dominante era invece di abbandonarsi alle delizie del grande mercato, restando ben sigillati sotto la potenza militare americana. Ma gli Stati Uniti hanno mostrato di non essere capaci di assumere le responsabilità che erano loro toccate. Tra fallimenti geopolitici e finanziari, sono loro stessi che – a loro insaputa – hanno messo fine a questo tentativo abortito di far nascere il secolo americano [8]. E qui ci sono alcuni punti di questo periodo importanti da ricordare. Infatti, il progetto geopolitico della moneta unica europea, dell’euro, è stato costruito su un’analisi della situazione internazionale che si è rivelata falsa. Il mondo non andava placidamente verso il superamento delle Nazioni, sotto l’egida della potenza americana. Quest’ultima si sarebbe mostrata incapace di organizzare il mondo durante il breve periodo, dal 1991 al 1997, in cui fu realmente onnipotente. Ne segue che i presupposti geopolitici dell’euro non furono mai riuniti che molto fuggevolmente per qualche anno. Quando l’euro fu realmente posto in essere, la situazione era già cambiata radicalmente. L’euro si rivelava obsoleto prima ancora di esistere, e con esso una buona parte del progetto europeo mirante alla costruzione di un’Europa sovranazionale. In un certo senso, perfino un partigiano feroce dell’Europa come Michel Rocard l’ha riconosciuto qualche mese prima della morte [9].
Si può considerare che le élite francesi, e in particolare François Mitterrand, abbiano visto nell’euro e nella rinuncia alla sovranità monetaria francese il prezzo da pagare perché potesse realizzarsi il progetto francese dell’Euro – potenza. Ma questo progetto implicava, in realtà, che l’insieme degli altri paesi fosse convinto delle posizioni francesi. Questo non poteva essere e non fu. Ne risulta che la Francia ha pagato un prezzo molto pesante, perché il prezzo economico dell’euro, ma anche il suo prezzo sociale con l’esplosione della disoccupazione, deve necessariamente sommarsi a quello della politica del «franco forte» condotta per consentire la creazione dell’euro, senza poter raggiungere le compensazioni politiche che i suoi dirigenti dell’epoca ne speravano. Il riconoscimento di questo smacco strategico oggi è centrale nel cambiamento di politica in Francia. Ma è impossibile a una data élite ammettere di avere sbagliato strategia. Essa preferirà infilzarsi sempre più in profondità con il suo errore. Occorre dunque, per cambiare politica, cambiare radicalmente élite.
Un contesto internazionale mal compreso dalle élite francesi
Infatti, non soltanto le élite francesi di quest’epoca avevano commesso un errore strategico maggiore cercando di scambiare la sovranità francese con un controllo politico sull’Unione europea, ma avevano anche letto male la realtà del contesto internazionale. Il «nuovo secolo», iniziato con la fine dell’URSS, non doveva essere il secolo americano ma, al contrario, quello del ritorno delle nazioni.
La vera rottura si è prodotta su più terreni. In economia ha avuto luogo durante la crisi finanziaria internazionale del 1997-1998 e negli avvenimenti che sono seguiti. Questa crisi ha dimostrato che gli Stati Uniti e le istituzione che essi controllavano erano incapaci di dominare la liberalizzazione finanziaria internazionale che avevano suscitata e imposta a numerosi paesi. In modo significativo, fu la Cina che, con una politica responsabile, assicurò, in quella che si è chiamata la «crisi asiatica», la stabilità dell’Estremo Oriente, mentre le prescrizioni americane fallivano in Indonesia ed erano apertamente rigettate in Malesia. Questa crisi è anche stata il tornante decisivo nella storia della Russia post-sovietica. L’effetto immediato del crac dell’agosto 1998 era sembrato devastante [10]. Il paese era stato costretto a dichiarare fallimento sul suo debito e il suo sistema bancario era sbriciolato. Tuttavia, lungi dal significare la fine della Russia, questa crisi è stata il segnale di un rinnovamento del paese. Liberandosi progressivamente delle tesi neoliberali che avevano dominato gli anni ’90, la Russia si è ricostruita attorno a un progetto nazionale e industrialista. La messa a nudo dei limiti della potenza degli Stati Uniti e l’emergenza (o la ri-emergenza) di attori concorrenti (Cina, poi la Russia) sono state la parte visibile della scossa indotta da questi avvenimenti. La crisi ha anche portato numerosi paesi a modificare le loro strategie economiche, conducendoli a politiche commerciali molto aggressive, la cui somma provoca oggi una fragilizzazione generale dell’economia mondiale.
Questa rottura ha avuto luogo anche nella geopolitica. La giravolta della politica americana era già evidente con l’impegno crescente degli Stati Uniti nella crisi dei Balcani degli anni ’90. Doveva tuttavia manifestarsi con forza in occasione dell’invasione dell’Iraq nel 2003. Questa invasione è stata il punto supremo raggiunto da uno scompiglio politico che si può identificare come interventismo provvidenzialista nella politica americana [11]. Questo interventismo ha aperto la via alle guerre settarie che si vedono sviluppare oggi e di cui il sedicente «Stato islamico» non è che una forma particolarmente radicale. Infatti, è noto che, per opporsi al dominio sciita sul governo irakeno, il governo americano ha suscitato una forma di opposizione armata, che ha fatto nascere l’organizzazione che si fa chiamare «Stato islamico». Il generale Vincent Desportes l’ha riconosciuto nel 2014 davanti alla commissione parlamentare per gli affari esteri, della difesa e delle forze armate: «Chi è il dottor Frankenstein che ha creato questo mostro? Diciamolo chiaramente, perché questo ha delle conseguenze: sono gli Stati Uniti. Per interesse politico a breve termine, altri attori – di cui alcuni si atteggiano ad amici dell’Occidente –, altri attori, dunque, per compiacenza o per volontà deliberata, hanno contribuito a questa costruzione e al suo rafforzamento. Ma i primi responsabili sono gli Stati Uniti» [12].
Questa situazione di crisi permanente e di attentati dall’11 settembre ai tragici avvenimenti della Siria e dell’Iraq ha accelerato il ritorno delle Nazioni. Ma questo ritorno delle Nazioni si produce in un quadro che non è stato pensato. L’accecamento delle élite, e non soltanto francesi, ben inteso, ha fatto sì che questo ritorno delle Nazioni si verifichi in condizioni caotiche, nel mezzo di un ritorno di conflitti e contrasti internazionali. Qui la colpa incombe soprattutto sugli Stati Uniti.
L’impasse del neo-conservatorismo e l’incapacità di pensare il ritorno delle Nazioni
Inebriati da quella che considerano come una «vittoria» nella guerra fredda, traendo conclusioni erronee dal consenso internazionale di cui godevano per la prima guerra del Golfo (1991), gli Stati Uniti sono stati vittime della hybris dell’ottimismo. La vittoria rapida e facile nella guerra del Golfo ha avuto immediatamente degli effetti sulle rappresentazioni americane. Il presidente dell’epoca, George H. Bush, lo ha ben compreso nel dichiarare: «Per Giove, questa volta abbiamo compensato per sempre la sindrome del Vietnam [13]». A questo sentimento di potenza ritrovata si aggiungeva rapidamente la constatazione del potere indiretto offerto dall’egemonia del Tesoro americano sulle organizzazioni finanziarie internazionali, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, nel contesto della transizione delle economie ex-sovietiche. Ma questo sentimento di potenza non doveva durare che qualche anno ed estinguersi in seguito alla crisi finanziaria del 1997-1998.
Lo scompiglio politico e ideologico si è impadronito degli Stati Uniti in seguito a questa crisi del 1998 ed è stato aggravato dalla presa di coscienza del progresso della proliferazione nucleare [14], con gli esperimenti pakistani e indiani. Questi esperimenti mostrano che dei paesi, considerati peraltro dagli Stati Uniti relativamente vicini, non sono direttamente controllabili e perseguono strategie proprie. L’iperpotenza si rivela incapace di controllare l’emergenza di potenze a vocazione regionale. La percezione americana del mondo si inverte allora brutalmente. Passa dal trionfalismo dell’inizio degli anni ’90 a un sentimento di paura diffuso davanti a un mondo esterno percepito brutalmente come minaccia diretta al santuario nord-americano. La politica dei neoconservatori era in realtà costruita su una serie di scorciatoie ideologiche [15]. Questa politica andava contro quello che avrebbe dovuto essere il potere di una vera iperpotenza desiderosa di esercitare la sua egemonia tramite il consenso che suscitano le sue azioni. Essa è finita nei disastri politici, diplomatici, ma anche militari, che si possono osservare oggi in Libia e in Siria, come si sono potuti osservare ieri in Iraq e in Afganistan. Si impone ormai il bilancio. La «potenza dominante» del «primo» XXI secolo è oggi contestata e ampiamente screditata. Una parte del suo discorso è andata in pezzi, ciò che, in un mondo superconnesso, è una sconfitta non meno importante di quelle inflitte dalle armi.
Si sono risollevate antiche potenze, come la Russia, mentre altre sono sul punto di affermasi, in India e in Cina. L’imperium agonizza prima ancora di essere nato. I disastri indotti dalla politica americana hanno prodotto i loro effetti. Senza la fase neoconservatrice della politica americana e il fallimento di quest’ultima, c’erano poche chance che i legami tra la Russia, la Cina e i paesi dell’Asia centrale si cristallizzassero nell’Organizzazione di sicurezza di Shanghai, la prima organizzazione di sicurezza internazionale dopo la guerra fredda [16]. C’erano anche poche chance che, sulla base dell’OSC, si costituisse il gruppo dei BRICS [17], gruppo che ha tenuto un nuovo vertice a Goa nei primi giorni d’ottobre 2016.
Si dice spesso che i BRICS sarebbero in declino, che li minerebbero le differenze di visioni e di interessi al loro interno. Ma non è vero. Tutte le congetture che poggiano sulla loro eterogeneità, si tratta, com’è noto, di due potenze neo-comuniste e di tre potenze «democratiche», sono regolarmente sconfessate dai fatti. Si vede l’affermazione di quello che diventa un nuovo Forum mondiale, un Forum alternativo all’iperpotenza americana in declino, e questo mentre il tentativo degli altermondialisti di costruire un’alternativa è completamente scomparso. La forza dei BRICS si conserva in quanto hanno trovato un comune denominatore. Li salda l’opposizione tanto agli Stati Uniti quanto al dominio occidentale sulle istituzioni del dopoguerra, quelle di Bretton Woods – FMI innanzitutto.
Si noterà che la dichiarazione finale al vertice di Goa taglia nettamente sul piano geopolitico con quelle dei recenti vertici del G7 ma anche con quella dell’ultimo G20 che si è tenuto in Cina in ottobre a Hangzhou [18]. Taglia, poi, sulla Siria, nel colpire chiaramente il «terrorismo» e nel sottintendere che Daesh sia un’emanazione degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita. Si deve anche notare l’insistenza nel fare dell’ONU il solo arbitro legittimo dei conflitti internazionali con un sostegno in appoggio dell’India, del Brasile e del Sud-Africa perché ottengano un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’istituzione. Si noterà anche la richiesta ormai esplicita che gli Europei cedano due seggi nel FMI. In breve, un bilancio importante sul piano politico, che accompagna misure altrettanto importanti in economia.
Di fatto, qui siamo rinviati alla fine del duopolio che strutturava il mondo della «guerra fredda» e che appare oggi come un’anomalia storica. Dal trattato di Vestfalia, e perfino molto prima, il «mondo», che sia occidentale o che lo si consideri «mondo» in un’ottica planetaria, è sempre stato multipolare. Oggi torniamo a una situazione normale di relazioni internazionali, quelle che prevalevano negli anni ’20 e ’30. Ma perché un paese come la Francia possa ritirarsi da una situazione difficile in questo sistema di relazioni internazionali, è importante che possa recuperare la sua sovranità monetaria. Questo implica necessariamente che si metta fine all’euro. Si misuri allora il carattere arcaico della moneta unica, che invece si credeva una forma di risposta alle sfide del XXI secolo.
Un nuovo contesto internazionale
Questo impantanamento americano ha conseguenze temibili e drammatiche nel dominio delle rappresentazioni. Per aver strumentalizzato per più di dieci anni i valori universali, quelli che si chiamano, per farla breve, «diritti dell’uomo», l’iperpotenza americana li sta trascinando nel suo declino. Non c’è nulla di più distruttivo per le nazioni come per la democrazia, per la libertà o per i diritti dell’individuo che volerli imporre con le bombe a frammentazione e con il napalm.
Da questo punto di vista, il discorso che fu pronunciato dal presidente Vladimir Putin nel febbraio 2007 a Monaco merita ancora di essere citato e analizzato con precisione [19]. Infatti Vladimir Putin è il dirigente politico che con più coerenza ha tratto insegnamento da quello che è successo tra il 1991 e il 2005. In mancanza di una base morale ed etica che permetta di fare sparire la politica delle relazioni internazionali, queste ultime non possono essere gestite che attraverso il principio fondamentale del diritto internazionale, ossia la regola dell’unanimità e il rispetto delle sovranità nazionali. Ora, constata il presidente russo, gli Stati Uniti tendono a trasformare il loro diritto interno in diritto internazionale alternativo. Conviene dunque leggere con attenzione questo testo, che costituisce una definizione precisa della rappresentazione russa delle relazioni internazionali e in rapporto al quale i dirigenti russi non hanno cambiato avviso, come mostra il discorso fatto da Vladimir Putin durante la conferenza del Club Valdai del 2016 [20]. Due punti importanti si evincono, la constatazione del fallimento di un mondo unipolare e la condanna del tentativo di sottomettere il diritto internazionale al diritto anglo-americano: «Penso che il modello unipolare non soltanto sia inammissibile per il mondo contemporaneo, ma che sia affatto impossibile. Non soltanto perché, nelle condizioni di un leader unico, il mondo contemporaneo (e sottolineo: contemporaneo) mancherà di risorse politico-militari ed economiche. Ma, ed è ancora più importante, questo modello è inefficace, perché non può in nessun caso poggiare su una base morale ed etica della civiltà contemporanea [21] ».
Questo passaggio mostra che la posizione russa articola due elementi distinti ma legati. Il primo è un dubbio sulle capacità di un paese (qui si allude chiaramente agli Stati Uniti) di mettere insieme i mezzi per esercitare in maniera efficace la sua egemonia. È un argomento realistico. Perfino il paese più potente e più ricco non può da solo assicurare la stabilità del mondo. Il progetto americano sorpassa le forze americane.
Ma c’è un secondo argomento che non è meno importante e si situa al livello dei principi del diritto. Non esistono norme che possano fondare l’unipolarità. Nella sua opera del 2002 Evgenij Primakov diceva lo stesso [22]. Questo non vuol dire che i differenti paesi non possano definire interessi comuni, né che non vi siano valori comuni. Il discorso di Putin non è «relativista». Constata semplicemente che questi valori (la «base morale ed etica») non possono fondare l’unipolarità, perché l’esercizio del potere, politico ed economico, non può essere definito in termini di valore, ma deve esserlo in termini di interessi. Il secondo punto segue nel discorso e si trova espresso nel paragrafo seguente: «Siamo testimoni di un disprezzo sempre più grande dei principi fondamentali del diritto internazionale. Di più, certe norme e, di fatto, quasi tutto il sistema del diritto di un solo Stato, innanzitutto, ben inteso, degli Stati Uniti, sono debordati dalle sue frontiere nazionali in tutti i domini, nell’economia, nella politica e nella sfera umanitaria, e sono imposti ad altri Stati [23] ».
In mancanza di una base morale ed etica che permetta di fare sparire la politica delle relazioni internazionali, ossia l’opposizione amico-nemico, queste ultime non possono essere gestite che con il principio fondamentale del diritto internazionale, ossia la regola dell’unanimità e il rispetto delle sovranità nazionali [24]. Ora, il presidente russo constata che gli Stati Uniti tendono a trasformare il loro diritto interno in diritto internazionale alternativo. Ne segue che la visione politica della situazione internazionale che caratterizza Vladimir Putin e i suoi consiglieri è nettamente più pessimista di quella dei loro predecessori. Questo pessimismo incita dunque il potere russo ad auspicare una ripresa rapida delle capacità del settore delle industrie ad alto contenuto tecnologico e dell’armamento. La politica economica diviene allora in parte determinata dall’analisi della situazione internazionale [25]. È la constatazione che si era potuta fare sulla nascita dell’euro nelle istituzioni europee. Ora, la situazione internazionale non si è evoluta come pensavano i padri dell’euro. Ciò implica che l’euro sia divenuto ampiamente obsoleto nel nuovo contesto internazionale [26].
Quale cooperazione nel mondo multipolare?
Tale è dunque il mondo nel quale viviamo. È un mondo sicuramente multipolare, ma dove i dirigenti di molti paesi, che siano gli Stati Uniti o la Francia, rifiutano di ammettere le conseguenze di questa multipolarità. È anche il mondo del BREXIT, che ha visto la Gran Bretagna votare per l’uscita dall’Unione europea, e che ha visto infine, l’8 novembre, l’elezione di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti. Questo mondo è proprio quello del ritorno delle Nazioni. Ciò non implica la «guerra di tutti contro tutti». La cooperazione internazionale resterà una necessità. Ma questo ritorno delle Nazioni invalida radicalmente il quadro geopolitico nel quale l’euro era stato concepito. Questo mondo significa in realtà la fine delle forme di organizzazione sovranazionale che venticinque anni fa sono state presentate come il nec plus ultra della coordinazione. Le conseguenze di tutto questo sono importanti. Bisogna pensare la coordinazione tra le nazioni sovrane e pensare questa coordinazione non come prodotto della somma delle «buone volontà» da parte dell’uno e dell’altro, ma come la considerazione realista degli interessi di ciascuno. In un senso, questo implica l’uscita dal mondo dei cartoni animati che si cerca di presentarci e che molto spesso era solo la copertura ideologica della più nuda violenza esercitata da un gruppo di paesi su un altro, come si è potuto vedere nella natura delle relazioni della Germania e dei suoi alleati (tra i quali occorre annoverare, ahimè, la Francia) con la Grecia nel 2015. Ma questa cooperazione internazionale oggi è ancora possibile?
Si può considerare, come ha fatto Francis Fukuyama, che la sicurezza internazionale sia un bene pubblico [27]. Ma non se ne può dedurre la superiorità di una istanza sovranazionale. Dedurne anzi una legittimazione dell’interventismo unilaterale americano presuppone che nello stesso momento sia dimostrato che questo interventismo sia creatore di sicurezza (e se ne può dubitare dopo l’esperienza in Afganistan e in Iraq e le sue trasformazioni per procura in Libia) e che la nozione di «sicurezza internazionale» sia realmente comune a tutti gli attori del gioco mondiale. Lo stesso vale per la «globalizzazione » o «mondializzazione». La parola ricopre realtà differenti, addirittura contraddittorie secondo i paesi [28]. Lungi dall’essere un «movimento» che sorgerebbe da un ordine naturale, essa è stata una politica seguito da certi Stati, innanzitutto dagli Stati Uniti. Essa era molto contestabile all’inizio del 2000 [29]. Essa è oggi apertamente contestata, come si può vedere nella contestazione importante che sale contro i differenti trattati di libero scambio, sia quello tra l’Unione europea e il Canada (il CETA) che quello tra gli Stati Uniti e l’Unione europea (il TAFTA). È d’altra parte interessante constatare che i lavori sedicenti scientifici utilizzati per legittimare i precedenti accordi sono stato contestati quanto alle basi stessi sulle quali erano stati realizzati [30]. Il capitalismo non si è sviluppato in un giorno sull’insieme del globo. Ha conquistato progressivamente una parte dell’Europa, poi, prima ancora di estendersi all’insieme del continente, è salpato, portato dai cargo e dalle flotte da guerra, per aprirsi nuovi mercati. Lo sviluppo mondiale del capitalismo è la storia di ondate successive di entrate nel mondo mercantile e salariale e nell’industria. Alexandre Gerschenkron ha mostrato in maniera definitiva come questo processo per ondate abbia indotto rapporti di forza specifici tra i paesi «primi» e i paesi «secondi» e come questi rapporti di forza specifici abbiano incitato i «secondi» ad adottare forme di capitalismo differenti da quelle dei «primi» [31]. È la reazione degli Stati nazione, alcuni minacciati nella loro potenza e altri nella loro esistenza stessa dai paesi «primi», che ha ingrandito lo sviluppo mondiale del capitalismo. Qui non occorre cercare nessuna razionalità economica.
Non che l’euro sia privo di ogni razionalità economica. Poggia sull’idea che il grande mercato europeo abbia effetti integratori, tanto economicamente che politicamente. Ma questa idea è molto discutibile. In un libro recente si è mostrato come sui benefici dell’euro sia stato costruito un discorso che non poggiava su alcuna realtà [32]. Inoltre, bisogna sapere che è proprio l’accettazione da parte del governo francese della regola della libera circolazione dei capitali che ha portato a fare dei tassi di interesse tedeschi i padroni dei tassi francesi. Questo ha offerto un argomento a quelli che vorrebbero affondare la sovranità monetaria francese, permettendo loro di argomentare che non possiamo fare uso di questa sovranità. Ma dicendo questo dimenticano – o fingono di dimenticare – che accettando la regola della libera circolazione dei capitali abbiamo messo noi stessi la nostra testa sul ceppo. L’introduzione di un controllo dei capitali, ciò che oggi è raccomandato dal FMI in un certo numero di casi [33], avrebbe evitato le fluttuazioni instabili. Questo non vuol dire che non sia auspicabile una coordinazione dei tassi di interesse. Ma questa coordinazione deve poter tenere conto degli interessi di tutti e non deve essere incompatibile con gli interessi di una delle parti che prendono parte a questo «gioco» di coordinazione. Ciò implica che le regole sovrane siano rispettate e che deve potersi instaurare un gioco di dissuasione.
L’integrazione tramite il commercio è un mito
Fondamentalmente, l’idea che negli anni ’80 avremmo ritrovato una tendenza a un’integrazione tramite il commercio si rivela così un mito. Questo è stato mostrato da Paul Bairoch e da Richard Kozul-Wright in uno studio sistematico di questi flussi realizzato nel 1996 per la Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo (CNUCED) [34]. Non c’è stata mai dunque un’«età dell’oro» della globalizzazione, che sarebbe terminata con la prima guerra mondiale e che sarebbe stata seguita da un lungo periodo di arretramento, prima di conoscere un rinnovamento dopo gli anni ’70. È proprio tutta l’immagine di un cammino che si vorrebbe armonioso verso il «villaggio globale» che si trova messa profondamente in questione. È questa idea che spinge al cambiamento dalla coordinazione tra Nazioni sovrane alla sottomissione a istanze sovranazionali. Questo dibattito è continuato nel periodo recente e i suoi risultati sono stati gli stessi. Conserviamo però, per il momento, l’immagine che ci è offerta da Rodrik e Rodriguez [35].
La spinta verso una maggiore apertura non è dunque stata favorevole al maggior numero [36]. Soprattutto non ha permesso una migliore integrazione all’interno delle frontiere [37] (e il Brexit e l’elezione di Trump lo confermano), conducendo invece alla marginalizzazione di falde intere e perfino maggioritarie delle popolazioni [38]; essa non ha neanche permesso l’integrazione al di là delle frontiere, come si constata con la crescita delle forze centrifughe all’interno dell’Unione europea. Le differenze culturali e politiche tra i paesi non sono sparite. Occorre ammettere queste differenze se si vuole poterle gestire ed evitare che finiscano in conflitti inespiabili. Finché per una maggioranza di paesi la soluzione apparente sarà in un aumento di esportazioni, finché si mostrerà di credere che il commercio internazionale non potrà essere che un gioco a somma zero, in particolare in fase di recessione o di stagnazione, le volontà degli uni e degli altri renderanno impossibile l’emergere di un nuovo sistema. Occorrerebbero rotture significative sia con la globalizzazione delle merci che con la globalizzazione finanziaria perché si possano intravvedere soluzioni reali che siano efficaci in materia di crescita economica e stabili nel dominio finanziario.
L’Unione europea è qui una parte del problema più che una soluzione. Secondo i discorsi tenuti dai suoi adulatori, le si accredita il potere di proteggerci dalla globalizzazione. Al contrario, si è visto che è stata un vettore potente della globalizzazione, che si tratti della globalizzazione delle merci o della globalizzazione finanziaria [39]. Oggi si può dimostra che l’euro, in ragione del suo modo attuale di funzionamento e di organizzazione, ha accelerato la contaminazione delle banche europee da parte dei prodotti «tossici» provenienti dal mercato americano. L’euro ha anche condotto all’adozione di politiche economiche insensate in seno ai paesi della UEM, politiche che hanno avuto il solo effetto di rafforzare la posizione dominante della Germania. Questa politica è oggi senza idee e senza fiato.
L’avvenire è dunque aperto e la crisi attuale può far nascere sia un’anarchia che mette in pericolo le relazioni economiche internazionali che una de-globalizzazione ordinata, fondata sul rispetto di regole del diritto internazionale (e dunque della sovranità delle Nazioni) e degli insiemi commerciali regionali. Ma affinché questo possa porsi in essere è imperativo, è urgente che i paesi dell’Eurozona ritrovino la loro sovranità monetaria. È dunque imperativo dissolvere al più presto l’Eurozona.
Note
[1] Rapport Werner, Bruxelles, Bulletin des Communautés européennes, 8 ottobre 1970.
[2] du Bois de Dunilac P., « La longue marche vers un ordre monétaire européen – 1945-1991 », Relations internationales, no 90, 1997
[3] Delors J., Mémoires, Paris, Plon, 2004, 511 p
[4] de Ruyt J. (Dir.), L’acte unique européen, Bruxelles, Université de Bruxelles, Institut d’études européennes, 1989, 389 p.
[5] http://eur-lex.europa.eu/legal-content/FR/TXT/?qid=1454958852229&uri=URISERV:xy0026
[6] Robert A. Dahl, « The concept of power », Behavioral Science, vol. 2, n° 3, 1957, p. 201-215
[7] Questa parola viene da Hubert Védrine, che fu ministro degli Affari esteri dal 1997 al 2002. Vedi H. Védrine, Les Cartes de la France à l’heure de la mondialisation, Paris, Fayard, 2000.
[8] Sapir J., Le Nouveau XXIè Siècle, le Seuil, Paris, 2008.
[9] http://tempsreel.nouvelobs.com/journees-de-bruxelles/20151127.OBS0263/michel-rocard-l-europe-c-est-fini-on-a-rate-le-coche.html
[10] Sapir J., Le Krach russe, Paris, La Découverte, 1998.
[11] Sapir J., « Endiguer l’isolationnisme interventionniste providentialiste américain » in La Revue Internationale et Stratégique, n°51, automne 2003, pp. 37-44.
[12] http://www.senat.fr/compte-rendu-commissions/20141215/etr.html#toc7
[13].« By Jove, we’ve kicked the Vietnam syndrome once and for all » : proposizione riportata in Michael R. Gordon et Bernard E. Trainor, The General’s War : the Inside Story of the Conflict in the Gulf, Boston, Little, Brown, 1995.
[14].Quest’ultima non è nuova. Israele et il Sudafrica furono già dei proliferatori clandestini negli anni ’70 e ‘80, anche se in seguito il Sudafrica si è denuclearizzato.
[15] Francis Fukuyama ha offerto una buona analisi in F. Fukuyama, After the Neocons. America at the Crossroads, New Haven, Conn., Yale University Press, 2006 ; trad. fr. de Denis-Armand Canal, D’où viennent les néoconservateurs ?, Paris, Grasset, 2006.
[16] L’Organisation de Coopération de Shanghai et la construction de « la nouvelle Asie » (P. Chabal, dir.), Brussels, Peter Lang, 492 p., 2016. Fels E., Assessing Eurasia’s Powerhouse. An Inquiry into the Nature of the Shanghai Cooperation Organisation, Winkler Verlag, Bochum (Allemagne), 2009.
[17] http://www.ladocumentationfrancaise.fr/dossiers/d000534-l-emergence-des-brics-focus-sur-l-afrique-du-sud-et-le-bresil/la-montee-en-puissance-du-groupe-des-brics-bresil-russie-inde-chine-afrique-du-sud
[18] http://www.hindustantimes.com/india-news/statement-on-terror-in-brics-declaration-goa-2016-vs-ufa-2015/story-T7bSPtVhn8qnuBbCsT1xSN.html
[19] Vedi la dichiarazione del presidente russo alla conferenza sulla sicurezza che si è tenuta a Monaco il 10 febbraio 2007 e il cui testo è stato tradotto in La Lettre Sentinel, n° 43, marzo 2007.
[20] https://fr.sputniknews.com/russie/201610271028403988-vladimir-poutine-valdai-sotchi-intervention/ et http://valdaiclub.com/events/posts/articles/vladimir-putin-took-part-in-the-valdai-discussion-club-s-plenary-session/
[21] Vedi la rivista La Lettre Sentinel, n° 43-44, gennaio-febbraio 2007, p. 25.
[22] E. Primakov, Mir posle 11 Sentjabrja, op. cit., p. 138-151.
[23] La Lettre Sentinel, n° 43-44, gennaio-febbraio 2007, p. 25 sq.
[24] Sapir J., Le Nouveau XXIè Siècle, le Seuil, Paris, 2008.
[25] Sapir J., « Crisis of Globalization : The new context and challenges for national economies » in A.S. Zapesotsky (ed.), Contemporary Global Challenges and National Interest – The 15th International Likatchov Scientifi Conference, Saint-Petersbourg, 2015, pp. 142-145.
[26] Sapir J. « Fin d’un cycle de mondialisation et nouveaux enjeux économiques » in La Revue Internationale et Stratégique, n° 72 (Hiver 2008/09), pp. 92-107 ?
[27] Fukuyama F., State-Building, Governance and World Order in the Twenty-First Century, Ithaca, NY., Cornell University Press, 2004 ; trad. fr. de Denis-Armand Canal, Gouvernance et ordre du monde au xxie siècle, Paris, La Table ronde, 2005.
[28] Amsden A., Asia’s Next Giant, New York, Oxford University Press, 1989
[29] Rodriguez F., D. Rodrik, « Trade Policy and Economic Growth: A Skeptics Guide to the Cross-National Evidence » in B. Bernanke, K. Rogoff (dir.), NBER Macroeconomics. Annual 2000, Cambridge (MA), MIT Press, 2001. H.-J. Chang, « The Economic Theory of the Developmental State » in M. Woo-Cumings (dir.), The Developmental State, Ithaca, Cornell University Press, 1999 ; Kicking away the Ladder: Policies and Institutions for Development in Historical Perspective, Londres, Anthem Press, 2002.
[30] Anderson K., et W. Martin, Agricultural Trade Reform and the Doha Development Agenda, Washington, DC, Banque mondiale, 2005. Frank Ackerman, « The shrinking gains from trade : a critical assessment of Doha round projections », Medford, Mass., Tufts University, Global Development and Environment Institute, Working Paper n° 05-01, ottobre 2005. Timothy A. Wise et Kevin P. Gallagher, « No fast track to global poverty reduction », Medford, Mass., Tufts University, Global Development and Environment Institute, GDAE Policy Brief, n° 07-02, aprile 2007 ; Timothy A. Wise, « The WTO’s development crumbs », Foreign Policy in Focus, Washington, DC, International Relation Center, 23 gennaio 2006.
[31] Gerschenkron A., Economic Backwardness in Historical Perspective, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1962.
[32] Sapir J., L’Euro contre la France, l’euro contre l’Europe, Paris, Editions du Cerf, 2016.
[33] Ostry J. et al., « Capital Inflows: The Role of Controls », IMF Staff Position Note, Washington (D. C.), FMI, 2010.
[34] Bairoch P, R. Kozul-Wright, « Globalization Myths: Some Historical Reflections on Integration, Industrialization and Growth in the World Economy », Discussion Paper, n° 113, Genève, UNCTAD-OSG, mars 1996.
[35] Rodriguez F., D. Rodrik, « Trade Policy and Economic Growth: A Skeptics Guide to the Cross-National Evidence », op. cit.
[36] Vedi J. Sapir, « Libre-échange, croissance et développement : quelques mythes de l’économie vulgaire » in Revue du Mauss, n°30, 2e semestre, La Découverte, 2007, p. 151-171.
[37] Sapir J., « Le vrai sens du terme. Le libre-échange ou la mise en concurrence entre les Nations » in, D. Colle (edit.), D’un protectionnisme l’autre – La fin de la mondialisation ?, Coll. Major, Presses Universitaires de France, Paris, settembre 2009.
[38] Guilly C., La France périphérique : comment on a sacrifié les classes populaires, Paris, Flammarion, 2014
[39] Sapir J., La Démondialisation, Paris, Le Seuil, 2011.
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