Il caso Flynn e i servizi segreti contro Donald Trump: tanta voglia d’impeachment
di LOOKOUT NEWS (Alfredo Mantici e Luciano Tirinnanzi)
L’intelligence USA scherza col fuoco. Cosa c’è dietro il caso delle dimissioni di Michael Flynn, Consigliere per la Sicurezza Nazionale dell’Amministrazione Trump.
Lunedì 13 febbraio il Consigliere per la Sicurezza Nazionale della nuova Amministrazione Trump, Michael Flynn, ha rassegnato le sue dimissioni dalla carica. Motivo? Aver taciuto al vice presidente Mike Pence parte del contenuto di conversazioni telefoniche scambiate con l’ambasciatore della Federazione Russa a Washington, Sergey Kislyak, il 29 dicembre e nei giorni successivi. Dunque, nel periodo successivo alla vittoria di Donald Trump (avvenuta l’8 novembre 2016), quando cioè Flynn era già stato designato quale futuro capo del National Security Council. Si tenga conto sin d’ora di questo primo elemento, sul quale torneremo più avanti.
La ricostruzione degli eventi
Il 12 gennaio 2017, cioè quattro giorni dopo l’insediamento del nuovo presidente alla Casa Bianca, il giornalista David Ignatius del Washington Post pubblica la notizia – ricevuta da «fonti affidabili» – delle conversazioni tra Flynn e il diplomatico russo. Ignatius nel suo articolo sottolinea curiosamente un aspetto da pochi conosciuti: cioè che, se il consigliere designato ma non ancora insediato avesse discusso con il suo interlocutore russo del tema della sanzioni imposte dagli Stati Uniti alla Russia dopo l’annessione della Crimea, avrebbe violato una legge nota come “Logan Act”, che proibisce a «privati cittadini non autorizzati di discutere di dispute con paesi stranieri».
Ora, non solo quella norma è oscura nei contenuti e risalente addirittura al 1799, ma è semisconosciuta e nota solo a pochi addetti ai lavori. Infatti, viene ricordata al giornalista guarda caso da una “gola profonda”, che lo imbecca non solo sulla conversazione ma gli fornisce anche copia della trascrizione dell’intercettazione telefonica sul colloquio intercorso tra Flynn e l’ambasciatore. E questo è il secondo elemento di cui tener conto.
Dopo lo scoop del Washington Post, il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer dichiara ai media che, in effetti, Flynn ha scambiato «text messages», e cioè messaggi con l’ambasciatore. Il successivo 14 gennaio, il consigliere per la Sicurezza nazionale Flynn informa il vice presidente Mike Pence di aver effettivamente dialogato con il diplomatico russo su argomenti generali di comune potenziale interesse, ma di non aver toccato il tema delle sanzioni.
(il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer)
Il 26 gennaio, poi, il ministro della Giustizia ad interim Sally Yates informa finalmente la Casa Bianca dell’esistenza di intercettazioni telefoniche eseguite da «un’agenzia di intelligence» (in USA ce ne sono 17, ma probabilmente si tratta della CIA, dell’FBI o della NSA), che smentiscono le dichiarazioni rilasciate ai media dal portavoce Spicer e il cui contenuto espone il capo del National Security Council «al ricatto dei russi».
Val la pena di sottolineare qui che Sally Yates all’epoca dei fatti è già in rotta di collisione con la nuova amministrazione sul discusso executive order presidenziale che impone il divieto di accesso negli Stati Uniti per cittadini provenienti da 7 paesi considerati a rischio. Per tale motivo la Yates, dopo per aver rifiutato di difendere l’atto del governo in tribunale, pochi giorni dopo sarà licenziata, precisamente il 31 gennaio.
Nel frattempo, anche il contenuto di questa nota del Ministro della Giustizia ad interim filtra alla stampa e scatena un putiferio. Così, il 9 febbraio Flynn rilascia un’intervista al Washington Post per chiarire la vicenda, ma il giornalista che lo interroga gli fa capire chiaramente di essere in possesso di documenti riservati, e scrive che a quel punto Flynn tentenna: «non ricorda di aver discusso delle sanzioni con l’ambasciatore russo, ma non è certo che l’argomento non sia stato toccato».
È tempo per la Casa Bianca di prendere una posizione ufficiale. Tocca direttamente al vice presidente Mike Pence intervenire, che rende noto di essere infuriato per non essere stato informato da Michael Flynn circa la sua condotta. È il momento decisivo: il 13 febbraio Flynn, ex generale dell’esercito e già direttore della Defence Intelligence Agency (il servizio segreto militare) rassegna le proprie dimissioni dalla carica di Consigliere per la Sicurezza Nazionale.
(il vicepresidente Mike Spence)
Nella sua lettera di dimissioni al presidente, scrive: «Nell’ambito dei miei doveri come Consigliere designato per la sicurezza nazionale, ho avuto colloqui telefonici con molti interlocutori stranieri […] Queste telefonate servivano ad agevolare la transizione e a costruire le necessarie relazioni tra il nuovo presidente, i suoi consiglieri e i leader stranieri. Si tratta di una prassi standard in qualsiasi transizione di questa rilevanza». Flynn smentisce quindi di aver agito da privato cittadino ma ammette poi di aver fornito al vice presidente «informazioni incomplete sul contenuto delle conversazioni telefoniche con l’ambasciatore russo». Da qui le irrevocabili dimissioni.
Per quanto riguarda la reazione dello stesso presidente alle dimissioni di Micheal Flynn, vero obiettivo della campagna contro la sua amministrazione – e di cui il generale è solo una vittima incidentale lungo una strada che appare ancora lunga – incalzato dal reporter della CNN Jim Acosta durante la conferenza stampa del 16 febbraio alla Casa Bianca, il commento di Donald Trump è stato lapidario: «very fake news» ossia “notizie davvero false”.
Il comportamento scorretto dei servizi segreti
Quella appena descritta è la cronologia degli eventi che hanno determinato la prima vera crisi dell’amministrazione Trump. Ciò che emerge di più grave da questa sequenza, tuttavia, non è il comportamento non esattamente avveduto e trasparente di Micheal Flynn, quanto piuttosto l’uso spregiudicato d’intercettazioni telefoniche di dubbia legittimità: le leggi americane, infatti, autorizzano sì l’FBI e la CIA a chiedere alla NSA di eseguire intercettazioni in caso attività antiterrorismo o di controspionaggio, ma non certo a intercettare membri designati dell’amministrazione incombente. In questo caso, invece, il testo prima di essere fornito dall’intelligence ai clienti istituzionali è stato fatto filtrare alla stampa di opposizione, usando il sistema cosiddetto dei leak, in gergo giornalistico.
In questo caso, dunque, l’intelligence statunitense, lungi dall’eseguire il proprio compito di contribuire lealmente al processo decisionale dell’esecutivo (dal quale essa dipende), ha perseguito evidentemente il fine contrario di contribuire ad abbatterlo.
(l’ex Segretario alla Giustizia, Sally Yates, in audizione presso l’FBI)
Da questa storia, inoltre, emerge come un ministro ad interim quale la signora Yates dopo lo scoop giornalistico ma prima di rimettere il mandato abbia avvisato nell’ordine: la Casa Bianca, il Congresso e la stampa, del fatto «gravissimo» che il contenuto delle intercettazioni esponeva il consigliere per la sicurezza nazionale a un «ricatto russo». Fatto che, ovviamente, non costituisce reato ma che crea solo imbarazzo politico.
Al di là del comportamento reticente di Michael Flynn nei confronti del suo vice presidente (un peccato veniale di fronte a quello delle “gole profonde”), appare ormai chiaro come l’opposizione di quella parte d’America che non accetta che Donald Trump abbia democraticamente vinto le elezioni presidenziali, sia tale che ricorrerà a qualsiasi strumento per rovesciare il presidente.
L’ombra dell’impeachment
Il problema è che tale opposizione ha numerosi sostenitori non solo nei media, nei circoli intellettuali, tra i democratici e in una parte dei repubblicani. Ma anche nella comunità d’intelligence, uno strumento rilevante del potere attraverso cui si cerca evidentemente e pervicacemente di trovare scorciatoie di qualsiasi natura per raggiungere lo scopo di destabilizzare la presidenza Trump, anche attraverso l’uso di “dirty tricks”, cioè quei giochi scorretti (che, per dire, in Italia chiamiamo “macchina del fango”) che possono poi sconfinare in attività illegali, tese a screditare i propri nemici. Fino ad arrivare a un possibile impeachment, peraltro già evocato in non poche occasioni.
Quali che siano i meriti o i demeriti presenti e futuri del nuovo presidente americano, gli strumenti che quotidianamente vengono messi in campo dagli avversari del tycoon – primo fra tutti l’uso sistematico dei leaks da parte di “gole profonde” che agiscono in modo coordinato e concertato – rischiano seriamente di minare le basi della democrazia americana con una ricerca di espedienti extra istituzionali che sconfinano nel golpismo.
(“Very fake news”, il presidente Trump risponde così ai giornalisti sul caso Flynn)
Guardando all’America di oggi, non si può non sottolineare che, quando viene meno il principio di leale collaborazione tra gli apparati di intelligence e l’esecutivo, e quando sono i servizi segreti a pretendere di dettare la linea politica al governo, gli stessi servizi deviano dal loro compito. E la democrazia frana.
Alla luce di questi, eventi assume un nuovo rilievo l’analisi di un osservatore solitamente molto accurato e prudente come l’ambasciatore Sergio Romano che, subito dopo l’elezione di Donald Trump a 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, ha dichiarato con sincera preoccupazione che gli USA vivono oggi un clima da «vigilia di guerra civile».
Fonte: http://www.lookoutnews.it/servizi-segreti-contro-donald-trump-impeachment-michael-flynn/
Commenti recenti