Crisi della democrazia moderna, conflitto politico-sociale e ricomposizione di un blocco di resistenza nazionale-popolare nell’epoca delle rivolte “populiste”
di CSEPI (Aldo Scorrano, Fabio Di Lenola e Christian Dalenz)
Intervista a Stefano G. Azzarà*
Lei ha affermato che «la storia della democrazia è la storia della capacità delle classi subalterne di fare conflitto, di lottare, di riequilibrare i rapporti di forza presenti nella società». Queste classi lo avrebbero fatto unendosi tra loro sulla base di idee, di interessi comuni e di piattaforme politiche avanzate. Questa unione oggi manca ed è ciò che si dovrebbe ricreare, soprattutto nel mondo del lavoro. In buona sostanza bisognerebbe «unire ciò che è stato diviso». Ma come mettere in moto questo processo e con quali modalità?
La risposta a questa domanda non esiste. E se qualcuno pretende di averla in tasca per via di qualche formula alla moda – “populismo” e “politiche del comune” sono oggi quelle più reiterate nelle diverse e contrapposte anime della sinistra , ma in passato i nomi erano diversi – ha capito ben poco dei processi storici, per i quali non esistono leggi simili a quelle che ipotizziamo nel mondo naturale e dunque nemmeno manuali delle istruzioni.
Per come siamo messi, credo comunque che la presa di coscienza reale e non meramente verbale della frantumazione in atto e delle sue ragioni, oltre che della necessità di una ricomposizione di un campo politico di resistenza su basi che siano ad un tempo politiche e sociali (e cioè fondate su una analisi che tenga conto di cosa sono diventate oggi le classi sociali rispetto al periodo della Guerra Fredda), sia già un passo in avanti considerevole rispetto alla totale inconsapevolezza o rimozione che caratterizza ciò che rimane da noi della sinistra storica novecentesca. Ritengo in generale che non dobbiamo aspettarci nuove geniali teorie partorite dalla mente di chissà chi, perché tutto ciò che accade nel mondo delle idee accade quando i tempi e le contraddizioni storiche reali sono mature e interpretabili e non certo per partenogenesi; poiché però gli elementi essenziali della fase in corso sono visibili ormai da molto tempo senza che se ne traggano le conseguenze, ne deduco che è la persistenza di una certa cultura politica, di cui parlerò più avanti, a impedire questo riconoscimento.
La società è articolata in gruppi sociali. E’ vero che questi gruppi sono cambiati rispetto al passato, e che questi spostamenti sono utilizzati spesso in chiave ideologica per sostenere l’estinzione delle classi stesse o la loro acquisita insignificanza sul piano politico, e tuttavia esse ci sono. E come è sempre avvenuto, ogni gruppo di classe occupa una determinata posizione nella divisione del lavoro e svolge una certa funzione in un contesto relazionale. Da qui la sua natura strutturalmente oppositiva, i cui caratteri possono cioè emergere solo in contrapposizione ad altre parti del sistema. Ciascun gruppo è portatore in via costitutiva di bisogni e interessi diversi, che entrano inevitabilmente in collisione dal momento che la ripartizione delle risorse materiali e immateriali che il lavoro sociale collettivo produce è disuguale a monte: funzioni diverse ricevono in maniera diversa in ragione non del lavoro erogato ma della posizione strutturale occupata e in particolare in funzione del ruolo direttivo o esecutivo e del rapporto di questo ruolo con la proprietà (qui si aprirebbe tutto il discorso sul rapporto tra proprietà privata e funzioni del management).
E’ vero allora che oggi non è più sostenibile l’illusione naturalistica per cui le classi subalterne siano spontaneamente orientate a sinistra e da subito interessate alla libertà e al progresso, ecc. ecc. In questo senso aveva almeno una parte di ragione Ernesto Laclau, ormai molto tempo fa, nel fare un bilancio della crisi del movimento operaio dopo l’espansione della società dei consumi e a evidenziare la necessità di un rinnovamento della sinistra nel senso di una sua apertura da una dimensione meramente di classe a una più generale e “populista,” che tenesse conto della differenziazione sociale delle “domande” (i diritti civili). E però, a guardar bene questa mutazione della sinistra è esattamente la teorizzazione ex post di ciò che ai tempi di Laclau stava già avvenendo da anni, come ovvia conseguenza delle trasformazioni sociali, anche senza che nessuno lo teorizzasse. Ed è esattamente ciò che nel frattempo, e cioè da allora sino ai nostri giorni, non ha portato a nessuna evoluzione positiva ma ha al contrario aggravato la frantumazione, perché ne ha semplicemente assecondato il decorso, se non lo ha addirittura accelerato. E’ giusto infatti sottolineare, come con Laclau fanno da decenni quasi tutti i teorici della sinistra radicale di impostazione non marxista, la dimensione della contingenza, visto che non esiste nel campo sociale nessuna necessità a priori. E però riconoscere la contingenza non significa desiderarla e fiancheggiarla programmaticamente nella sua dispersione pluralistica ma semmai prenderne atto cercare di darle un ordine a partire da un progetto politico.
E’ qualcosa di nuovo? Le cose stavano in maniera diversa in passato? No. E’ esattamente questo ciò che è accaduto alle origini del movimento operaio. Non era scritto da nessuna parte che i bisogni della classi subalterne nella società industriale, bisogni reali e oggettivamente inscritti nelle cose, dovessero coagularsi in un fronte di sinistra e in una piattaforma socialista. E’ stata semmai la capacità di alcune organizzazioni politiche di proporre un progetto credibile – un progetto che non fosse arbitrario ma fondato sulla contraddizione oggettiva stessa, e che fosse dunque capace di raccogliere le diverse istanze attorno al loro nucleo di condensazione nel processo di produzione e riproduzione della società – ciò che ha consentito l’autoriconoscimento delle classi subalterne come tali e l’avvio del loro movimento di unificazione. Quel movimento lunghissimo e faticosissimo e mai del tutto compiuto che è stato la premessa del loro rafforzamento e dunque della costruzione della democrazia moderna (1: la democrazia moderna è cosa diversa dalla democrazia come tale, che può convivere anche con la schiavitù e l’imperialismo; 2: chi ha interesse primario nella democrazia moderna sono i deboli e non certo i forti, per cui democrazia moderna è sinonimo di potere relativo delle classi subalterne e dunque è sinonimo di sinistra, a condizione che la sinistra faccia il proprio dovere e non slitti a destra, come in Occidente è avvenuto da parecchio tempo).
Oggi per molti aspetti siamo in una situazione analoga, nella quale abbiamo il compito di ricominciare da zero pur essendo eredi di una lunga storia e dovendo anzitutto imparare da questa storia e dagli errori commessi. Proprio questa storia ci dice che la crisi della sinistra diventa inarrestabile quando, a fronte di un cambio di fase radicale, questa parte politica si dimostra incapace di comprendere i profondi mutamenti intervenuti e ritiene di poter applicare lo stesso comodo schema di gioco del passato, considerato l’unico schema possibile nell’unica realtà possibile. Una realtà divenuta però nel frattempo fittizia, nella quale esiste una sorta di armonia prestabilita tra l’autoposizionamento dei ceti politici che definiscono se stessi di sinistra e la rappresentanza delle classi popolari. E dalla quale, nonostante i proclami rivoluzionari sono esclusi proprio lo scarto e il salto di qualità, tanto che essa si riduce di fatto al meramente esistente.
Ma se in una fase di ascesa complessiva, nella quale il movimento esiste ed è efficace, ha un’identità ed è in grado di operare e esercitare egemonia, sono possibili una serie di tattiche, tra cui quelle di alleanza e mediazione, tutto cambia al cambiare della fase. Quando la fase diventa di ritirata strategica in seguito a una sconfitta storica, tutta la realtà sociale subisce uno slittamento a destra e i processi di subordinazione vengono accelerati, mentre l’egemonia passa al campo avverso. In questa fase, che dura dagli anni Ottanta, continuare come se nulla fosse cambiato per incomprensione o malinteso “realismo politico”, o per abitudine o mentalità politica e culturale, pensando che il consenso popolare sia comunque garantito per natura, è deleterio. Conduce ad assumerci responsabilità che non ci competono. E conduce a perdere credibilità, a causa de una prassi politica che nei rapporti di forza dati entra inevitabilmente in contraddizione con il mandato che emerge da quei bisogni e da quelle domande sociali che ci si proponeva di ricucire assieme.
Proprio perché non c’è nessuna armonia prestabilita tra popolo e sinistra, il proposito di riunificare un soggetto di resistenza o un soggetto antagonista fallisce quando il capitale di rappresentanza viene messo al servizio di politiche che vanno in direzione opposta, o quando viene applicato nel senso della mera riduzione del danno a partire da una fiducia incondizionata nelle identità e nelle appartenenze tradizionali. Non si sopperisce alla mancanza cronica di coerenza e di intransigenza, che nella crisi di egemonia delle élites al comando sono essenziali, agitando il feticcio di un simbolo o di un nome per vellicare le debolezze nostalgiche che albergano ancora in qualcuno – sempre meno – di noi. Al tempo stesso – ed è l’altro pericolo dal quale dobbiamo guardarci -, il proposito di una ricomposizione fallisce anche quando non si comprende che alla crisi delle identità e delle appartenenze non si può rispondere con l’elogio provocatorio delle moltitudini, del nomadismo e dell’ibridazione, perché in politica le identità stabili possono non piacere ma sono essenziali per condurre efficacemente un conflitto dal basso (e chi ha bisogno di unirsi, chi ha bisogno di un partito sulla base di una condivisione e di un patto razionale, bisogna sempre ricordarsene, sono anzitutto i deboli e non certo i forti). E se smantelliamo attivamente quelle identità storiche e culturali – le appartenenze di classe e le appartenenze politiche – che sono già in crisi per conto loro, se invece di rinnovarle e rivivificarle ne neghiamo ogni legittimità in nome del sogno di una sorta di amore universale indistinto, o della spontanea natura cooperativa del General Intellect, oppure le affidiamo alla casualità effimera di ciò che Laclau intende di fatto per “egemonia”, è facile che esse vengano sostituite da altre forme di identità. Le quali pretenderanno invece di essere fortissime, perché fondate su basi naturalistiche e persino biologiche che sono sì immaginarie ma non per questo meno pericolose.
Per unire oggi ciò che è stato diviso è necessario perciò anzitutto comprendere che siamo solo all’inizio di una fase di ritirata strategica che sarà molto lunga. Chi accusa di “purismo” gli intransigenti, sfidandoli sarcasticamente a indicare una via che porti rapidamente alla rivoluzione, esercita un’inutile provocazione. Se c’è qualcuno che pensa che la rivoluzione sia alle porte, o che sia quantomeno possibile un “cambiamento”, è proprio chi si illude che sia possibile “cambiare le cose dall’interno”. Se ragioniamo in termini di cicli storici e andiamo al di là della superficie evemenenziale delle cose, lo spostamento a destra del quadro politico nazionale e ancor prima internazionale, che pure dura dagli anni Ottanta, è invece appena cominciato. E lo smantellamento delle conquiste sociali del XX secolo non si arresterà e non farà prigionieri. L’esito delle elezioni americane, che alla campionessa corrotta delle élites attualmente dominanti contrapponeva il campione impresentabile delle élites concorrenti, il quale – sull’onda della rivolta della piccola borghesia impoverita e incattivita – si sbarazza degli ideologismi del “politicamente corretto” per esercitare direttamente il potere dopo averlo delegato per decenni all’establishment ovvero ai democratici o ai repubblicani, è in questo senso assai esplicativo. E il tifo sfrenato per l’uno o per l’altra che ha lacerato la sinistra europea, la quale sperava di compensare la propria impotenza tramite la vittoria altrui o facendo un dispetto alla propria moglie, lo è altrettanto.
Alla ricerca di sempre nuovi conigli dal cilindro che caratterizza la sinistra attuale, atterrita per aver perso ogni rendita di posizione, va invece contrapposto un altro percorso. Questo significa che dobbiamo predisporci a un lavoro di lunga durata, lungo un orizzonte pluridecennale e con un atteggiamento “nazionale-popolare” e cioè con a partire da quell’ispirazione gramsciana che a me sembra tuttora molto più corretta e utile di ogni richiamo al “populismo”. Chi pensa che basti trovare un leader o un simbolo o una sigla, chi si attacca a scorciatoie come Obama, Tsipras, o Corbyn, o oggi al pavido e subalterno Sanders, chi punta tutto sulle mobilitazioni elettorali, ci costringe a perdere tempo. Ricordiamoci sempre che – anche se può sembrare incredibile – c’è qualcuno che ancora fino a qualche mese fa ha creduto di individuare in Vendola o in Fassina o in Landini o in altri simili a loro delle figure di leader capaci di sopperire alla mancanza di lavoro e organizzazione. Questa è la situazione drammatica in cui siamo finiti.
Ma tutto ciò non deve portarci alla disperazione. Non deve cioè farci dimenticare che la storia c’è e le cose cambiano sempre, perché la dialettica dei rapporti di forza non cessa mai di scorrere nella società. E’ stato facile unire il movimento operaio nel XIX secolo? Per nulla. Si tratta allora di produrre un lavoro oscuro e misconosciuto di portata pari a quello compiuto in quegli anni, per ricucire realtà frammentate in un mercato del lavoro che sembra tornato a situazioni ottocentesche, quando il contratto nazionale non esisteva e lo sciopero era violazione della “libertà del lavoro” ovvero della libertà di sfruttare e farsi sfruttare. Questo lavoro deve svolgersi sul terreno sindacale e su quello culturale, che oggi sono più praticabili. Ma questo lavoro deve porsi il problema di un programma politico, senza il quale il lavoro sindacale e culturale da soli non hanno un orizzonte di lunga durata.
Questo è il punto più doloroso, però: se torniamo sul terreno politico, infatti, il dibattito arretra di almeno due decenni e ci costringe a discutere ancora se fare le alleanze e ricostruire il centrosinistra e dove e in quali occasioni. Siamo cioè lontanissimi, a conti fatti, dalla minima presa di coscienza della tragicità del momento di cui parlavo all’inizio, e ci balocchiamo ancora con figure idealtipiche della nostra impotenza e esistenzialmente nocive come Bersani o Vendola. Se poi dallo scenario nazionale allargassimo lo sguardo a quello internazionale e ai suoi urti latenti, dovremmo solo andare a nasconderci per quanto sono gravi oggi i rischi di conflitto generalizzato. Sono passati quasi trent’anni dalla fine del campo socialista e siamo sempre fermi là: ecco, se non c’è uno scarto sul piano politico che sblocchi la situazione, per altri trent’anni non andremo da nessuna parte. Ma a tal fine è necessario che una o due generazioni totalmente compromesse con il passato – generazioni in senso politico, culturale e di mentalità, non in senso anagrafico – passi la mano. Ci vorrà purtroppo ancora molto tempo e cioè ci vorrà il definitivo esaurimento di ogni speranza di ricostituzione del centrosinistra, che alberga ancora in troppi cuori.
Teniamo conto che per questo obiettivo il contesto è assai difficile non solo per i rapporti di forza assolutamente sfavorevoli ma anche perché le nuove tecnologie digitali – che pure in un ambiente altamente acculturato come quello odierno potrebbero facilitare notevolmente il compito di una ricucitura sociale, mettendoci in una situazione molto più favorevole rispetto a quella dei nostri padri e nonni del XIX secolo -, sono ormai pressoché individualizzate. Esse riproducono perciò un ambiente produttivo di tipo “artigianale” e stimolano perciò forme di coscienza spontaneamente anarchicheggianti, nelle quali ciascuno è in condizione come piccolo produttore di farsi persino il proprio giornale e partito. Purtroppo però anche ciò che rimane dei partiti organizzati non sfugge a questo andazzo. Anche i partitini residui si comportano in questo modo e – ridotti a piccole confederazioni di clan locali che comunicano prevalentemente in rete – invece di unire dividono perniciosamente, perché pretendono che siano tutti gli altri ad annullarsi e a sposare la Giusta Linea. Ciò che essi possono invece fare per dare una mano è una sola cosa: mettersi a disposizione di un processo di convergenza imperniato su pochi punti (analisi storico-materialistica della realtà, autonomia politica rigorosa e orientamento anti-imperialista) e poi sparire per sempre.
Questo processo di separazione (finanche di isolamento e infine di soccombenza) della classe dei lavoratori (in generale, il mondo del lavoro) è stato portato avanti anche mediante la complicità della sinistra (di una particolare classe dirigente) con il grande capitale finanziario, da cui sembra prendere ordini. Come è potuto accadere questo? Si può parlare semplicemente di tradimento o c’è altro da prendere in esame?
Anzitutto bisogna stare attenti a come si maneggia la questione del capitale finanziario in contrapposizione al capitale industriale. Sebbene ci siano certamente differenze e la prevalenza dell’uno o dell’altro risponda a problematiche e contraddizioni interne al modo di produzione nel suo rapporto con l’ambiente storico circostante (il conflitto politico sociale), e sebbene questa gradazione contribuisca a determinare la natura della fase, il concetto stesso di capitale è impensabile senza il credito.
La scissione di questi due momenti, elevati a istanze metafisiche e staccati dalla loro natura processuale, è tipica del pensiero piccolo-borghese. Che a lungo è stato presente anche nel movimento socialista, in quanto rappresentava le istanze dei mestieri tradizionali travolti dai processi capitalistici, di fronte alla crisi e a problemi che quei soggetti sociali non riuscivano a comprendere (una situazione che presenta notevoli analogie con quella attuale). Nella storia delle idee la distinzione tra capitale imprenditoriale e un capitale finanziario cattivo – denaro che genera denaro, ricchezza parassitaria e frutto dell’usura esercitata a danni del lavoro produttivo, un lavoro che caratterizzerebbe il manovale quanto l’imprenditore – è però un cavallo di battaglia di una serie di filoni politici e culturali esplicitamente di destra. I quali già nella seconda metà del XIX secolo, per non parlare di ciò che accadde dopo la crisi del 1929, attaccavano la finanza proprio al fine di salvare la proprietà privata. E i quali, ponendosi in competizione con la mobilitazione socialista di ispirazione marxista, proponevano e propongono una narrazione alternativa a quella della sinistra di classe, accusata di complicità con la finanza mondialista e apolide già a partire dalla sua filosofia della storia progressista.
Oggi, in un’epoca di confusione e di revival delle istanze piccolo-borghesi, non bisogna cadere in questi tranelli già visti in diversi momenti della storia. Ficchiamocelo in testa una volta per tutte, senza farci ingannare dalle sirene di chi sostiene, anche provenendo da posizioni di estrema radicalità, che la vera novità della fase sia il superamento delle categorie di destra e sinistra e l’emergere di un fronte trasversale e “transpolitico” di opposizione al capitalismo neoliberale su basi identitarie naturalistiche (“geopolitiche”). Siamo in una fase molto pericolosa, nella quale la piccola borghesia in via di impoverimento ha revocato il mandato che aveva storicamente conferito alla grande borghesia (a patto che questa ne tutelasse almeno in parte gli interessi) e pensa d’ora in avanti di poter fare in proprio. Ovviamente non ne è capace ed è per questo che questa zona grigia della società è esposta all’influenza di una lotta senza quartiere che si svolge all’interno delle élites, e cioè le classi dominanti, le quali si contendono a suon di miliardi il consenso dei ceti medi impauriti (Trump e Le Pen, che pure molti a sinistra hanno cominciato ad ammirare, sono la personificazione di questa deriva che nasce come rivolta contro i Clinton e gli Hollande ma finisce dritta dritta in una guerra tra poveri). Né ha senso, come molti pasticcioni a sinistra pretendono, pensare che la confusione che dilaga nei ceti medi possa facilmente portare a un fronte popolare di questi settori con le classi subalterne: chi è abituato a fare blocco verso l’alto – i piccoli evasori si sentono ancora borghesi come i grandi banchieri – cerca di fuggire dai poveri, dei quali non sopporta la puzza perché teme di diventare come loro.
Per venire però alla domanda, ritengo che la categoria di tradimento vada esclusa sul piano scientifico. Essa viene usata da sempre nella polemica politica e in questo senso è probabilmente ineliminabile, per quanto sgradevole, sul piano retorico. Ma sul piano della comprensione effettiva dei processi non serve a nulla, esattamente come la categoria di “coerenza” o quella di “estremismo”, o come la coppia categoriale “vecchio/nuovo”, che è meramente formalistica. Chi usa questi concetti, nega che la storia si muova. E nega in sostanza anche il conflitto politico-sociale. Nega cioè che il conflitto politico-sociale serva a qualcosa, che produca effetti, che sposti le contraddizioni in atto e determini i comportamenti e le forme di coscienza. Nega che esista la lotta tra le classi e dentro le classi. E riduce facilmente la storia a un insieme di complotti che vengono prodotti a ripetizione su un piano meramente soggettivistico.
Invece il conflitto politico-sociale, la lotta di classe, esiste. E condiziona forme di coscienza e comportamenti mentre cambia la realtà. E poiché costituisce il tessuto connettivo e l’energia di movimento della società, questo conflitto si dispiega in ogni ambito e in ogni parte della società stessa. Quello che viene deplorato come un tradimento, perciò, non è altro per lo più che la conseguenza di una sconfitta nell’ambito di un conflitto. La sinistra non ha affatto “tradito” il proprio mandato: la sinistra è cambiata, certo, perché è stata trasformata, come inevitabilmente avviene nella storia. Solo che questa trasformazione, essendo figlia di una sconfitta epocale e del peggioramento dei rapporti di forza, si muove nel senso stesso della tendenza generale dominante. E dunque si muove nel senso di uno slittamento a destra complessivo del quadro sociale e politico. Non è la sinistra che va a destra perché ha tradito i poveri: lo fa in quanto ha perso la guerra, ha preso una botta fenomenale ed è tutto il contesto che si spinge e ci spinge in quella direzione.
La lotta di classe va pertanto presa sul serio: non come uno mero slogan declamatorio della domenica ma come il principale strumento di analisi della realtà storica e sociale. E anche il suo esito e le sconfitte che possono maturare al suo interno vanno presi sul serio. E’ ovvio che la sconfitta, che può avvenire per ragioni molto diverse, produce subalternità. E reciprocamente produce l’egemonia del campo avverso. La sinistra è stata dunque sconfitta e egemonizzata a tal punto da venire mutata in destra, nel volto glamour dirittumanista, acculturato e riflessivo della destra.
Una cosa diversa da quanto ho appena detto, e più generale, riguarda invece il fatto che da un altro punto di vista si fa spesso passare per “tradimento” ciò che è semplicemente “apprendimento”. E’ chiaro che un movimento istituzionalizzato è diverso da uno in fusione. E’ chiaro che una forza politica che prende il potere si comporta diversamente da una forza politica che lotta per ottenerlo. E’ chiaro che la dimensione mitologica e religiosa, il purismo, l’idealismo, l’estremismo che possono essere necessari nella fase di accumulazione delle forze, non possono essere utili per gestire fasi successive, nelle quali prevale il compito della ricostruzione di un ordine. In questo senso, la storia del movimento operaio è la storia di continue scomuniche reciproche e di reciproche accuse di tradimento (il cui modello è forse l’accusa di Trotzky verso Stalin di aver tradito l’ideale rivoluzionario, come se la politica non fosse una continua catena di “tradimenti” e come se lui fosse più affidabile…), dietro le quali si nasconde in realtà una scarsa attitudine alla comprensione delle dinamiche storiche. Cosa assai grave per chi si richiama a una teoria, il materialismo storico, che proprio questa comprensione dovrebbe facilitare….
Per continuare a leggere l’intervista, vedi Fonte:http://csepi.it/index.php/21-interviste/89-intervista-al-prof-stefano-azzara
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