Perché il mercato di bond governativi è “distorto”. E (per i Paesi del Sud Europa) lo è ancora di più
di VITO LOPS
Quello dei titoli di Stato è un mercato estremamente affascinante. Perché, a differenza di altre classi di investimento (azioni, bond societari, ecc.) oltre ad essere un mercato regolato da logiche finanziarie è anche regolato da logiche politiche. E nella maggior parte dei casi, l’intervento della politica lo rende un mercato, come dire, “distorto”. O comunque un unicum nel mondo finanziario.
Partiamo dalle logiche puramente finanziare. Vi siete mai chiesti perché i titoli di Stato hanno rendimenti così diversi? Ad esempio in questo momento il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni degli Usa è al 2,4% annuo e quello dei Bund tedeschi di pari durata è pari allo 0,27% (quindi 213 punti base in meno). Mentre il BTp italiano è al 2%. Allo stesso tempo i decennali giapponesi non danno alcun rendimento. La logica finanziaria ci aiuta a capire (in parte) queste differenze.
Il rendimento di un titolo di Stato è influenzato da questi 4 elementi finanziari puri:
aspettative di inflazione future del Paese che emette il bond (influenzate da politiche fiscali);
aspettative sui tassi di riferimento stabiliti dalla Banca centrale del Paese (influenzate dalla politica monetaria)
rischiosità del titolo (rating dell’emittente e durata)
effetto cambio (per la parte di investitori esteri che utilizzano valute diverse)
I primi tre elementi sono certamente più significativi. Il rendimento di un titolo di Stato tende a inglobare le aspettative future di inflazione. Se queste aumentano anche il rendimento (a patto che non sia un bond automaticamente indicizzato all’inflazione come il BTp Italia) tende ad adeguarsi di conseguenza. L’esempio scolastico è in questi giorni sotto gli occhi di tutti e arriva proprio dagli Usa. Con la vittoria di Trump le aspettative sull’inflazione a 5 anni sono balzate dal 2,1% al 2,5% (questo perché Trump ha promesso in campagna elettorale politiche fiscali espansive che, se attuate, avrebbero un impatto sulla crescita dell’inflazione). Non è quindi per nulla casuale che i rendimenti dei titoli di Stato americani stiano salendo. Oggi i decennali sono al 2,4%, il mese scorso invece viaggiavano intorno al 2%. Il recente rialzo dei rendimenti Usa quindi è facilmente spiegabile: il mercato sta incorporando nei nuovi tassi le mutate aspettative di inflazione.
Il secondo elemento finanziario riguarda la politica monetaria. Se i mercati si aspettano un rialzo dei tassi da parte della Banca centrale che guida la politica monetaria del Paese o dell’area di riferimento per il titolo di Stato, è chiaro che gli investitori andranno a prezzare anche nel rendimento dei bond questo mutato scenario. Questa dinamica la si evince in particolare sui titoli con scadenze brevi (fino a 2 anni). Ad esempio in questo momento i rendimenti dei titoli Usa a 2 anni sono saliti all’1,13%. Mentre i tassi di riferimento per i prestiti a breve alle banche commerciali da parte della banca centrale americana (quello che un tempo veniva chiamato tasso ufficiale di sconto) sono allo 0,5%. E’ chiaro che i mercati – che si muovono in anticipo – ai livelli attuali si aspettano che la Federal Reserve nei prossimi due anni alzi i tassi perlomeno di 63 punti base (la differenza tra 1,13% e 0,5%).
Il terzo elemento finanziario che determina il rendimento di un titolo di Stato è il livello di rischiosità del titolo. Questo aumenta se l’emittente (in questo caso uno Stato) ha un rating (giudizio di solvibilità) non elevato (quindi lontano dal massimo livello che è rappresentato dal giudizio AAA) ed è anche direttamente proporzionale alla durata. Più la scadenza è lontana più il rendimento tende a salire (in ragione del proverbio “del domani non v’è certezza”).
E poi c’è l’effetto cambio, con il mercato valutario che fluttuando crea una sorta di “tasso di equilibrio” per evitare distorsioni e arbitraggi da parte della domanda di bond governativi che arriva dall’estero. Anche in questo caso, quanto sta accadendo in questo momento negli Usa ci può aiutare a capire. Il dollaro si sta rafforzando su scala globale da diversi mesi. Nei confronti dell’euro il dollaro si è rafforzato del 7% dallo scorso maggio e dal 4% dal 9 novembre, giorno della vittoria di Trump alle elezioni per il 45° presidente degli Usa. Il rialzo del dollaro sull’euro ha compensato – nel portafoglio d un investitore europeo – la perdita derivante dalla svalutazione in corso dei prezzi dei titoli Usa (i prezzi sono inversamente proporzionali ai rendimenti, quindi quando salgono i rendimenti i prezzi scendono e viceversa).
Allo stesso tempo il “rischio cambio” funge da deterrente per quegli investitori europei che ora si chiedono se a questi prezzi (certamente più bassi di un mese fa) non valga la pena acquistare titoli di Stato Usa. A livello di prezzi ci potrebbe essere una convenienza ma l’investitore deve essere consapevole che un’ eventuale discesa dei rendimenti Usa (a cui farebbe da contraltare un aumento dei prezzi dei bond) sarebbe probabilmente accompagnata da una svalutazione del dollaro. Quindi il guadagno sul prezzo sarebbe comunque in parte o del tutto neutralizzato dalla perdita sul cambio (nel caso appunto l’euro come logico si rafforzasse sul dollaro). Anche la variabile del cambio gioca quindi la sua parte nel complesso meccanismo che porta ogni giorno gli investitori a stabilire il prezzo (e di conseguenza il rendimento) adeguato per un titolo di Stato.
E qui terminano le logiche finanziarie. Se il mercato si limitasse a seguire queste logiche i rendimenti dei titoli di Stato sarebbero del tutto equiparabili a quelli di altre obbligazioni o di altre asset finanziari, i cui prezzi sono lasciati fluttuare liberamente (senza interferenze politiche) sui mercati. Insomma, sbagliando o no, quella sorta di “intelligenza collettiva degli investitori” con cui oggi possiamo definire i “mercati”, stabilirebbe da par suo il prezzo e il rendimento ritenuto equo a contemplare l’evoluzione quotidiana di tutte le variabili finanziarie in gioco.
Ma sui mercati dei titoli di Stato spesso entra in gioco la variabile politica. Anzi, più che spesso, potremmo dire che negli ultimi anni la VARIABILE POLITICA è entrata nettamente nella determinazione dei rendimenti delle obbligazioni governative dei Paesi più sviluppati. Potremmo definire questa variabile come “il grado di protezione” offerto in caso di incertezze dalla banca centrale di riferimento. Bene, questo “grado di protezione” oggi cambia da Paese a Paese, da area ad area, e condiziona inevitabilmente la differenza di rendimento dei bond governativi. Più il “grado di protezione” (anche solo potenziale) è alto, più il rendimento (e quindi il costo del debito per un Stato) è basso. Lo si è visto chiaramente nell’estate del 2012. I rendimenti dei BTp a 10 anni sono crollati dal 6% al 2% dopo che il governatore della Bce Mario Draghi ha annunciato pubblicamente che la Bce avrebbe protetto i titoli di Stato europei qualunque cosa accada (“whatever it takes”). E’ bastata una frase per far scappare via gli investitori che speculavano su un ribasso. Il “grado di protezione” della banca centrale sui titoli di Stato di un Paese è decisivo per il semplice fatto che nessun fondo speculalitvo (hedge fund) o investitore in generale rischierebbe soldi nel puntare soldi contro una banca centrale che, teoricamente, ha una potenza di fuoco illimitata. E, sempre a livello teorico può anche decidere di monetizzare il debito di uno Stato (cioè di acquistarlo e portarlo in pancia fino alla scadenza naturale, difatti neutralizzandolo).
Per quanto a partire dagli anni ’70 sia stato sancito più o meno in tutti i Paesi più sviluppati il divorzio tra il Tesoro e la rispettiva Banca centrale (in Italia questa separazione è avvenuta nel 1981) è evidente che, al di là delle formalità, in molti Paesi così non oggi più non è. Il principio dell’indipendenza tra Tesoro e Banca centrale (teoricamente dettato dall’esigenza di impedire ai governi di aumentare la creazione di moneta, e quindi il deficit, per acquisire consenso elettorale) è oggi nella pratica messo a dura prova ovunque.
Le politiche di quantitative easing (attraverso le quali una banca centrale acquista titoli di Stato sul mercato secondario, quindi dopo l’asta che ne fissa il costo effettivo in termini di interessi per lo Stato) ne sono un esempio. Prima gli Usa e la Gran Bretagna (dal 2009), poi il Giappone (2013) e infine l’area euro (2015), tutti i più grandi Paesi hanno adottato questo tipo di politiche. Pur operando solo sul mercato secondario (in sostanza la banca centrale non può acquistare oggi titoli invenduti sul mercato primario e quindi non può impedire un eventuale rialzo dei rendimenti sul mercato primario, quello che determina l’esborso effettivo in termini di interesse per uno Stato) l’influenza c’è e come. Perché il mercato primario oggi funge più che altro da notaio rispetto a quello che accade ogni giorno sul mercato secondario.
Se ad esempio il Bund prezza sul secondario un rendimento dello 0,27% a 10 anni, un’asta sul primario dello stesso titolo non si discosterà da questo livello. Insomma, non si ravvisano difformità tra mercato primario e secondario. Quindi l’impatto che le banche centrali – attraverso le politiche di quantitative easing – hanno avuto sul secondario negli ultimi anni abbassando i rendimenti si è indirettamente riflesso in modo inequivocabile anche sul mercato primario. Ergo: le politiche di quantitative easing, impattando anche sul mercato primario dei titoli di Stato, mettono a dura prova il principio di indipendenza tra Banca centrale e Tesoro. Distorcendo per certi versi il rendimento dei titoli sovrani, rispetto ad altri titoli e classi di investimento che non possono fare affidamento sul “grado di protezione” della banca centrale.
Il discorso si fa un po’ più complesso, poi, se si va a dettagliare per i Paesi dell’area euro. Questi Paesi condividono il cambio e, di conseguenza, la politica monetaria. La Bce stabilisce i tassi e quelli sono, uguali per tutti. Però il “grado di protezione” offerto sui titoli di Stato è diverso, da Paese a Paese, ed è proporzionale alla capital key, ovvero alla diversa quota di partecipazione al capitale della Bce dei vari Paesi (Germania 17,99%, Francia 14,17%, Italia 12,31%). Quindi, nell’esercizio del quantitative easing, la Bce può acquistare più titoli tedeschi rispetto a quelli francesi. E più titoli franscesi rispetto a quelli italiani. E così via fino alla totale assenza di protezione per la Grecia (che è esclusa dal quantitative easing). La regola della capital key è una prima, importante distorsione, così come – estremizzando un po’ – è una distorsione teorica l’esistenza stesso di spread diversi tra Paesi che condividono nel bene o nel male la stessa valuta. I Paesi più deboli pagano una tripla distorsione sul proprio debito:
rinunciano all’offrire un “grado di protezione massimo” (al pari di quello offerto ad esempio oggi da Fed, Bank of England e Bank of Japan) sul proprio debito, quale sarebbe offerto dalla propria banca centrale in uno scenario in cui come abbiamo visto gli altri Paesi stanno snobbando il principio di indipendenza con il Tesoro;
rinunciano al riequilibrio naturale garantito da un cambio flessibile degli squilibri che si vengono a creare nella bilancia dei pagamenti intra-euro;
nonostante queste due importanti rinunce devono accettare anche l’idea stessa che esista il concetto di SPREAD nel debito intra-euro, rinunciando quindi all’unificazione del debito.
E’ chiaro che alla lunga questa situazione rischia di diventare insostenibile.
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