L’€uropa dei network tecnocratici transnazionale. La mitologia della purezza originale: sterilizzare i parlamenti nazionali (parte 1)
di ORIZZONTE48 (Luciano Barra Caracciolo)
Vi propongo uno studio di Arturo che, mai come in questo momento, ha una forza chiarificatrice decisiva.
Quello che ne emerge – come complemento e approfondimento del discorso svolto ne “La Costituzione nella palude”- è un punto sul quale non vi dovrebbero essere più incertezze, se si vuole, prima, capire e, poi, risolvere l’inesauribile crisi economica italiana, che sta minando irreversibilmente la democrazia della Repubblica fondata sul lavoro.
E il punto è che, diversamente da quanto implicano gli amici Giacchè e Cesaratto (con diverse sfumature), non c’è, – e non c’è mai potuto essere-, un “europeismo” diverso dall’Unione europea; cioè, diverso da un “internazionalismo dei mercati”, liberoscambista, che non sia legato ad una rigida pianificazione della rivincita del capitale sul lavoro. In nome di una pace ab orgine contraddittoriamente brandita, ma solo, e sempre, “contro” gli scenari naturali della democrazia (come persino Togliatti aveva ben chiaro), fondati sugli Stati-nazione.
L’Unione europea non ha “tradito” alcuna originaria purezza del disegno federalista, ma ne è solo il punto di approdo di una fase: per passare poi, in assoluta coerenza col disegno originario, alle ulteriori fasi che stiamo vivendo.
Quelle fasi dalle quali la democrazia, e la Costituzione su cui essa si fonda in Italia, usciranno definitivamente “distrutte”, per usare le parole di Calamandrei (ex multis, fra i Costituenti che avevano fatto avvertimenti fin dagli anni ’40 del secolo scorso).
Lo pubblicazione dello studio procederà in tre parti, ciascuna da meditare e interiorizzare (speriamo) con la dovuta attenzione.
PRIMA PARTE
Ci siamo lasciati dicendo che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di integrazione.
Per vederci un po’ più chiaro e poter comprendere nel loro contesto le due decisioni spartiacque (Van Gend en Loos e Costa vs. Enel) occorre seguire un percorso di carattere storico.
Perché?
- La storia è nemica di tutti i regimi, che ne hanno giustamente timore.
Un esempio di casa nostra, fra i tanti possibili: durante “il regime mussoliniano” “la letteratura sulla Prima guerra mondiale assunse caratteri prevalentemente retorici. Quanto accadde a Gioachino Volpe, il maggiore storico di orientamento fascista, o al colonnello Angelo Gatti, che durante il conflitto mondiale aveva diretto l’ufficio storico del Comando supremo, sta a dimostrarlo.
A Gioacchino Volpe, che nel 1923 iniziava a comporre una storia del popolo italiano durante la guerra per conto della Fondazione Carnegie, fu improvvisamente sbarrato l’accesso agli archivi, poiché ci si era accorti che egli si interessava troppo di operai, di scioperi e di disfattismo.
Angelo Gatti, che nel 1925, era stato incoraggiato da Mussolini a scrivere una storia di Caporetto, fu poco tempo dopo convocato dallo stesso Mussolini il quale lo invitò a interrompere le sue ricerche perché – come il dittatore gli spiegò – il regime “aveva bisogno di miti e non di storia” (P. Melograni, Storia politica della grande guerra, Mondadori, Milano, 1998, pagg. VI-VII).
1.1. Non si può dire che l’Europa non condivida bisogni analoghi, come dimostra l’edificante storiella, che ci viene regolarmente propinata, di illuminati e coraggiosi padri fondatori impegnati, soli, contro l’egoismo e la ristrettezza di vedute degli Stati nazionali, a edificare uno splendido monumento alla pace e amicizia fra i popoli.
Come colgono benissimo gli autori di una sintesi della storia comunitaria di cui non posso che raccomandare la lettura integrale ai francophones, ossia François Denord e Antoine Schwartz (“L’Europe social n’aura pas lieu“, Éditions Raison d’agir, Paris, 2009, pag. 8):
“Riscritto, il passato europeo si libera di ogni connotazione ideologica e, più in generale, di tutti gli aspetti scomodi: fallimenti di possibilità storiche non realizzate, influenze imbarazzanti, personaggi torbidi, manovre diplomatiche incerte, ecc. Della costruzione europea non resta allora altro che un progetto universale e positivo, che si pretende apolitico, un metro su cui poter giudicare gli ulteriori sviluppi dell’integrazione e incoraggiarne i “progressi”. E’ questa pretesa “purezza” del disegno originale che autorizza i rimpianti sul carattere incompiuto della costruzione, sulle “deviazioni” e sulle “lacune” (deficit democratico, Europa sociale, ecc).”
1.2. Lo abbiamo visto nella discussione con Andor: è la mitologia della purezza originale che consente di interpretare il disastro presente come deviazione, o addirittura “tradimento”, di cui sarebbe non solo possibile, ma addirittura doveroso, tentare correzioni (potenzialmente rimandando la soluzione fino all’indefinito tempo in cui queste ultime si rendano possibili).
Anche il pur pregevole libro di Stiglitz è infiorato di considerazioni analoghe.
Chi invece ritiene che gli attuali sviluppi non rappresentino che “un irrigidimento di una via seguita fin dai primi passi” (Ibid., pag. 80), avrà una visione assai meno ottimista circa i possibili margini di correzione, ma anche decisamente meno imbarazzata davanti alla prospettiva di rotture radicali.
1.3. Sono convinto che pochi aspetti della costruzione comunitaria abbiano più urgente bisogno di quest’opera di demistificazione della storia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della sua giurisprudenza.
D’altra parte, solo attraverso un esame storico espressioni apparentemente contraddittorie come “constitutionalism without constitution” oppure “féderalisme furtif” (federalismo di nascosto), usate dagli studiosi per descrivere l’esperienza giuridica europea, diventano comprensibili.
Ora, sarà un caso, o forse no, ma la Corte di Giustizia, benché mantenga degli archivi (esiste un regolamento, il numero 1700/2003, che la obbliga a farlo), non ha la minima intenzione di indicare una qualsiasi data in cui questi saranno consultabili.
Nel frattempo, i documenti lì custoditi (che non si sa nemmeno quali siano) si trovano convenientemente al riparo da tutte le norme che consentono l’accesso agli atti comunitari (dettagli in For History’s Sake, Editorial in European Constitutional Law Review, 2014, 10, pag. 196. Ringrazio Sergio Govoni per la segnalazione dell’articolo), costringendo gli storici a lavorare su fonti secondarie, con limitatissime eccezioni (che riguardano un giudice italiano e che vi fornirò: tutto materiale pubblico e strapubblico, sia chiaro :-)). Come dicevo, la storia fa paura.
Cerchiamo di capire perché.
- In un pregevole paper gli stessi Denord e Schwartz, trattando delle origini neoliberali del trattato di Roma, hanno colto efficacemente un punto sociologico fondamentale:
“il suo carattere neoliberale [del Trattato di Roma] proviene dalla preesistenza di un gruppo transnazionale, unito da tempo dal suo attaccamento al liberalismo e all’impegno europeo, i cui rappresentanti occupano posti chiave all’interno dei differenti Stati membri (compresa la Francia) al momento delle negoziazioni.”
Per chiarire: i contenuti del Trattato non sono un prodotto lineare dei politici, ma risultano notevolmente influenzati dall’operato di questi network tecnocratici transnazionali, che hanno saputo abilmente inserirsi nel processo di negoziazione prima e di interpretazione poi.
Il fil rouge di questa operazione è consistito nell’attribuzione al processo di integrazione un significato “costituzionale”. Per intenderne il senso occorre necessariamente allargare il quadro.
2.1. La logica del ragionamento è abbastanza lineare e se n’è già parlato: per chi interpreta il crollo dell’ordine internazionale dei mercati avvenuto dopo la crisi del ‘29, e la seconda guerra mondiale, come frutto un eccesso di interventismo statalista e totalitario, anziché una ribellione delle società gestita autoritariamente, sterilizzare l’unica possibile sede politicamente rilevante di espressione del disagio sociale, cioè i parlamenti statali, tanto più pericolosi se costituzionalmente obbligati all’attuazione di un modello di democrazia sociale, appare sensato.
Sia chiaro: lo stesso senso che avrebbe, volendo ridurre la fuoriuscita di vapore da una pentola a pressione, eliminare la valvola, anziché spegnervi la fiamma sotto.
Non è un caso che varie associazioni e progetti di unificazione europea, come quella del nostro vecchio amico Kalergi, si affaccino proprio durante gli anni fra le due guerre.
Tuttavia il “primo progetto d’integrazione istituzionale dell’Europa che abbia superato lo stadio di semplice proposta intellettuale e sia stato effettivamente vagliato dai governi degli Stati europei” fu il piano Briand, proposto dalla Francia:
“Briand prospetta l’estensione del sistema di garanzie di Locarno a tutto il sistema degli Stati europei, subordinando così la sicurezza della “Comunità” al bilanciamento di potere e alle garanzie bilaterali. Il terzo punto definisce l’organizzazione economica dell’Europa come indirizzata alla creazione di un mercato comune, per incrementare il livello del benessere, da realizzarsi tramite l’abbattimento delle barriere doganali, tema cardine nella politica di Briand. Era quindi prospettato un mercato unico privo di limiti di circolazione di merci, capitali e persone, con la sola riserva dei “bisogni della difesa nazionale di ciascuno Stato”, e che subordinava così l’unione economica all’esercizio della sovranità degli Stati nella materia della sicurezza.”
2.2. L’esigenza del piano nasceva da quella che gli storici definiscono l’incapacità americana di assumersi “le responsabilità connesse al ruolo di potenza egemone sul piano economico, in primis la difesa della stabilità del sistema finanziario internazionale.”, come si esprime Mascherpa nel saggio sopra linkato.
Più che di cattiva volontà, è forse più corretto dire che furono le ripercussioni interne della fragilità del sistema economico-finanziario occidentale a rendere impossibile agli USA lo svolgimento di quel ruolo imperiale di stabilizzazione (“La drammatica recessione obbligava a concentrare energie e forze sul piano interno e qualsiasi altra problematica era subordinata alla risoluzione della crisi economica. Fare altrimenti avrebbe comportato delle pesanti conseguenze elettorali, come Hoover aveva potuto verificare.” (M. Del Pero, Libertà e impero, Laterza, Roma-Bari, 2014, s. p.)).
Dal canto loro, i leader europei, oltre a non poter contare sulle medesime risorse americane, non godevano certo di una situazione interna più stabile né della reciproca fiducia necessaria a portare a termine i negoziati.
E’ sintomatica la reazione dell’Italia fascista, e in particolare di quell’autentico campione della stabilizzazione politico-finanziaria di marca anglosassone che era il ministro degli esteri italiano, Dino Grandi.
Come riporta il saggio di Mascherpa, Grandi temeva, probabilmente non senza fondamento, che la proposta francese nascondesse una manovra aggressiva ai danni dell’Italia nei Balcani.
D’altra parte, l’anno successivo, Grandi rivolgeva queste parole al ministro del tesoro americano Mellon:
“Insistendo io sulla necessità che gli Stati Uniti non abbandonino la politica iniziata nel mese di giugno u.s., che d’altra parte oggi la stretta connessione dei fenomeni finanziari ed economici con quelli politici non permette all’America di seguire una politica di intervento finanziario cui l’obbliga la sua stessa potenza finanziaria in tutti i paesi del mondo, dichiarando tuttavia nello stesso tempo la sua astensione da ogni collaborazione sul terreno politico, che l’America sarà obbligata a uscire da questa contraddizione che non regge più, Mellon mi ha risposto che di tutto ciò i leaders della politica americana sono già persuasi ma che l’opinione pubblica americana deve essere abituata a poco a poco, soprattutto l’opinione pubblica del centro e dell’Est dell’Unione. Ma non è che questione di tempo”. (D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, Il Mulino, Bologna, 1985, pag. 332. Significativo che, come da lui stesso dichiarato, Grandi ritenesse il nostro paese pronto a un giudizio equanime sul suo operato solo negli anni Ottanta).
Negli anni Trenta non si “fece in tempo”, ma quale migliore occasione della guerra fredda per riprendere i fili del discorso europeo?
E infatti Mascherpa, che scrive sul solito, e prezioso, Federalista, ossia la rivista del MFE, osserva:
“Se, due decenni dopo, la Dichiarazione Schuman, che diede origine alla CECA, poté essere accolta, in gran parte fu grazie all’ombrello della sicurezza atlantica e al beneplacito degli Stati Uniti d’America, fortemente interessati alla realizzazione del progetto.”
(1- segue)
fonte: http://orizzonte48.blogspot.it/2016/12/luropa-dei-network-tecnocratici.html
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