1. Aveva cominciato Prodi: dopo aver messo in dubbio,
nel 2013, i fondamenti dello Stato di diritto, per non ostacolare
gli investitori esteri, oggi lamenta che questa invocazione continua, tipica della nostra classe di governo, possa
portare alla colonizzazione.
La “religione” dell’investitore estero si affermava sullo slogan che INEVITABILMENTE essa conducesse alla maggior crescita&occupazione: un vero e proprio
atto di fede che
si scontrava con i dati macroeconomici italiani, regnante tale paradigma.
“Gli strumenti governativi messi in atto, dal Jobs Act alla Riforma della PA al Piano Industria 4.0, senza dimenticare le misure per risolvere il problema delle sofferenze bancarie, sono apprezzati dagli investitori, che ora si aspettano anche una maggiore stabilità politica ed efficienza nel funzionamento delle Istituzioni. Dobbiamo tener conto delle testimonianze degli imprenditori che ce l’hanno fatta a consolidare e far crescere le proprie aziende con l’apporto di capitali esteri. In un mondo globale, la cassa è globale. Noi dobbiamo agire perché il valore aggiunto generato renda le attività che si svolgono nel nostro Paese uniche ed attrattive per storia, qualità, bellezza e capacità di crescita.”
“Ci troviamo in un momento di grande attenzione sul tema degli investimenti” sottolinea il Presidente dell’Agenzia ICE, Michele Scannavini “e le riforme in atto vanno nella giusta direzione. L’Italia sta migliorando la propria percezione all’estero e oggi è più capace di attrarre e valorizzare gli investimenti produttivi, che inevitabilmente si traducono in maggiore crescita, sviluppo, occupazione e benessere”.
“Ho sempre pensato e tuttora penso che gli investimenti incrociati fra i diversi paesi siano un positivo contributo al progresso tecnologico e un aiuto allo sviluppo. Si deve anche in buona parte a qualificati investimenti esteri la rapidità con cui le nostre imprese hanno affrontato il processo di modernizzazione e l’apertura ai mercati che hanno fatto dell’Italia uno dei paesi industrialmente più avanzati del mondo.
Per esercitare i suoi effetti positivi questo processo deve tuttavia avere due caratteristiche. In primo luogo
non si deve trattare soltanto di acquisti di imprese al semplice scopo di accaparrarsi una quota del mercato italiano ma anche di mettere in atto
nuovi investimenti (i così detti
greenfield). Investimenti in grado di fare progredire il nostro sistema produttivo e di assumere e specializzare nuova mano d’opera.
In secondo luogo, in queste fertilizzazioni incrociate, vi deve essere un certo equilibrio. Le presenze estere in Italia debbono cioè essere equilibrate, o almeno accompagnate, da parallele iniziative italiane negli altri paesi. Altrimenti si finisce con l’essere progressivamente colonizzati fino a perdere la nostra identità.
Purtroppo questo è quanto sta avvenendo nel nostro paese. Gli esempi ormai non si contano più e vanno dalle più grandi aziende produttive fino a un interminabile elenco di imprese di piccola e media dimensione”.
Segue (persino), l’elenco dell’industria italiana che è passata di mano, parlando di mercato di saldi (!), includendo ne “l’effettone” la cessazione del flusso di investimenti di controllo nel settore bancario, laddove gli investitori “mitologici”, chissà perché, prediligono acquistare crediti in sofferenza a prezzi stracciatissimi. Ora.
4.
Alla direzione PD questa linea, in qualche modo, trova una diffusa eco (più o meno cosciente).
Certamente non possiamo dirla estranea al clima inevitabilmente pre-elettorale. Renzi ha fatto riferimento alla necessità di un piano di investimenti simile a quello attuato da Barack Obama dopo la crisi finanziara del 2008. Orfini si è poi espresso contro le privatizzazioni, che per gli investitori esteri sono state l’occasione più ghiotta di banchettare su tutti i nostri settori industriali, e ritorna sugli investimenti pubblici, che, almeno quanto alla “provvista”, sono investimenti nazionali: “Non possiamo immaginare che oggi ricominciamo una stagione di privatizzazioni, serve una grande strategia di investimenti pubblici”.
5. Insomma, la crescita, che lo stesso Renzi indica come la vera cura per i conti pubblici, si fa con gli
investimenti pubblici, anche se non si sa come finanziarli in misura realisticamente adeguata all’interno della moneta unica e della sua “costituzione materiale“: problemino non da poco, in una fase in cui
Moscovici, parlando di “non ultimatum”, conferma che di questo si tratta e che, passate le elezioni, ne vedremo di tutti i colori.
Ma Prodi, con un’ottimistismo della volontà che pare dimenticare come oggi vengano intesi, più che mai,
gli “aiuti di Stato”, suggerisce che:
“Si tratta di costruire, in collaborazione fra governo, Confindustria, Cassa Depositi e Prestiti, Banche e Fondi di Investimento italiani, gli strumenti che possano favorire le scelte indispensabili per
garantire lo sviluppo ottimale del nostro sistema produttivo. Nessun dirigismo, nessuna programmazione forzata ma la costruzione di un establishment che affianchi le nostre imprese e le aiuti ad affrontare il futuro”.
6. Peccato che banche e fondi di investimento italiani – il versante che non sarebbe tacciabile di aiuto di Stato a priori e che, comunque, sarebbe monitorato occhiutamente sulle condizioni di mercato non discriminatorie relative all’offerta di credito alle imprese italiane- saranno presto alle prese con un piccolo €uroproblemino.
Parliamo della
proposta della Commissione UE di ulteriore regolamento e (anche) direttiva sui requisiti patrimoniali delle banche che, in mezzo a un oceano di bla-bla-bla, per cui si vuole uscire dalla crisi e aumentare la stabilità finanziaria, senza dire una parola sulla generazione della crisi €uropea da parte della stessa…disciplina €uropea (e fingendo sfacciatamente di non vedere l’applicazione discriminatoria e distruttiva, unicamente per Italia, dell’Unione bancaria), si parla, con nonchalance, di “
ridurre i costi di emissione/derivanti dalla detenzione di determinati strumenti (obbligazioni garantite, strumenti di cartolarizzazione di alta qualità, strumenti di debito sovrano, derivati a fini di copertura).
Insomma, si vuol introdurre
una graduazione di rischio, una sorta di rating, concernente il debito sovrano, e
porre l’intero sistema bancario italiano (o, più o meno, rimasto tale) di fronte all’
obbligo di cederne comunque la parte eccedente un certo ammontare “limite”, nonché,
in aggiunta, di
cedere i titoli, deprezzati drasticamente in base a tale indicizzazione di rischio,
se non si sia in grado di aumentare in misura adeguata, – e oggi impensabile, senza ricorrere a capitale estero, e quindi perdendo il controllo proprietario del capitale-,
il capitale di “garanzia”.
7. C’è da presumere che, durante questo 2017, la proposta procederà spedita, tra pareri del parlamento UE gioiosamente favorevoli e Ecofin dove l’Italia garantirà un’adesione “nell’interesse primario dell’€uropa”, salvo poi accorgersi, come nel caso dell’Unione bancaria, che l’applicazione di regolamento e direttiva ha i concreti effetti di un’autentica tempesta perfetta messa sulla residua politica fiscale italiana.
I rendimenti del debito pubblico italiano, magari
a QE terminato, andrebbero immediatamente alle stelle e le banche a tutto dovrebbero pensare fuorché ad aumentare il credito alle imprese, che, a loro volta,
a tutto potrebbero pensare fuorché ad investire in una situazione in cui si privatizzerebbe, per ridurre immediatamente il debito, persino il Colosseo (minimo), e
le manovre di rientro (
aggiuntive a quella che comunque si dovrà fare per il già disposto, e insufficiente, salvataggio bancario),
sterminerebbero la domanda interna fino a livelli in cui Monti sembrerà un moderato keynesiano (a sua insaputa).
8. Ed è forse (forse) per questo, in preparazione della mattanza post elettorale, che Orfini, ieri sera, a “Porta a Porta”, ha dichiarato che i problemi che oggi si trovano a fronteggiare sono in gran parte il frutto della scelta della “terza via” compiuta dalla sinistra “vincente” degli anni ’90.
Ma il ripensamento di linea, oltre alla opposizione alle privatizzazioni, passerebbe per una cosa che, a dirla oggi, pare tutta-bella, e per un’altra che non si può dire prima delle elezioni.
La cosa è perfettamente coerente nella pratica ma contraddittoria sul piano delle misure di “rimedio” invocate: nel senso che, vista l’effettiva natura della “terza via” (
qui p.6), cioè l’ordoliberismo, cavallo di battaglia della sinistra ulivista, trova
non la sua correzione ma il suo compimento, ben progettato dagli Hayek e dai Friedman, nella lotta alla povertà “nell’interesse degli abbienti” e nella denazionalizazione privatizzata della moneta.
9. La prima di queste misure, accennate da Orfini a “Porta a Porta”, è
il reddito di inclusione, cioè la versione (provvisoriamente)
mild, – ma opportunamente da calibrare, nella sfera di applicazione e nelle modalità di finanziamento -, del reddito di cittadinanza.
Renzi, per conto suo, viene quindi additato come colui (che afferma) che “il tema (anti) europeo resta cruciale per Renzi, e lo sarà anche nella campagna elettorale che ha in mente di fare“.
Ne vedremo delle belle: altro che politiche industriali con “investimenti pubblici”!
Questa è una corsa (incosciente) contro il tempo…di un nuovo 25 luglio…
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