Italia e globalizzazione
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alessio Sani)
Marchionne si ingrazia Trump, mentre l’Istat certifica un incremento della disoccupazione. L’Italia alle prese con la globalizzazione, nella speranza che Trump sia veramente un game changer.
E così eccoci qua, un anno dopo, a commentare la nuova gita di Marchionne a Detroit. Il palcoscenico è di nuovo il salone dell’auto più importante d’America, che aprirà i battenti il 14 gennaio. Nel weekend di preparazione Fca ha emesso una nota in cui annunciava un investimento da un miliardo di dollari negli Usa, per ampliare la capacità produttiva degli stabilimenti di Warren (Michigan) e Toledo (Ohio), prevedendo di creare contestualmente duemila nuovi posti di lavoro. Di per sé niente di entusiasmante, non fosse che nel mentre Donald Trump ha vinto le elezioni americane con un messaggio isolazionista e protezionista. Puntuale è arrivato dunque il tweet del Presidente Eletto, per ringraziare Fca e parallelamente prendersi il merito della presunta “svolta” di Marchionne. Questi, dal canto suo, è stato bravo ad ingraziarsi con piccolo sforzo e tanto tempismo il prossimo Presidente. In realtà, se si guarda ai dati, già da tempo Marchionne, il cui obbiettivo è probabilmente la fusione con Gm, il grande malato dei Big Three dell’auto americana (gli altri due sono Ford e Chrysler, già inghiottita), aveva già progettato grandi investimenti negli Usa, ma ancor più grandi in Messico.
Niente di nuovo, dunque. Marchionne risponde semplicemente (e giustamente, rebus sic stantibus) alla logica del profitto e cerca pertanto di organizzare la produzione di quel player ormai globale che è Fca nel modo più razionale possibile. Le piccole utilitarie in Usa non vanno, dunque le si fa in Messico. I camion, che sono più profittevoli, magari possono restare in Michigan assieme ai Suv. Trump, se vorrà essere davvero un game changer, quell’honest ideologue la cui venuta è stata paventata per anni da Noam Chomski, non potrà limitarsi al maquillage della notizia: i cambiamenti dovranno essere sostanziali.
Veniamo all’Italia. Mirafiori, dopo anni di abuso della cassa integrazione, pare essere in ripresa. La produzione è in notevole espansione da due anni e dal 2018 pare ricomincino le assunzioni. I dati di lungo periodo però, già riportati nel nostro precedente articolo di analisi su Fca, rimangono a testimonianza della deindustrializzazione del Paese. In controtendenza con la timida ripresa dell’attività industriale della fu Fiat, invece, appaiono i dati sull’occupazione di fine 2016 rilasciati dall’Istat. Se da un lato il numero degli occupati è vicino ai massimi del 2009, attestandosi a quota 22,7 milioni, il 57,3% della popolazione attiva (cioè quella convenzionalmente compresa tra i 15 e i 64 anni di età), dall’altro il tasso di disoccupazione è in aumento e raggiunge l’11,9%, nuovo record da giugno 2015 mentre in tutta Europa è in calo. In totale i disoccupati italiani superano quindi i tre milioni. Si conferma drammatica e in peggioramento la situazione dei giovani, il cui tasso di disoccupazione tocca il 39,4%. Un po’ meglio va alla fascia over 50, l’unica ad aver visto un incremento sostanziale dell’occupazione (+453mila posti).
Da questo bailamme di dati si evincono due cose. La prima: gli zero virgola testimoniano il permanere della crisi. La seconda: il tasso di disoccupazione va assumendo la valenza che era propria del tasso d’inflazione. Sta diventando, cioè, il principale indicatore del deficit di competitività dell’economia italiana, per questo i documenti della Bce parlano di “disoccupazione strutturale”. Questo uno studio molto interessante della Bce a riguardo. Vedremo di tornarci per chiarire questo punto.
Viene quindi spontaneo porsi una domanda: se l’Italia ha fame di posti di lavoro, perché Fiat investe un miliardo di dollari in Usa invece che qua? La tentazione è forte, la realtà un pochino più complessa. Vediamo di chiarire cos’è Fiat oggi. Al momento Exor, la holding finanziaria della famiglia Agnelli cui fa capo Fca, è al 19esimo posto nella Fortune Global 500. Per chiarire, significa che è uno dei venti principali conglomerati finanziario-industriali del pianeta ed ha interessi sparsi per tutto il globo. La parte di Fca ancora in Italia, come Mirafiori o Ferrari, è diventata una componente sostanzialmente marginale di una holding che ha sede fiscale a Londra e sede legale ad Amsterdam. Storicizzando il concetto, gli Agnelli sono stati praticamente gli unici imprenditori italiani capaci di comprendere appieno cosa significasse la globalizzazione e pertanto hanno fatto il grande salto, slegandosi da un mercato nazionale in favore del nuovo ordine sovranazionale. È quindi impensabile che Fiat torni ad investire massicciamente in Italia per svariati motivi, dal mercato troppo piccolo per un’azienda globale, al costo del lavoro non competitivo, all’inefficienza della pubblica amministrazione o alla carenza di infrastrutture. Soprattutto, Fiat (o qualunque altra azienda di quella stazza) non ha più la volontà, sostanzialmente politica nel senso schmittiano del termine, di sentirsi italiana, né le converrebbe farlo se il campo da gioco rimane globale.
A questo punto bisogna comprendere come funziona questo campo da gioco globale. Ce lo spiega, a grandi linee e probabilmente esagerando l’intensità di certi fenomeni, ma non sbagliando invece sulla qualità di questi, cioè sulla direzione presa dalla Storia, Thomas Friedman, columnist del NY Times e tre volte vincitore del Pulitzer, nonché teorico della globalizzazione. Qui, sul sito dell’Università del Colorado di Boulder, se ne trova un sunto. Giusto alcuni accenni fondamentali. Il mondo è piano, ci dice, e lo è diventato con la caduta del Muro di Berlino e la nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Questo significa che, con la liberalizzazione dei mercati finanziari, chi comanda è l’electronic herd, letteralmente la mandria elettronica, cioè l’enorme massa di capitali virtuali che, con un click, si muovono per l’intero pianeta. A seconda di dove questi capitali decidano di fermarsi, lì c’è crescita, cioè questi mettono in moto l’economia reale, costruendo fabbriche, strade, ponti, aeroporti, etc. Chiaramente, questi capitali non si muovono a caso, ma vanno dove hanno il maggior margine di profitto possibile. Da qui il secondo concetto cardine del pensiero di Friedman, la golden straitjacket, la camicia di forza dorata che spiega come mai i vari governi che si sono succeduti in Occidente, di centro-dx come di centro-sx, hanno sostanzialmente perseguito le stesse politiche economiche. Erano infatti obbligati a farlo, pena perdere l’interesse della mandria elettronica. Il problema italiano, secondo il pensiero mainstream, sta tutto qua: da un lato siamo obbligati a fare determinate politiche neoliberiste (le famose “riforme strutturali” che ci chiedono da secoli), dall’altro le facciamo troppo timidamente perché vanno in direzione contraria rispetto alla volontà popolare, dunque chi le fa perde consenso politico. Ma è davvero così? Solo in parte, perché le politiche neoliberiste in realtà non stanno funzionando appieno neanche in America, altrimenti non si spiegherebbe Trump. In più, credo che non appartengano per nulla al dna italico. Guardiamo ora alla cosa da un altro punto di vista, ma complementare, cioè attraverso il famoso Trilemma di Rodrik, economista di Harvard.
Cosa significa? Che una globalizzazione ad alta penetrazione, come quella che sta avvenendo, obbliga lo Stato Nazione, scavalcato nella sua sovranità economica, ad indossare la camicia di forza dorata, cioè a rinunciare alla democrazia attuando politiche neoliberiste impopolari. Fin qua ci era arrivato anche Freidman. Rodrik aggiunge gli altri lati del triangolo. Le alternative allo status quo per lui infatti esistono e sono due: o si torna all’ordine di Bretton Woods, e allora è possibile avere uno Stato Nazione democratico che preservi le specificità sociali delle diverse aree del pianeta (seppure col rischio di perdere i vantaggi della globalizzazione, che pure ci sono); oppure si deve arrivare ad una forma di governo globale in grado di amministrare democraticamente un’economia globalizzata, a spese chiaramente delle specificità territoriali che verrebbero omogeneizzate dal processo di globalizzazione. Al momento ci troviamo sul lato peggiore del triangolo, dove la globalizzazione ad alta penetranza obbliga lo Stato Nazione ad attuare politiche impopolari, ma soprattutto, proprio per via dell’impopolarità di queste riforme e per un’accentuata riluttanza italiana ad accettarle rispetto ad altri Paesi, le attuiamo male e troppo poco, perdendo democrazia senza avere la crescita. Probabilmente, però, è meglio lasciar parlare lo stesso Rodrik, intervistato dal Sole24ore.
È interessante l’opinione di Rosa Lastra, docente di International Financial and Monetary Law alla Queen Mary University of London, citata a fondo articolo. Per lei la soluzione è la stessa proposta dalla Bce nel paper sulla disoccupazione strutturale citato prima: perseverare, cioè aumentare la flessibilità e la specializzazione della forza lavoro. Se i cinesi ci spiazzano dalla produzione di magliette, impariamo a fare prodotti ad alto valore aggiunto, in sostanza, e tagliamo i salari negli altri settori per reggere alla competizione.
Bene, guardiamo questo grafico:
Intanto, la competizione sfrenata globale, tra aree che partivano da condizioni di sviluppo molto differenti, esercita una pressione enorme sui salari. Pressione al ribasso, chiaramente, e questo deprime la domanda, ecco perché, a fronte di una capacità produttiva asiatica immensa, si parla comunque del rischio di una stagnazione secolare. Soprattutto, i settori tecnologici a produzione delocalizzata non favoriscono la creazione di una classe media, che infatti anche in California va scomparendo. Per farla breve, i dati macro, gli aggregati della Silicon Valley sono buoni: crescita costante, dell’occupazione e del salario medio. Quella che è pessima è la distribuzione di quella ricchezza, che anzi si è andata concentrandosi verso l’alto. Semplificando, una parte piccola ma consistente della popolazione, impiegata nella ricerca e sviluppo dei colossi del digitale, guadagna cifre a cinque zeri e incassa spesso cospicui bonus azionari. I restanti quattro quinti della popolazione sono occupati nei servizi di cui questa élite tecnica usufruisce, dalla cameriera personale al giardiniere dell’azienda esternalizzato alla guardia giurata. Queste persone, la gran parte, non ha visto il proprio reddito crescere. Se ci aggiungiamo che lo stesso sviluppo tecnologico, dopo aver falcidiato i ranghi, nell’ordine, di contadini e operai, adesso comincia a ridurre i numeri di posti in ufficio, è chiaro che al problema della distribuzione orizzontale tra Nazioni si affianca il problema della distribuzione verticale intrasociale. Ce lo testimonia questo studio sulle disuguaglianze proprio nella Silicon Valley. Questo significa che le soluzioni proposte dalla Bce nello studio citato non sono in realtà tali. Incrementare la flessibilità significa indebolire i salari per reggere alla pressione low tech cinese, cui siamo particolarmente sensibili, mentre aumentare la specializzazione può salvare solo una parte della popolazione, non tutta, e ci porrebbe in competizione con California, Germania e Giappone, non proprio degli avversari morbidi.
Quali soluzioni si presentano quindi? Poche. Dovrebbe essere chiaro che all’interno della globalizzazione l’Italia ha poche speranze di ripresa reale. Stiamo subendo un doppio scacco matto, dall’alto e dal basso, nel quale è vero che certe eccellenze prosperano, ma sono insufficienti a garantire benessere per 60milioni di persone. In più, c’è la convinzione personale di chi scrive, almeno in parte suffragata dai dati, che il modello di sviluppo migliore per lo spirito e le caratteristiche italiane sia quello che abbiamo sperimentato dagli anni ’30 agli anni ’80, l’economia mista. Questa necessita però di uno Stato dotato di tutte le leve di sovranità economia, dunque sovranità monetaria, di cambio, fiscale e commerciale. In più, bisogna sperare in un cambio del paradigma globale, che si va facendo sempre più impellente. Come ha scritto recentemente Forchielli, a difendere la globalizzazione ormai è rimasta solo la Cina. Serve una nuova Bretton Woods, ma per farla è necessaria la buona volontà di tutti i principali attori globali, Stati Uniti in primis. L’elezione di Trump fa ben sperare, ma è meglio non farsi illusioni.
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