2017, l’anno della frattura
di FEDERICO DEZZANI
Il 2017 ha emesso i primi vagiti e molti si domandano quali novità abbia in serbo. Se il 2016 è definibile come l’anno dell’agonia del vecchio ordine mondiale a guida angloamericana, il 2017 ne sancirà il trapasso: insediatosi Donald Trum alla Casa Bianca, gli USA adotteranno per la prima volta dagli anni ’30 una politica estera neo-isolazionista, disimpegnandosi da storiche istituzioni come la UE e la NATO. Le forze centrifughe in seno all’Unione Europea ne usciranno galvanizzate ed una serie di tornate elettorali sarà in grado di infliggere il colpo di grazia all’eurozona. Nell’Est europeo ed in Medio Oriente, un numero crescente di Paesi cercherà riparo sotto l’ombrello russo, mentre la situazione si farà critica per gli ex-satelliti statunitensi lasciati senza protezione. La globalizzazione, già in affanno, subirà un drastico arresto. Al termine del 2017, il mondo sarà irriconoscibile.
I dodici mesi che seppelliranno un’epoca
Il 2017 è un bimbo in fasce ed ha emesso soltanto i primi vagiti: attorno a lui c’è già però una gran ressa di analisti, chini sul neonato per osservarlo da vicino. A tutti preme un interrogativo: come evolverà l’anno appena iniziato? Quali novità apporterà? Come muteranno il panorama internazionale e l’economia mondiale durante i prossimi dodici mesi?
Sono domande cui anche noi cercheremo di dare una risposta, partendo da una semplice costatazione: ogni anno è il figlio naturale del precedente, da cui riceve un’eredità ben precisa. Avendo definito il 2016 come “l’agonia dell’ordine mondiale liberale”, l’anno in cui il sistema internazionale basato sull’egemonia angloamericana è entrato nella fase terminale, si può dire che il 2017 abbia, in un certo senso, un destino già segnato: sarebbe azzardato ipotizzare un’inversione di tendenza, mentre è più facile che le dinamiche in atto maturino e giungano alla loro naturale conclusione. Se si dovesse dare un nome di battesimo al 2017, quello più appropriato sarebbe “l’anno delle frattura”: lo spartiacque tra il prima ed il dopo, la fine di un ciclo, il tramonto di un’epoca.
L’ordine mondiale basato sulla supremazia angloamericana, uscito dall’ultima guerra e rafforzatosi momentaneamente nel 1991 coll’implosione dell’URSS, collasserà definitivamente: istituzioni che fino a poco tempo fa sembravano solide ed eterne come la roccia, pensiamo alla UE ed alla NATO, si sgretoleranno. In parallelo si sfilaccerà anche il tessuto economico che ha caratterizzato l’ordine mondiale “liberale” dal 1945 e, in particolare, la sua ultima fase iniziata negli anni ’90: la globalizzazione sfrenata, il movimento senza controlli di capitali e uomini, il predominio della finanza sull’economia reale. Al termine del 2017, il volto del mondo sarà irriconoscibile, sebbene ci vorranno ancora anni e molte scosse di assestamento prima che emerga un nuovo assetto internazionale.
La principale eredità lasciata dal 2016 è, senza dubbio, la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane.
La Brexit, se isolata, avrebbe prodotto danni gravi ma dilazionabili nel tempo (tutt’ora non è stata fissata una data per l’avvio del divorzio dall’Unione Europea) e contenibili in sede di negoziati: il sistema atlantico ne sarebbe uscito malconcio, ma integro. La posta in gioco era invece più alta alle presidenziali statunitensi dell’8 novembre, perché l’affermazione del candidato “populista” avrebbe decapitato la catena di comando che parte da Washington e si irradia nelle diverse “province” dell’impero. In particolare, nell’attuale contesto geopolitico dove l’unico vero centro di potere alternativo è la Russia, la vittoria del candidato anti-establishment avrebbe giovato a Mosca che, dal Medio Oriente all’Europa, è in aperta concorrenza con l’oligarchia atlantica: ciò spiega la violenza della campagna elettorale, le accuse a Trump di essere un fantoccio del Cremlino, la reazione scomposta della nomenclatura di Washington ed il tentativo di Barack Obama e delle agenzie di sicurezza americane di avvelenare il più possibile i rapporti tra Russia e Stati Uniti.
Difficilmente l’establishment euro-atlantico getterà la spugna: è probabile che in occasione dell’insediamento alla Casa Bianca e nei mesi successivi, sia sfoderato negli Stati Uniti il solito armamentario delle rivoluzioni colorate già sperimentato altrove (manifestazioni, rivolte di piazza, occupazioni, etc. etc.) e di cui si è avuto un assaggio nel mese di novembre con le marce anti-Trump in molte delle principali città americane. È anche certo che le agenzie di sicurezza ed il Dipartimento di Stato remeranno contro Trump fino a quando le figure chiave non saranno sostituite con uomini della nuova amministrazione: resta però il fatto che il 20 gennaio Donald Trump entrerà nello Studio Ovale e, indipendentemente da tutte le manovre per tentare di defenestrarlo, ci rimarrà il un tempo sufficiente ad infliggere il colpo di grazia alle moribonde istituzioni euro-atlantiche.
Per la prima volta dagli anni ’30, la Casa Bianca sarà occupata da un isolazionista, interessato a tagliare gli impegni internazionali per dirottare risorse sull’economia interna e convinto che la natura “insulare” degli Stati Uniti e l’ammodernamento dell’arsenale nucleare siano più che sufficienti per garantire la sicurezza degli Stati Uniti. All’estero si assisterà quindi ad un drastico ripiegamento degli Stati Uniti, che abbandoneranno le posizioni conquistate dal 1945 e diventate oggi insostenibili dal punto di vista economico-militare: la traiettoria del debito pubblico americano fa tremare i polsi, le infrastrutture del Paese cadono letteralmente a pezzi e scarseggia sia il capitale umano che finanziario per presidiare le province dell’impero. È la stessa fase sperimentata dall’impero britannico nel secondo dopoguerra.
Per quanto concerne l’Estremo Oriente, Trump ha promesso di stracciare il trattato commerciale TTP, cui la precedente amministrazione democratica aveva dato una forte valenza politico-economica in chiave anti-cinese. Giappone e Corea del Sud, due Stati ormai assuefatti al dominio americano, tenteranno di negoziare con Trump la conservazione delle basi militari, proponendo di accollarsi una quota crescente dei costi di “difesa”, come richiesto da Trump in campagna elettorale. Le economie emergenti asiatiche (Filippine, Indonesia e Malesia), constatato l’affievolirsi dell’influenza americana, proseguiranno invece nel 2017 il loro avvicinamento alla nuova potenza egemone della regione, la Cina, con cui contratteranno le migliori condizioni possibili per una pax sinica nel Pacifico Meridionale.
Calata nella realtà europea, la politica estera di Trump si tradurrà invece in un ridimensionamento (o smantellamento tout court?) della NATO ed in una malevola indifferenza per i destini dell’Unione Europea, che da sempre è il risvolto politico dell’Alleanza Nord-Atlantica. “Malevola”, perché le istituzioni di Bruxelles sono un prodotto di quell’oligarchia finanziaria che ha cercato in ogni modo di boicottare l’elezione di Trump e sta cercando tuttora di minarne la legittimità. L’affiatamento tra il prossimo presidente americano e Nigel Farage e la parallela reazione isterica di Jean-Claude Juncker alla notizia della vittoria di Trump, sono esemplificativi per capire il rapporto che si instaurerà tra la Casa Bianca e Bruxelles.
In un quadro di minori tensioni politiche ed economiche, la UE avrebbe potuto forse sopravvivere senza la tutela degli USA, che dai tempi della CECA supervisionano il processo di integrazione europeo parallelamente all’estensione della NATO. Il discorso è diverso nel 2017, dopo sei anni di eurocrisi e due anni di emergenza migratoria: già ai tempi della paventata “Grexit” emerse il ruolo decisivo degli USA nel sedare le spinte centrifughe dentro la l’Unione Europea. Le possibilità che le istituzioni di Bruxelles, private della guida americana, riescano a soffocare le forze disgregatrici, rasentano lo zero. Al prossimo acuirsi della crisi politica e/o finanziaria in Europa, non ci sarà più nessun Barack Obama a impedire l’uscita dall’eurozona di questo o quel membro, ma al contrario un presidente simpatetico dei populismi europei, pronto a sostenere qualsiasi Paese che desideri abbandonare l’Unione Europea, proprio come a suo tempo si schierò a favore della Brexit.
Una serie di consultazioni elettorali, decisive concentrate nell’arco di pochi mesi, travolgerà quindi nel corso del 2017 la moneta unica e quel che resta delle istituzioni europee.
Si comincia il 15 marzo, con le legislative olandesi: l’antieuropeista Partito della Libertà, forte della successo referendario con cui ha affossato l’accordo di associazione tra Ucraina ed Unione Europea, è dato in testa ai sondaggi ed il suo fondatore, Geert Wilders, si è detto favorevole ad un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea sulla falsariga di quello inglese. Il successo alle urne dei populisti olandesi è importante soprattutto perché tirerà la volata agli omologhi francesi: il 23 aprile ed il 7 maggio, si svolgeranno i due turni per eleggere il prossimo inquilino dell’Eliseo.
Sarà l’appuntamento risolutivo per il destino dell’euro: un Francia in pieno stato d’emergenza, piegata da una disoccupazione record e schiacciata da una mole crescente di debito pubblico, sarà chiamata a scegliere il prossimo presidente tra il conservatore François Fillon e l’antieuropeista Marine Le Pen. Sebbene il voto socialista convergerà certamente verso il primo, il Front National ha le carte in regola per svuotare il bacino elettorale del centrodestra: dalla sua parte gioca la fiacchezza di Fillon, l’insofferenza verso i partiti tradizionali, il vento populista che soffia forte ovunque ed un anti-europeismo di fondo della Francia, già manifestatosi nel 2005 con la clamorosa bocciatura della costituzione europea.
Vinte le presidenziali, Marine Le Pen sarebbe in grado di indire un referendum sulla permanenza della Francia nell’Unione Europea. Dato l’attuale sfilacciamento politico e finanziario, il suo successo alle urne sarebbe però di per sé sufficiente ad innescare la deflagrazione dell’eurozona: l’Unione Europea è basata sul condominio franco-tedesco ed una Parigi in mano ai “populisti” sarebbe il segnale che l’esperimento europeo è giunto al capolinea. La vittoria di Marine Le Pen eclisserebbe persino le elezioni federali tedesche che si terranno tra settembre ed ottobre, elezioni con cui Angela Merkel cerca il suo quarto mandato alla Cancelleria Federale. Le proiezioni danno la CDU-CSU ai minimi storici (stabilmente al di sotto il 30% delle intenzioni di voto1), rendendo pressoché impossibile per Angela Merkel, il principale referente dall’establishement atlantico in Europa, emergere come capo di una nuova grande coalizione dopo aver trascinato nel baratro il proprio partito. Ma a quel punto che peso avrebbe la sua caduta, se l’Unione Europea fosse già in fase di dissoluzione per colpa di un’altra donna, il presidente francese Marine Le Pen?
In ossequio al principio del “simul stabunt, simul cadent”, anche la NATO, la cornice politico-militare in cui è nata e cresciuta l’Unione Europea, sarà scossa alle fondamenta: durante le amministrazioni Clinton, poi Bush ed infine Obama, l’Alleanza Nord Atlantica è stata estesa sempre più ad est, lasciando ipotizzare anche l’ingresso di Paesi come la Georgia e l’Ucraina che avrebbero proiettato Washington nel cuore della Federazione Russa. Sono domini imperiali che gli Stati Uniti oggi, sfiancati economicamente e socialmente, non riescono più a sostenere, come candidamente ammesso da Trump: “la NATO è obsoleta” . “gli Stati Uniti non si possono permettere di essere i poliziotti del mondo. Dobbiamo ricostruire il nostro Paese”.2
È difficile ipotizzare se Trump annuncerà un ritiro tout court degli Stati Uniti dalla NATO o ne concorderà con i Paesi europei un ridimensionamento a tappe: quel che certo è che durante il 2017 la presenza americana sul Vecchio Continente diminuirà per la prima volta dal 1945. È certo che sia il Dipartimento di Stato sia ampi settori del Pentagono si opporranno strenuamente all’abbandono dell’Europa, accusando il neo-presidente di essere comprato/ricattato da Mosca, ma in favore di Trump gioca il disappunto dell’elettore medio per le folli spese militari all’estero, soprattutto in assenza di una chiara minaccia.
Alcuni Paesi del centro e dell’est europeo (Ungheria, Bulgaria, Moldavia), hanno già iniziato un processo di riavvicinamento alla Russia; altri (Romania e Polonia) saranno obbligati ad una dolorosa ristrutturazione delle loro politiche estere, da ricalibrare in base ai mutati rapporti di forza: la Russia, ritrovata superpotenza mondiale, si è candidata a colmare il vuoto geopolitico lasciato dagli angloamericani in Europa e Medio Oriente. L’Ucraina affronterà nel corso dell’anno un probabile collasso economico e politico, prodromo di un suo rientro nell’orbita russa.
Veniamo ora al capitolo mediorientale. Le ultime cartucce sparate dall’amministrazione Obama sono state dirette proprio contro la Turchia, colpevole di un riavvicinamento alla Russia: prima il tentato colpo di Stato di luglio, poi l’uccisione ad Ankara dell’ambasciatore Andrei Karlov, infine la strage di Capodanno in un noto locale di Istanbul, mirata a gettare il Paese nel caos colpendo un’industria chiave come quella turistica. Il 2017 cementerà la triangolazione Mosca-Ankara-Teheran che espellerà de facto gli angloamericani ed i francesi dalla regione. Sul fronte arabo, l’affievolirsi della destabilizzazione atlantica, consentirà all’Egitto di Abd Al-Sisi di consolidarsi, estendendo la sua sfera di influenza sulla vicina Libia grazie al generale Khalifa Haftar, candidato a spodestare l’effimero governo d’unità nazionale di Faiez Al-Serraj anche grazie al sostegno politico-militare di Mosca.
Il futuro si complica invece per quelle potenze regionali sinora protette dall’ombrello americano e rimaste escluse dal riassetto della regione sotto l’egida del Cremlino: Qatar ed Arabia Saudita. Doha, tanto ricca quanto inconsistente dal punto di vista demografico, ha recentemente “comprato” la benevolenza di Mosca investendo 2,7 $mld nella russa Rosneft. Più complicata la situazione della popolosa Arabia Saudita, schiacciata dal duplice peso di una crisi finanziaria (il deficit dello Stato si è attestato a 80$ mld nel 2016) e di un ingestibile guerra nel vicino Yemen: svincolatisi gli USA dal greggio mediorientale (Trump ha addirittura promesso in campagna elettorale di vietare l’import di petrolio straniero3), Riad rischia nel corso del 2017 di precipitare nel caos, tra crisi economica, isolamento internazionale ed una crescente assertività iraniana. Dopotutto la monarchia saudita, proprio come la NATO e la UE, è un “prodotto” del vecchio ordine mondiale in disfacimento.
L’arresto del flusso di petrolio dall’Arabia Saudita agli Stati Uniti rientra nella più ampia crisi della globalizzazione che non si è mai ripresa dalla Grande Recessione del 2008 ed ha conosciuto una nuova caduta del volume del commercio mondiale negli ultimi due anni4: la delocalizzazione della produzione nei Paesi a basso costo e l’abolizione di qualsiasi dazio o barriera doganale appartenevano anch’essi all’ordine mondiale che è giunto al capolinea. Abbiamo sopra accennato all’intenzione di Trump di stracciare il TTP, ma anche altri accordi commerciali come il NAFTA rischiano di essere abrogati o rivisitati dal neo-presidente: si è parlato persino di una possibile uscita degli USA dall’Organizzazione Mondiale del Commercio5, una mossa che mettere un pietra tombale sopra la globalizzazione selvaggia iniziata negli anni ’90.
Implosione dell’eurozona, caos politico negli ex-satelliti americani, caduta del commercio mondiale: il 2017 si preannuncia un anno al cardiopalma per i mercati finanziari. Le prospettive di un ulteriore stratta dei tassi da parte delle banche centrali svaniranno nel corso dell’anno, man mano che si concretizzerà lo scoppio della bolla azionaria ed obbligazionaria alimentata dalla FED, dalla BOE, dalla BCE e dalla BOJ dal lontano 2009. La necessità di ravvivare l’economia sposterà l’azione dei governi dalle fallimentari politiche monetarie espansive, che per anni hanno gonfiato solo i bilanci delle banche e dei fondi d’investimento lasciando a bocca asciutta l’economia reale, alle politiche fiscali: opere pubbliche in funzione anti-ciclica, finanziate con moneta fiat, così da contenere la disoccupazione, ravvivare l’inflazione ed alimentare la domanda.
Siamo così arrivati, nel volgere di pochi paragrafi, al 31 dicembre 2017. Sono trascorsi appena dodici mesi, eppure all’osservatore sono sembrati un secolo. L’ordine mondiale a guida americana si è definitivamente sfaldato, producendo forti turbolenze: l’eurozona è collassata, i mercati finanziari si sono avvitati, la NATO è in dissoluzione, il Medio Oriente è entrato saldamente nell’orbita russa, la Cina è la potenza egemone nel Pacifico meridionale, gli USA si sono ritirati al di là degli Oceani, la globalizzazione si è frammentata in mercati regionali.
Un’epoca, cominciata nel lontano 1945, si è definitivamente conclusa ed un nuovo mondo, più difficile ed articolato ma anche più dinamico e vitale, cerca i suoi equilibri.
1http://www.politico.eu/article/angela-merkels-conservatives-sink-to-all-time-low-in-poll-germany-elections-afd-cdu/
2http://www.independent.co.uk/news/world/americas/trump-lambasts-nato-as-obsolete-and-demands-reform-a6959076.html
3https://www.ft.com/content/c0ff2e20-ab49-11e6-ba7d-76378e4fef24
4https://www.ft.com/content/9e2533d6-dbd8-11e5-9ba8-3abc1e7247e4
5http://www.reuters.com/article/us-usa-trump-wto-idUSKBN13J15U
fonte: http://federicodezzani.altervista.org/2017-lanno-della-frattura/
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