Diagnosi della crisi bancaria italiana
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Guido Rossi)
Bail out, bail in, bad bank. Tutte false soluzioni all’instabilità degli istituti di credito, giacché il vero problema è il cuore del sistema: la banca mista.
Sono mesi ormai che nelle pagine di giornali e nei servizi televisivi protagonista assoluta è la crisi del sistema creditizio, a cominciare dal caso MPS (Monte dei Paschi di Siena). Attualmente a tenere banco, nell’ambito delle vicende di MPS, è la polemica relativa ai grandi debitori insolventi i cui inadempimenti avrebbero contribuito agli squilibri della banca. Ma come mai le banche italiane, siano esse grandi o popolari, barcollano da anni come ubriache senza apparente possibilità di riprendersi dalla sbornia, nonostante i continui interventi statali e della Banca Centrale Europea? Forse una spiegazione c’è.
MPS, il caso
Prima di tutto ripercorriamo, per un attimo, le tappe principali della crisi del “Monte”, le cui cause non sono affatto dissimili da quelle di altri istituti “diversamente sani”. Tutto ha inizio con lo scandalo di Mps del 2013, quando all’ex presidente Giuseppe Mussari vengono contestati diversi reati, tra cui manipolazione dei mercati e ostacolo alle attività di vigilanza. Mussari infatti fa parte dei “ragazzi di via Rosellini”, un’élite di quindici amministratori e brokers finanziari che nella sala operativa della sede milanese del Monte dei Paschi gestivano e muovevano decine e decine di miliardi, rigorosamente investiti in azzardi speculativi.
Tra le manovre del gruppo l’acquisto di Banca Antonveneta, comprata per la bellezza di 10 miliardi senza aver prima avuto l’accortezza di verificare i bilanci dell’istituto, che si dimostrarono essere un vero colabrodo. Un tentativo maldestro del numero uno di Mps fu quello di cercare di coprire il dissesto finanziario, pagato ovviamente coi soldi dei clienti, ma una falla tanto grossa non può essere coperta. Avrebbe detto il commissario Giraldi, impersonato da un eccezionale Tomas Milian:
«Chi caga sotto la neve, pure se fa la buca e poi la ricopre, quando la neve si scioglie la merda viene sempre fuori»
Scoperto l’intrigo, Mussari viene allontanato e sostituito da un manager di illustre fama, Alessandro Profumo, che dopo numerose fumate nere riesce finalmente a convincere il consiglio di amministrazione della banca ad aumentare il capitale di cinque miliardi, tramite l’immissione sul mercato di nuove azioni. L’operazione sembra dare respiro a MPS, e le acque si tranquillizzano…in superficie.
Nel 2016 infatti si torna a parlare della banca toscana, giacché quest’ultima, apparentemente sanata, era in realtà stata imbottita di farmaci per cercare – invano – di far fronte al grande tumore che covava in seno: i NPL, non-perfoarming loans (crediti deteriorati). Questi sono prestiti di cui la riscossione del credito è molto incerta, a causa dei “cattivi” debitori che, per un motivo o per un altro, non sono in grado di adempiere ai loro obblighi debitorii. Però di crediti “deteriorati” (questo il termine con il quale vengono indicati i NPL, e non soltanto) di solito le banche ne hanno sempre qualcuno, solo che in questo caso Mps -insieme ad altre banche- di queste schifezze ne è piena zeppa. La storia, stranamente, non sembra affatto nuova, se ripensiamo ai processi di cartolarizzazione che nel 2008 hanno portato alla crisi immobiliare americana, estesasi poi a tutto il mondo. Tanto è simile che Steve Eisman, il banchiere americano che scommise -vincendo- contro banche solidissime come Lehman Brothers, mentre tutti le credevano solidissime, ha scommesso anche contro le nostre banche:
«Sono piene di crediti marci, ma fanno finta che valgano il doppio»
Dall’Europa intanto arriva l’ordine di vendere e quindi liberarsi di gran parte di queste sofferenze, ma essendo troppe, il banco di MPS zompa, di nuovo. Ecco allora che dal CDA del Monte ritentano la strada dell’aumento di capitale, ma la formula viene cassata. Ci pensa quindi il governo italiano che, nei giorni di Natale dello scorso anno, decide di fare un regalo ad MPS, varando il decreto “salvarisparmio”, che prevede un fondo da 20 miliardi (di soldi pubblici, quindi di tutti) da utilizzare per “salvare” il sistema creditizio italiano, di cui ben 8,8 vengono destinati alla banca senese, di cui ora il ministero del Tesoro è diventato socio di maggioranza. Negli ultimi giorni intanto il dito è stato puntato contro “i grandi debitori” delle banche “salvate”, a partire dal presidente dell’Abi (Associazione Bancaria Italiana) Antonio Patuelli, che ha proposto di rendere noti i nomi dei grandi debitori insolventi attraverso una norma di legge; secondo Patuelli infatti bisogna «far luce sui prestiti andati a male, perché sono noti coloro che amministravano queste banche, sono ignoti coloro che invece non hanno restituito i prestiti alle medesime banche». Questa mossa però ha evidentemente tutto un altro significato, ossia, al solito, di distrarre da chi è davvero colpevole, un gioco a cui gli “utili idioti” del Movimento 5 Stelle si sono subito prestati, invocando disperatamente il diritto di conoscere quei nomi.
Se infatti le banche sono piene di debiti, e questi debiti sono dovuti in gran parte a gente che banalmente non ha restituito il dovuto, colpa è stata prima di tutto degli amministratori, che hanno elargito con tanta facilità il denaro in questione, e che si sono riempiti di debiti tossici. Soprattutto, colpa delle banche è di aver utilizzato denaro pubblico, che era stato dato loro per sanare gli ammanchi provocati dalle loro speculazioni private, non per colmare i propri debiti e per dar credito a famiglie e imprese, ma per continuare a speculare. Il discorso ovviamente non vale solo per Mps, ma anche per tutti gli altri istituti che negli ultimi anni se la sono vista maluccio, come ad esempio Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Etruria, Carife, Marche, Caricheti. Carim e Caricesena. La colpa, allora, è proprio dei gestori delle banche, ma prima ancora dello Stato, che non solo continua a prestare soldi pubblici a gentaglia privata che, da par suo, continua a sperperarli, ma ha re-introdotto, ormai negli anni novanta, la formula della banca mista.
Dna istabile: la banca mista
La banca mista è un tipo di istituto dalle ampie possibilità di manovra; essa è autorizzata a operare sia nel breve che nel lungo periodo, ovvero in attività commerciali e finanziarie. Detto brutalmente, significa che questo tipo di ente creditizio può svolgere contemporaneamente sia un’attività “imprenditoriale”, come il concedere prestiti a famiglie o imprese, sia una di investimento, e dunque consulenza finanziaria e investimenti diretti in titoli azionari, obbligazioni, derivati e ogni strumento finanziario che venga emesso sui mercati borsistici. Questo è stato certamente il modello più diffuso tra le banche sin dalla fine dell’Ottocento, lo stesso modello che caratterizzava i grandi istituti creditizi e finanziari i quali, in un famoso giovedì nero del 1929, fecero un enorme capitombolo.
Un crollo di uguale e anzi maggiore fragore, oggigiorno, è stato quello già citato dei muti subprimes americani, nel 2008. Ma come è possibile che tra i due più clamorosi crolli finanziari della storia sia passato tanto tempo, e quindi ottant’anni, senza che nel frammezzo non ci sia stato un sisma finanziario di pari portata? Se qualcuno sta pensando agli choc petroliferi degli anni settanta è fuori strada, giacché in questa sede si sta parlando espressamente di crisi del sistema bancario. Su questo punto torneremo più avanti. Adesso cerchiamo di capire invece perché le banche, dopo il famigerato 2008, non accennano a riprendersi, nonostante le tante soluzioni adottate.
Bail out, ovvero: “le tiriamo fuori noi”
Con il bail out (letteralmente “tirare fuori”) si intende tutta quella serie di manovre finanziarie messe in essere dalle istituzioni, volte a salvare capra e cavoli, dunque le banche in crisi e i loro clienti. Le manovre in questione sono rappresentate da immissioni di denaro sotto diversa forma. Un caso è quello delle ricapitalizzazioni sostenute dallo Stato, ma spieghiamoci: una banca per avere dei finanziamenti deve mettere dei titoli sul mercato azionario. Queste azioni rappresentano quote di proprietà della banca stessa, e chi le acquista ne diventa azionista. Il prezzo che quest’ultimo paga va direttamente a finanziare l’istituto, mentre il lucro per lui può derivare sia dal valore stesso delle azioni (che quando sale può rivendere, guadagnando sulla differenza), sia dai profitti cui egli ha diritto, una quota sui guadagni dell’azienda. Si tratta ovviamente di un investimento, pertanto può capitare che anziché utili la banca produca perdite; in questo caso – purtroppo – interviene lo Stato, che fa immettere nuove azioni dall’istituto di cui garantisce l’acquisto,diventando a questo punto socio della banca, ora “partecipata” statale, quindi sotto diretto controllo pubblico.
Altra via possono essere invece le immissioni della Banca Centrale Europea, l’unica nell’area Euro a poter stampare denaro da immette nel sistema; è il cosiddetto Quantitative Easing. La BCE va a comprare i titoli di Stato (che si finanzia né più né meno come visto per la banca), la gran parte dei quali è spesso al sicuro nei caveau – rieccoci qua! – delle banche, che la BCE acquista proponendo un prezzo a vantaggio degli istituti creditizi. Logica vorrebbe che questo vantaggio si concretizzasse in credito, ancora una volta, per famiglie e imprese; ma la logica, come direbbe il Papa al marchese del Grillo, è come la giustizia: «non è di questo mondo». Infatti le banche che fanno? Tornano a speculare in borsa, e si fa come a Monopoli, si torna al via. E adesso?
#Bail-in, ovvero: le tirano fuori i poveri cristi
Il Bail-in è una “regola” per il salvataggio in base alla quale a risolvere il dissesto di un determinato istituto non devono essere i contribuenti, bensì i soli azionisti, obbligazionisti e correntisti di quella stessa banca. A prima vista la regola sembra essere più equa, giacché a pagare gli azzardi di un istituto non devono più essere tutti i cittadini. Eppure qualcosa comunque stride. Sottoporre una banca a “risoluzione” (il bail-in, appunto) significa “avviare un processo di ristrutturazione”, che tradotto vuol dire svalutare completamente le obbligazioni della banca, così da poter parimenti svalutare le sofferenze bancarie. Solo che a rimetterci sono i piccoli e medi investitori che hanno visto azzerare del tutto il loro credito. C’è chi fa notare come questa operazione serva ad evitare un’ingiustizia, ossia che i salvataggi bancari ricadano sull’intera popolazione; peccato che l’alternativa sia parimenti ingiusta, giacché migliaia di obbligazionisti non erano stati assolutamente informati dei rischi cui andavano incontro, e si tratta spesso di risparmi del duro lavoro di una vita, ora dissolti nel vento. Da aggiungere poi, che pur in caso di piena conoscenza, sarebbe comunque e a maggior ragione un’ingiustizia che la speculazione di pochi privati sia pagata col sangue dei lavoratori, come i semplici correntisti (con depositi superiori ai 100.000 euro), la cui sola colpa è quella di aver depositato i propri risparmi con la convinzione di averli messi al sicuro. Il risultato? I risparmiatori sono finiti sul lastrico, la gente ha perso ulteriormente fiducia nelle banche, e quest’ultime, indovina indovinello, sono ancora in crisi. E invece, adesso, che facciamo? Un’ (in)opportuna via di mezzo, le “banche cattive”.
Bad bank: la cartolarizzazione 2 la vendetta
Ormai è chiaro che le banche hanno un solo problema: speculano con soldi altrui per azzardi privati, e se perdono lo Stato le rifonde, e d’accapo tornano a investire. Ai grandi investitori infatti, se non fosse chiaro, non gliene frega un belino dei conti in banca e dei risparmi di lavoratori e famiglie, vogliono solo continuare a investire e guadagnare, rigorosamente #kolkulodeglialtri. Pur di farlo si inventano di tutto, in maniera più o meno fantasiosa, come appunto le bad bank. Queste, in breve, sono società che si accollano i titoli tossici delle banche, che di solito sono crediti non recuperati o difficilmente recuperabili. Le banche ovviamente non si disfanno semplicemente e gratuitamente di questi titoli, perché altrimenti farebbero prima a cancellarli, solo che per far ciò dovrebbero prima segnarli come perdite in bilancio, ma essendo troppi questi titoli le perdite diventerebbero insostenibili e le banche fallirebbero. Ecco allora il mefistofelico piano: le banche cedono questi crediti “pericolosi” a delle società intermediarie, le quali emettono dei titoli (obbligazioni) sul mercato “garantiti” (si fa per dire) dai titoli tossici. Coi soldi dei compratori vengono pagati i crediti alle banche, mentre coi soldi dei crediti riscossi vengono pagati gli interessi dovuti agli obbligazionisti. Un sistema di questo tipo può essere al massimo un palliativo, ma non una soluzione, e per capirci, è proprio per via di un simile strumento che -si torna sempre lì-, le banche americane nel 2008 sono zompate.
Le colpe, si è visto, sono sempre state addossate al debito: o è colpa dei titoli tossici che i CDA delle banche hanno acquistato -poverini- in buona fede, convinti che fossero buoni, o soprattutto è colpa dei debitori grandi e piccini che brutti e cattivi prendono i soldi e scappano senza restituirli. Il problema, quello vero, è invece un altro, e finalmente arriviamo al punto: tra il 1929 e il 2008 crisi bancarie non se ne sono registrate perché non potevano esserci. Le banche infatti erano pubbliche, ovvero completamente sotto controllo statale (e allo Stato non interessa speculare), e soprattutto vi era una netta divisione degli istituti a seconda di quale attività volessero intraprendere, come previsto in America dal Glass Steagall Act e in Italia dalla Riforma Bancaria del 1936. Dunque da una parte le banche commerciali, che si occupavano solamente di dare credito a imprese e famiglie, e dall’altra quelle di investimento, che si occupavano solamente di speculare. Ora, tenere rigorosamente le attività separate fa si che, banalmente , laddove una banca faccia un investimento troppo azzardato e persino collassi (e sicuramente si tratta di banche di investimento), l’altra non deve temere nulla, neppure un centesimo, perché si tratta appunto sia di strutture che di conti completamente separati, senza un titolo in comune. Questo bel gioco è durato fino agli anni ‘90, fino a quando cioè in Italia la legge Amato ha eliminato la specializzazione degli enti di credito, che sono quindi tornati alla formula di banca mista, e successivamente permesso la privatizzazione delle banche, rimaste a lungo sotto il sicuro scudo statale. Lo stesso in America, nel ‘99, ha fatto la presidenza Clinton.
Oggi però, ricordare simili -è giusto ripeterlo- ovvietà, suona anacronistico quanto assolutamente inadatto a risolvere il problema. Questo semplicemente perché ci hanno convinto che privato=benessere e pubblico=debito e desolazione, in un mondo sempre più privatizzato e in cui sembra normale, come riportato dal rapporto Oxfam, che un manipolo di otto uomini da solo possieda la ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Per lo stesso motivo la privatizzazione viene esaltata come soluzione efficace e moderna, e la nazionalizzazione un antico e pesante fardello del passato. Ma a smentire chi ha queste idee basta poco, come girarsi indietro e tirare le somme degli ultimi trent’anni, dai primi anni novanta a oggi; trent’anni di Unione europea, di moneta unica, di trattati blindati, di globalizzazione e sovranità perdute. Anni in cui la crescita è dello zero virgola, le imprese chiudono e il popolo è affamato. Eh sì, proprio una gran bella cosa, la privata modernità.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/diagnosi-della-crisi-bancaria-italiana/
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