Bolognina, Lingotto, Leopolda, capolinea
di CARLO CLERICETTI
“La grande speranza della sinistra post comunista, dalla Bolognina in poi, era che la morte dell’ideologia avrebbe reso più viva la politica. Più viva e più libera di abbracciare la realtà”, scrive Michele Serra. Alla manifestazione della Bolognina, nel 1989, il segretario del Pci Achille Occhetto dichiarò che erano necessarie “grandi trasformazioni”, non escluso il cambiamento del nome, Partito comunista, che avrebbe simboleggiato una svolta radicale.
Lo shock che aveva generato questa svolta era stato la caduta del muro di Berlino, a sua volta simbolo del fallimento e della resa del comunismo sovietico. Ma il fatto stesso che avesse provocato uno shock fu un indice della cattiva coscienza del Pci, che teoricamente aveva abbandonato da tempo l’Urss come “paese guida”, aveva dichiarato di non perseguire più quel modello sociale, proclamato la sua scelta di campo per la Nato, teorizzato il “Compromesso storico” e l’Eurocomunismo. Perché, dunque, la sanzione del fallimento del modello sovietico avrebbe dovuto provocare uno shock?
Ma la questione più insidiosa non era “la morte dell’ideologia” che Serra oggi celebra come una liberazione. Era – ed è ancora – il non capire che l’ideologia è la versione pietrificata di una visione del mondo. Pietrificata perché, quando la visione del mondo viene codificata come una religione, fa vedere la realtà attraverso i suoi assiomi, e spinge ad interpretarla solo attraverso di essi. L’ideologia è chiusa in sé, contiene tutte le risposte, non ammette che in certe situazioni possa andar bene una cosa e in altre situazioni cose anche molto diverse. E però una visione del mondo ci vuole, per decidere dove si vuole andare: come andarci, invece, è materia della politica, dei tentativi ed errori, dell’imparare dall’esperienza, del lavoro giorno per giorno, ma, appunto, avendo in testa una rotta, gli obiettivi a lungo termine che si vogliono perseguire, per non agire solo per l’oggi.
Questa visione del mondo o è una scelta cosciente, che derivi da un’elaborazione; oppure c’è lo stesso, ed è quella dominante in un dato periodo storico. I comunisti “orfani” hanno gettato via la loro ideologia, che comunque derivava da una certa visione del mondo, e – coscienti o no – si sono consegnati all’ideologia dominante dell’epoca, quella che oggi chiamiamo “neoliberismo”. Dopo la Bolognina venne il Lingotto di Walter Veltroni, quello che teorizza che non bisogna nemmeno più usare il termine “sinistra”. Un termine che sarebbe stato ripescato, stravolto e abusato per travestire la scelta ormai dichiaratamente neoliberista di quello che fu il partito dei lavoratori. La Leopolda di Matteo Renzi ne è stata l’apoteosi.
La politica ha abbracciato la realtà, come scrive Michele Serra? Certo, ha abbracciato la realtà di un mondo sempre più spostato a destra, quello della globalizzazione come bastone contro i diritti dei lavoratori dei paesi più avanzati, di una folle distribuzione della ricchezza che si concentra nell’1% della popolazione, e ancor più nello 0,1%. Dimenticando del tutto la famosa frase di Karl Marx nelle “Tesi su Feuerbach”: ” I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo”.
Il Pd di Renzi è così sfacciatamente di destra che una parte dei suoi esponenti è in bilico su quella che in politica è di solito una mossa disperata e perdente, la scissione. C’entra anche – e molto – la gestione arrogante e personalistica del segretario e il suo proposito, non detto ma molto chiaro, di puntare a non fare prigionieri fra i suoi oppositori. Ma sta di fatto che chi conserva almeno un barlume di impostazione progressista in quel partito non può che sentirsi profondamente a disagio. Senza la scissione è probabile che Renzi vinca di nuovo la corsa alla guida del partito, e a quel punto gli oppositori resterebbero prigionieri di una politica opposta alla storia e alle tradizioni non solo degli ex comunisti, ma anche del cattolicesimo sociale che nella Dc aveva sempre giocato un ruolo non secondario. Questo in attesa di essere rottamati, come inevitabilmente prima o poi avverrebbe.
Ma anche il campo degli “scissionisti” ha una linea tutt’altro che chiara. Il suo regista, Massimo D’Alema, ha partecipato da protagonista alla lunga marcia verso destra del partito. La sua esperienza di governo viene ricordata soprattutto per due cose: una famosa frase di Guido Rossi (“Palazzo Chigi è l’unica merchant bank dove non si parla inglese”) e il colpo fatale a un’azienda strategica come la Telecom, di cui D’Alema favorì la scalata a debito da parte di un gruppo di avventurieri della finanza (tranne forse Roberto Colaninno), che la rivendettero poco dopo – con enormi guadagni – a Tronchetti Provera, che finì di spolparla. I sui consiglieri economici erano Pier Carlo Padoan e Nicola Rossi, quest’ultimo oggi presidente dell’Istituto Bruno Leoni, roccaforte del liberismo più sfrenato e demagogico. Quale “nuova sinistra” possa avere in mente D’Alema, è davvero difficile immaginarlo.
L’altra figura di spicco del gruppo è Pier Luigi Bersani. Come progressiste è certo più attendibile di D’Alema, ma un suo recente scritto, che invoca una svolta nella politica del partito, mostra che anche lui ha subito il contagio dell’ideologia dominante. Buone intenzioni, ma, forse per eccesso di pragmatismo, non si vede una strategia davvero alternativa che miri a cambiare in profondità – almeno come proposito -la situazione attuale.
Infine c’è l’astro nascente Michele Emiliano, destinato con ogni probabilità alla guida del gruppo. E’ un po’ un oggetto misterioso. La linea sull’economia è oggi la discriminante più importante fra conservazione e cambiamento, ma come la pensi Emiliano in proposito non è affatto chiaro, tanto da dare l’impressione che non sia chiaro nemmeno a lui. Non tutti i leader politici devono essere per forza economisti esperti, ma una linea definita sui temi dell’economia bisognerebbe renderla esplicita.
Qualunque sia la prossima evoluzione, il Pd come partito che avrebbe dovuto fare una sintesi del meglio delle tradizioni della sinistra storica e del cattolicesimo democratico è comunque fallito. La lunga strada iniziata dalla Bolognina oggi è arrivata al capolinea.
fonte: http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2017/02/19/bolognina-lingotto-leopolda-capolinea/
L’articolo di Clericetti è equilibrato ,diversi riferimenti sono corretti ma credo si possa e si debbano fare anche altre riflessioni. La svolta del PCI è sempre stata collegata alla caduta del muro di Berlino ma in realtà era già netta alcuni anni prima sia per la scelta della Nato che del cambiamento di opinione relativo al progetto di unificazione europea , solo citando i fatti più eclatanti.Il modello sovietico era da qualche decennio oggetto di puntuali contestazioni e le esperienze di governo locale italiano erano completamente diverse. La fine del modello sovietico quindi avrebbe potuto essere utilizzata anche come conferma della diversità italiana, la scelta di Occhetto rappresenta invece la conferma di una scelta verso gli USA come potenza dominante sperando in un loro benestare per l’inserimento ufficiale del PCI nel governo nazionale. La scelta verso il neoliberismo e la subalternità agli USA è stata condivisa da tutti i dirigenti di provenienza comunista che d’allora si sono affermati, Bersani compreso. Senza rimettere in discussione quelle scelte è difficile che la ex sinistra possa ritrovare la strada smarrita.