di OCCHI DELLA GUERRA (Andrea Muratore)
La morte dell’ex Presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, deceduto lo scorso 8 gennaio all’età di 82 anni per un attacco di cuore, ha messo la Repubblica Islamica dell’Iran di fronte alla necessità di un’importante riflessione sugli indirizzi che il paese ha assunto a partire dall’instaurazione dell’attuale ordinamento statuale, avvenuto nel 1979 con la detronizzazione dello Shah Reza Pahlavi, e sui possibili sviluppi futuri che la sua politica interna ed estera potrebbe conoscere nei prossimi anni. Rafsanjani rappresentava uno degli ultimi simboli viventi del movimento che nel 1979 portò all’ascesa dell’Ayatollah Khomeini ed ha assunto un ruolo chiave nei destini della Repubblica Islamica sin dai primi anni della sua storia, contribuendo tra le altre cose a favorire la nomina dell’attuale Guida Suprema Ali Khamenei dopo la morte di Khomeini nel 1989, come ricordato da Kevjn Lim in un articolo pubblicato su The Diplomat.
Il fatto che, come ha sottolineato l’Economist, i funerali di Rafsanjani siano stati i più imponenti mai celebrati in Iran dopo quelli di Khomeini rende ampiamente l’idea dell’importanza del ruolo storico giocato da un leader altamente discusso, che ha indubbiamente lasciato un segno profondo sulla storia recente del paese.
Presidente dal 1989 al 1997, Rafsanjani, religioso appartenente all’importante ceto mercantile dei bazari e proveniente da una ricca famiglia di coltivatore di pistacchi, è stato a lungo l’ago della bilancia tra l’ala “conservatrice” della politica iraniana e la componente più propriamente “riformista”, mantenendo una delicata posizione che, nonostante diversi scontri con l’antico alleato Khamenei, gli ha sempre garantito la possibilità di influire profondamente sui destini della Repubblica Islamica.
Riccardo Redaelli, docente all’Università Cattolica di Milano, ha tracciato nel suo saggio L’Iran contemporaneo un dettagliato resoconto delle politiche implementate da Rafsanjani, asceso alla presidenza dopo la fine del lungo e prostrante conflitto con l’Iraq di Saddam Hussein: “Per Rafsanjani era prioritario garantire la ricostruzione di un paese devastato da otto anni di guerra e favorire lo sviluppo. Per avviare questo processo era tuttavia necessario migliorare le relazioni estere della Repubblica Islamica […] Nacque così quella che è stata definita la “Seconda Repubblica” […] in cui si attenuò l’importanza della mobilitazione delle masse a favore della stabilità politica e della ricostruzione economica”. Politico pragmatico e lungimirante, Rafsanjani era caratterizzato da una spiccata visione strategica, dato che proprio alla sua presidenza vanno ascritti i primi tentativi di costruzione di un sistema di alleanze economiche e politiche con i paesi dell’Asia Centrale post-sovietica e con la Russia, oggigiorno importanti partner di Teheran sotto il profilo diplomatico, commerciale e, per quanto riguarda Mosca, militare. La storia della sua carriera dopo l’ascesa alla presidenza, vista sul lato politico interno, è coincisa con la storia del difficile dialogo tra quello che Redaelli definisce “il gruppo dei tecnocrati vicini al Rahbar [la Guida Suprema]” e una componente trasversale della società civile favorevole alla trasposizione politica della dialettica di potere iraniana, a cui hanno sempre fatto riferimento determinati settori delle fondazioni, della burocrazia e del potere giudiziario. La dialettica tra “radicali” e “riformisti” (il virgolettato è d’obbligo, dato che si tratta di terminologie occidentali adattate a un contesto come quello iraniano ove l’architettura del sistema politico presenta diverse sfumature) ha visto Rafsanjani messo in minoranza nei primi Anni Duemila, dopo che la vittoria di Ahmadinejad ha garantito al gruppo più conservatore otto anni di controllo sulla presidenza ma, in seguito, ritornare al centro della vita istituzionale del paese dopo l’elezione di Hassan Rouhani, da lui supportato a partire dal 2013.
La sua posizione di Presidente del Consiglio per il Discernimento, l’organo deputato alla risoluzione dei contrasti tra il Parlamento (
Majlis) e il Consiglio dei Guardiani, gli ha consentito di fungere da tramite tra la Presidenza della Repubblica e la figura del
Rahbar, col quale Rafsanjani ha mantenuto, nonostante gli screzi degli Anni Novanta, un contatto diretto, mentre l’evoluzione del contesto internazionale gli ha consentito di propugnare apertamente un suo vecchio obiettivo, la risoluzione dei contrasti con gli Stati Uniti d’America. “Già nel 2013”, ricorda Kevjn Lim, “Rafsanjani ha avuto l’audacia di invocare uno dei presunti desideri finali di Khomeini” chiedendo che nelle manifestazioni commemoranti la “Crisi degli ostaggi” del 1979 si smettesse di cantare “Morte all’America!”, “la manifestazione verbale della politica estera condotta da paese”, mentre negli ultimi tempi si era speso in prima persona per fare da garante al Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo sul nucleare ritenuto una conquista importante dal Presidente Rouhani ma criticato apertamente da numerosi alti esponenti dell’ala “radicale”. Riccardo Redaelli,
in un articolo scritto per Avvenire in occasione della morte dell’ex Presidente, ha sottolineato come la scomparsa di Rafsanjani ponga i “moderati” iraniani in una difficilissima posizione in vista dei due cruciali appuntamenti che attendono la Repubblica Islamica nel 2017: la volontà del Presidente americano Donald Trump di revisionare l’accordo con Teheran, ritenuto deficitario per gli interessi statunitensi dal tycoon repubblicano, e soprattutto le importanti elezioni presidenziali di maggio, che rappresenteranno un test decisivo per capire il grado di consenso che sussiste nel paese per le politiche dell’attuale governo. Redaelli ha scritto che “la scomparsa di Rafsanjani renderà più difficile evitare che le tensioni dentro un’élite politica sfilacciata e frammentata non indeboliscano la Repubblica islamica stessa”, mettendo a rischio il capitale geopolitico acquisito dal paese con i risultati internazionali del governo uscente. Sulla stessa linea d’onda si
è posto Alberto Negri, che ha definito Rafsanjani “il padrino dell’Iran più pragmatico e moderato”; un Iran che si trova, come detto, destinato ad affrontare sfide cruciali nell’imminente futuro e che, all’incertezza in cui si dibatte la presidenza di Hassan Rouhani,
il quale teme di diventare il primo Presidente della storia della Repubblica Islamica a non centrare la rielezione, aggiunge i dubbi avvolgenti la lotta alla successione all’Ayatollah Khamenei, destinata a scatenarsi apertamente negli anni a venire. Il quadro tracciato raffigura una situazione decisamente delicata, in cui le abilità diplomatiche e il pragmatismo di Rafsanjani sarebbero tornate estremamente utili. La folla che ha salutato la sua salma ne era consapevole, quando nei giorni scorsi ha contribuito a celebrare uno dei funerali più imponenti della storia iraniana: i cittadini della Repubblica Islamica, infatti, sanno bene che con l’ex Presidente della Repubblica se ne è andato un pezzo importante del loro passato, ma anche uno decisamente importante del loro futuro.
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