Il populismo al tempo degli algoritmi / 3
di SINISTRAINRETE (Giso Amendola e Paolo Gerbaudo)
Pubblichiamo oggi con gli interventi di Giso Amendola e Paolo Gerbaudo la terza e ultima parte di uno speciale che, prendendo spunto da alcuni temi trattati nel recente volume di Carlo Formenti La variante populista (già recensito su alfabeta2 da Cristina Morini), si propone di affrontare le nuove declinazioni del cosiddetto populismo.
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Macché populismo, macché comunità: nelle città oggi si muove tutta un’altra lotta di classe
Giso Amendola
1. Nella politica moderna, almeno nel suo filone maggioritario, quello nato attorno all’esperienza dello stato sovrano, rappresentanza, sovranità e popolo stanno insieme e muoiono insieme. Le regole del gioco le detta Thomas Hobbes in modo estremamente cogente e preciso: il popolo è costituito come unità politica solo attraverso la sovranità. Ricordare questo nodo indissolubile che stringe, nella modernità, popolo, sovranità e rappresentanza, può aiutare a districarci in qualche apparente paradosso che abita la nozione di populismo.
Un autore molto evocato in questi giorni, quale “padre” in qualche modo di una prospettiva possibile di “populismo di sinistra”, Ernesto Laclau, si è sempre soffermato proprio su questo elemento: il populismo oscilla tra destra e sinistra, sostiene Laclau, perché in realtà non è altro che l’espressione della logica politica moderna. Quella appunto, in fondo tutta hobbesiana, per la quale il popolo è una costruzione, che si ottiene articolando le differenze intorno a una linea di conflitto che divide in due il campo politico. Se la politica moderna è creazione del popolo attraverso il conflitto, allora la ragione populista non è un residuo irrazionale: ma è proprio l’anima, spiega Laclau, della politica. Il conflitto dà forma a “domande” politiche che altrimenti resterebbero inarticolate. Al dibattito politico italiano, questo approccio non apparirà sconosciuto: in una versione sofisticata e certo molto consapevole della complessità del tessuto sociale che occorre articolare, Laclau presenta convinzioni che, in Italia soprattutto, sono ben note: è la ben conosciuta autonomia del Politico. Il Politico costruisce il Popolo, che è forgiato dalla capacità di decidere (nella versione laclauiana: di piegare al proprio discorso l’oscillazione dei significanti fluttuanti). I “populisti” sono quelli che riattivano, contro la neutralizzazione liberista, questa eterna logica del politico. Ma può davvero questo classico richiamo alla decisione politica, a una forma politica sovrana che dovrebbe sottomettere l’”economico”, essere una via d’uscita rispetto all’egemonia neoliberale? In realtà, il neoliberalismo tutto è tranne che uno spazio informe, un mero risultato “in negativo” della distruzione dello Stato, del Popolo e della Sovranità. E’ una forma di comando politico, governamentale e reticolare in quanto regolazione dell’accumulazione flessibile. E, al tempo stesso, è una razionalità che tenta continuamente di produrre e riprodurre vite e soggettività, con dispositivi altamente differenziati.
In questo quadro, risvegliare l’ “energia” di un presunto Politico, vuoi attraverso il richiamo diretto a forme di sovranismo, sia attraverso la più articolata strategia populista à la Laclau, significa condannarsi a muoversi su un livello completamente astratto rispetto alla modalità di produzione contemporanea: e, soprattutto, così non si intercetta in nessun modo la trasformazione effettiva delle soggettività sociali contemporanee, riducendole, come del resto sempre fa l’autonomia del Politico, a semplici bisogni o domande, senza voce autonoma.
2. In altre versioni, la teorizzazione del populismo come ricetta politicamente praticabile per i poveri e gli sfruttati, più che avere a che fare, con il ritorno del Popolo e quindi del Politico, richiama piuttosto la presentazione sulla sfera politica degli esclusi, dei “senza parte”. La risposta populista può essere letta come il terreno di lotta per chi, negli anni della crisi, è scivolato radicalmente fuori dal capitalismo globale, di chi è diventato sempre più marginale? Il recente libro di Carlo Formenti, La variante populista, è appunto un tentativo di rispondere positivamente a questa domanda: la variante populista è il modo in cui si dà la lotta di classe oggi. E, infatti, con grande coerenza e precisione, Formenti rifiuta l’approccio di Laclau in quanto ne vede perfettamente l’esito assolutamente compatibile con la liberaldemocrazia rappresentativa. Perché, però, il populismo potrebbe diventare oggi un’arma del conflitto di classe? Punto centrale di questa posizione è che il capitale non funzionerebbe più come rapporto sociale di classe. Il capitale finanziario globale produce scarti, esclusi radicali, perdenti assoluti: la classe non è più davvero produttiva per il capitale finanziario, ma è soltanto depauperata, saccheggiata e buttata via. Ancora in perfetta coerenza, l’obiettivo polemico non sono soltanto l’operaismo, in quanto convinto che il capitale va attaccato nel punto più alto dello sviluppo, o il postoperaismo, che insiste sulla accresciuta capacità di autonomia e di autorganizzazione da parte della cooperazione sociale. Questo populismo degli “esclusi” deve rompere piuttosto con lo stesso concetto marxiano di relazione tra forze produttive e modo di produzione. Il capitalismo finanziario distrugge le forze produttive, che produttive lo sono sempre meno e che contano sempre meno nell’autoaccrescimento del capitale finanziario. L’unica cosa da fare, per i poveri, è difendersi dai flussi distruttivi: staccarsi, separarsi il più possibile, consolidare i rapporti sociali di gruppo contro l’individualismo diffuso, coltivare i luoghi rispetto ai flussi senza radici del cosmopolitismo globale. Pronti a sfruttare eventuali crisi del capitalismo finanziario, che non arriveranno certo per lo sviluppo delle forze produttive, ma piuttosto per l’impossibilità di quel capitalismo di stabilizzarsi. E’ un ragionamento sicuramente coerente: ma l’esito, del resto esplicitato, è che qui il populismo finisce con l’essere una riedizione di quell’altro paradigma ultraclassico che è il comunitarismo: la classe viene continuamente evocata, ma ha oramai tutti i tratti della comunità. Compresi i tratti più problematici: nessuna espansività e inclusività, prevalere assoluto della logica della separazione su quella della connessione, tendenziale concezione solo difensiva della conflittualità, che protegge dall’attacco del nemico esterno, ma difficilmente è produttiva di trasformazione del quadro sociale.
3. Rinascita del Popolo, e quindi dell’autonomia del Politico. Rinascita delle plebi, e quindi elogio della comunità, dell’estraneità radicale alla produzione e allo sviluppo, della separazione difensiva. Ora, che nella tradizione marxista ci sia, troppo spesso, un’assunzione troppo lineare dello sviluppo, è difficile da negare, e infatti molti utilizzi di Marx, fuori dalla tradizione marxista, hanno tentato appunto di far saltare quella linearità. Marx è stato usato e trasformato per rendere conto delle nuove modalità di produzione, è stato “bagnato” nelle nuove soggettività emergenti dagli anni Sessanta, nella produttività diffusa delle metropoli, nella rivoluzione dei rapporti tra produzione e riproduzione provocata dal femminismo, nello spazio postcoloniale delle migrazioni globali. Dopo tutto questo, se l’obiettivo dei nuovi populismi o dei nuovi comunitarismi fosse solo di ricordarci che non c’è un’idea standard di produzione o di sviluppo, il minimo che si potrebbe dire è che arrivano abbondantemente tardi. Già l’ultimo Marx, come ricordano spesso i neopopulisti, spiegava che non occorreva affatto che la comune agricola dovesse essere distrutta dalla proprietà privata e dall’industrializzazione. Ma non lo diceva per fare l’elogio dell’arretratezza della comune agricola: piuttosto ne vedeva la potenzialità per la nuova organizzazione del lavoro. Oggi dovremmo avere la capacità di ragionare allo stesso modo sulla produttività contemporanea. La cooperazione sociale contemporanea è di sicuro attraversata da dispositivi potenti, che disciplinano il lavoro vivo, e spesso vengono insidiosamente internalizzati dai soggetti stessi; ma dipingere la società, pur estremamente impoverita dall’austerity, come oramai incapace di autonomia produttiva, divisa tra vincenti radicali che sono finiti al servizio del capitale ed esclusi altrettanto radicali ai margini della produzione, è un’immagine molto ideologica. Le vite che subiscono duramente la crisi non per questo sono diventate meno connesse, meno mobili, meno ricche di risorse linguistiche e cognitive: povere, ma non escluse, non relegate in un fantomatico “fuori” assoluto dal rapporto di capitale. Duramente sottoposte a comando e a disciplinamento, ma non meno centrali nella produzione contemporanea. La Comunità o il Popolo sono invece forme politiche unificate dal leggere le soggettività sempre come “mancanti”, mai autonome, sempre bisognose d’essere incorporate in soggetti collettivi trascendenti. Ma queste soggettività seguono altre strade: la produzione di nuova e altra istituzionalità, l’autorganizzazione, l’elaborazione di programmi per nuove connessioni. Le esperienze neomunicipali hanno poco la forma della comunità locale o localistica, e molto quella del campo di sperimentazione di una diffusione del potere, di una moltiplicazione dei suoi luoghi. Gli esperimenti di autorganizzazione sociale e sindacale tutto cercano tranne una forma “politica” che li rappresenti nel segno dell’unificazione forzosa: coalizione tra differenti, più che soggetto collettivo omogeneo e centralizzatore. Come nell’esempio dato oggi dal femminismo: movimenti globali, non nazionali; composizione tra differenze e singolarità, non tra omogenei; risonanza, più che articolazione verticale; maree, non popoli o comunità.
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Lo spettro del populismo
Paolo Gerbaudo
Uno spettro agita l’establishment neoliberista e la sinistra post-moderna, unite in questa congiuntura dalla medesima paura: il populismo. Dopo la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi, l’ultima manifestazione di una “ondata populista” che si riaffaccia ad ogni appuntamento elettorale, dalla Brexit del giugno scorso fino al successo del No nel referendum costituzionale del 4 dicembre in Italia, la questione del populismo disturba i sonni dei broker dell’alta finanza come quelli di alcuni teorici della sinistra radicale.
Il termine populismo è da tempo divenuto l’etichetta infame per catalogare tutto ciò che il mondo neoliberista considera come irrazionale e inaccettabile, e prima di tutta la rabbia popolare di fronte alla follia di un capitalismo fuori controllo; ma pure per archiviare tale rabbia come un’anomalia destinata a svanire non appena gli ingranaggi dell’economia globale avessero ricominciato a girare per il verso giusto. Eppure il populismo non è un fantasma di passaggio.
L’irrompere di movimenti populisti di destra o di sinistra – da Podemos alla Brexit, da Sanders a Trump – e la loro proiezione maggioritaria, dimostrata in una serie di recenti successi elettorali, segnala che la crisi organica dell’ordine neoliberale è ormai giunta a un punto di non ritorno. Questo crollo sta aprendo le porte a una nuova era politica, un’orizzonte populista che si staglia sulle macerie dell’ordine neoliberale.
L’orizzonte populista fa saltare lo schema del conflitto accettato per gli ultimi trent’anni sia dalla classe dirigente neoliberista che dai movimenti di protesta contro il neoliberismo. Coordinate considerate inamovabili come la prospettiva di un mondo unito da un mercato globale senza dazi e barriere doganali e governato da istituzioni sopranazionali, vengono ora messe in discussione, proprio a cominciare dalla destra dei paesi anglosassoni, che a suo tempo era stata la più fanatica sostenitrice della globalizzazione neoliberale.
Di fronte al disorientamento che suscita questa riorganizzazione dello spazio politico non è sufficiente l’atteggiamento di rifiuto verso il populismo manifestato in diversi contributi in questo speciale sul populismo di Alfabeta2. Al contrario è necessario comprendere che solo costruendo un populismo progressista abbiamo qualche speranza di incanalare in senso emancipatorio il collasso dell’ordine neoliberale.
L’orizzonte populista e la sinistra post-2008
L’orizzonte populista è uno spazio ambiguo, una biforcazione politica, come quella che si apre dopo ogni crisi organica e che può portare a una soluzione progressista o reazionaria, a seconda del progetto politico che meglio riuscirà ad incarnare lo spirito di tempi di crisi. Siamo nell’interregno, la notte del travaglio che precede la nascita del nuovo mondo: il tempo dei mostri e degli spettri. Una fase piena di pericoli ma anche di nuove opportunità per costruire un futuro migliore oltre la vergogna di un’era neoliberista in cui il culto della libertà ha prodotto disuguaglianza estrema e si è tradotto nella demolizione dei legami di solidarietà.
Tale ambiguità è riflessa nel carattere doppio del populismo, che si manifesta in maniera eccentrica sia sulla destra che sulla sinistra dello spettro politico. Seguendo Ernesto Laclau, il populismo è una logica politica che oppone il Popolo alle élite politiche e a vari nemici accusati di privarlo della sua libertà, dignità e benessere. Tale orientamento si manifesta in maniera inquietante nella politica reazionaria di Donald Trump, Nigel Farage, Marine le Pen e il loro odio contro tutti coloro che essi non considerano estranei al popolo (musulmani, immigrati ecc.). Ma a partire dalla crisi del 2008 il populismo si è affacciato anche nella sinistra e nei movimenti di protesta.
Populisti sono stati i “movimenti delle piazze” del 2011, con il loro appello al 99% contro l’1%. Populista è Podemos, la cui strategia politica è influenzata dalla filosofia politica di Ernesto Laclau, e il cui discorso è caratterizzato da riferimenti frequenti al popolo e alla patria. Populista, più che socialista, è stato pure Bernie Sanders nelle primarie del partito democratico, con il suo appello all’unità del popolo americano contro la retorica razzista di Trump e il suo attacco contro la finanza e il libero commercio. Per i populisti di sinistra i nemici del popolo non sono i migranti, ma nemici sociali ed economici: i banchieri e gli imprenditori senza scrupoli primi responsabili per l’impoverimento della popolazione e i loro alleati politici.
Il populismo progressista è dunque l’elemento caratterizzante di quella “nuovissima sinistra” dell’era post-2008 – per distinguerla dalla “nuova sinistra” post-68. Una sinistra che al contrario della cosidetta sinistra-sinistra, non sente il bisogno identitario di celebrare il fatto di essere “sinistra”, e che al contrario della sinistra post-moderna è riuscita a trasformare il malcontento di tempi di crisi e politiche di austerità in una nuova base di consenso.
Questa svolta populista non è un’aberrazione politica ma il ritorno ai principi fondanti della sinistra moderna, che è stata populista prima ancora di essere socialista e comunista e che ha vinto quando ha saputo presentarsi come forza di popolo. Le origini del populismo sono del resto di sinistra: dalla teoria della sovranità popolare di Jean-Jacques Rousseau, alla rivoluzione francese, e ai grandi movimenti popolari del ottocento, come i Narodniki russi e i Cartisti inglesi. Inoltre in tempi recenti molti fenomeni politici di sinistra hanno avuto un carattere populista cominciando dal populismo socialista di Hugo Chavez e Evo Morales.
Perché allora tanto timore verso il populismo progressista?
Populismo e post-operaismo
Dopo la vittoria di Trump in paesi come la Gran Bretagna e il Regno Unito il populismo progressista viene discusso intensamente da opinionisti radicali di primo piano come Owen Jones. In Italia invece la sinistra radicale continua a vedere l’ipotesi populista come la peste. Carlo Formenti e il suo libro La Variante Populista sono l’eccezione ed è per questo che il suo volume sta facendo gridare tanti allo scandalo. Ha ragione Formenti quando dice che “non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare” e che bisogna vedere il populismo come il campo di battaglia in questa congiuntura politica. Eppure queste tesi continuano a suscitare diffidenza.
La ragione per il rifiuto del populismo sta nel senso di inadeguatezza vissuto dal pensiero post-operaista, che continua a esercitare un’egemonia traballante su movimenti e sinistra radicale in Italia. A questo pensiero bisogna riconoscere di aver svelato i nuovi ingranaggi del dominio e le nuove soggettività del capitalismo post-industriale. Ma bisogna pure imputargli il fatto di non avere offerto risposte credibili in questa fase di crisi della globalizzazione. L’odio verso lo stato-nazione, prima ancora che verso il mercato, ed il rifiuto del potere, che lo accomuna con altre correnti del pensiero anti-autoritario post-68, rendono impossibile la costruzione di una strategia credibile in questa fase.
Non sorprende dunque che lo spettro del populismo inquieti i teorici post-operaisti. Inquieta perchè mette a nudo i limiti di una tradizione di grande capacità analitica, ma di insufficiente intelligenza strategica. Inquieta perchè offre una nuova proposta di organizzazione collettiva laddove l’organizzazione e la leadership erano state considerate superate dalla capacità di auto-organizzazione della moltitudine.
Eppure ci sono punti di convergenza tra post-operaismo e populismo progressista. Ne è riprova il fatto che Podemos ospita molti attivisti che si sono a lungo nutriti dei testi di Antonio Negri, ma che si sono resi conto che se il post-operaismo ha fornito un’analisi corretta e approndita della realtà sociale nell’era post-fordista, non ha fornito una strategia organizzativa convincente. Per questa nuova generazione di attivisti il post-operaismo ha risposto alla domanda “che cosa sta succedendo” ma non all’eterno quesito “che fare?”
Il populismo progressista offre una risposta a molti dei quesiti che emergono dall’analisi post-operaista. L’immaginario unificante del populismo progressista fornisce un antidoto alla frammentazione e all’individualizzazione del mondo del lavoro e della società contemporanea. L’identità popolare, come fusione di diverse frazione di classe, può servire ad alleare knowledge workers e freelance, precari e lavoratori della logistica, operai disillusi e disoccupati, che fino ad oggi hanno fatto fatica a costruire un fronte comune.
Il populismo offre pure un cammino per conquistare quelle rivendicazioni che il post-operaismo ha messo al centro del dibattito. Perchè il reddito di cittadinanza non te lo darà mai il fantomatico Comune post-operaista, e neppure l’Unione Europea, quantomeno non nel breve periodo, ma lo stato-nazione. E perchè la presente congiuntura politica non si confà al velleitarismo soffice di Spinoza e di Deleuze tanto amati dai post-operaisti ma piuttosto al realismo spigoloso di quella linea teorica che va da Machiavelli a Gramsci e Laclau.
L’orizzonte populista è il campo di battaglia in cui si deciderà l’egemonia politica dell’era post-neoliberista. Di fronte a questa evidenza possiamo indugiare nella speranza mistica che finalmente un giorno la profezia della Moltitudine auto-organizzata e del Comune che non ha bisogno di appoggiarsi sul Pubblico verrà realizzata. Oppure possiamo esplorare l’ipotesi populista come suggerito nel manifesto di Senso Comune per un populismo democratico a cui ho recentemente contributo con alcuni attivisti e ricercatori. Non si tratta di una strada senza rischi e neppure di una strada che porta a un successo sicuro, ma quantomeno di strategia offensiva che prova a fare i conti con il cambiamento radicale dello spazio politico nell’era post-neoliberale.
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