Il debito (che ti) pubblico
di ALBERTO BAGNAI
Poc’anzi, su Twitter, commentando gli ultimi exploit della piccola vedetta lombarda, rosa d’invidia per il successo di questo blog, e perché tutte le interlocuzioni politiche che ha con tanta alacrità cercato si sono rivelate fallimentari, mi sono reso conto di non avervi mai raccontato uno dei più gustosi fra i tanti aneddoti che sei anni di dibattito mi hanno consegnato.
Un fardello a volte un po’ pesante, che condivido con voi, senza fare nomi (perché io sono il piccolo scrivano fiorentino, non la piccola vedetta lombarda), dato che ritengo essenziale farvi capire qual è il modus operandi dei volenterosi carnefici dell’euro: tutte brave persone, ma con una lieve torsione nel loro codice etico.
Quale?
Ve lo dico subito.
Dunque: il de cujus, che fa parte su Twitter della compagnia di giro degli Scacciavillani, dei Giannino, e di equipollenti economisti, pur avendo uno standing accademico molto superiore (con un h–index che è il doppio del mio, e presto capirete perché…), aveva fatto un bello studio sulla relazione fra dimensioni del debito pubblico e crisi economiche, dimostrandone la sostanziale inconsistenza (che per voi non è un segreto), e mettendo in evidenza i rischi della finanza privata. Lo studio mi era piaciuto, e siccome a quei tempi ci parlavo e a me piace poter fare un complimento sincero a un collega, gli chiedevo dove lo stesse pubblicando. Risposta:
Siamo stati rigettati piu’ o meno da tutti i top journal[…]. E’ abbastanza frustrante, soprattutto perche’ il piu’ delle volte la motivazione e’ che il “topic is not of general interest” (!!!) o che i risultati non sono sufficientemente innovativi[…]. Al solito, c’e’ una certa distanza tra l’accademia e la relata’, che stando qui noto ancora di piu’.
(nota: “qui” era una prestigiosa istituzione internazionale…)
Ecco, parliamone…
Io, per dire, a un top journal non ho mai nemmeno mandato un paper (anche se ho pubblicato su Energy Policy che come ranking sta eventualmente un filo sopra ad alcuni di essi… ma è “di field“, e quindi meno considerata, per quello strano ossimoro che fa sì che nel mondo dell’iperspecializzazione all’ammeregana vieni considerato di più se scrivi su riviste specialistiche generaliste – cioè: American Economic Review va bene, ma Energy Policy no…). Il motivo è semplice, ed è lo stesso per il quale non mi spreco a inviare a Repubblica una confutazione delle sciocchezze scritte oggi da Taddei (peraltro, tutte già ampiamente confutate in questo blog), e lo stesso che il mio ex amico evidenziava: la distanza fra l’accademia e la realtà, ovvero il fatto che chi cerca di portare nel dibattito (scientifico o mediatico) temi rilevanti viene “rigettato”.
Se avessi mandato ad American Economic Review quella che ad oggi è l’unica spiegazione coerente coi fatti del declino dell’economia italiana, me l’avrebbe respinta, esattamente come Aghion (l’economista di Macron) ha respinto questo nostro paper, nonostante i fatti abbiano dimostrato che quanto meno esso aveva previsto in modo accurato il fenomeno che intendeva descrivere (per rendervene conto, andate a vedere cosa è successo in Vietnam da quando è stata pubblicata la versione working paper…): ma siccome il modello era post-keynesiano, la rivista top lo ha semplicemente desk rejected, non ritenendolo degno di passare per un referee (e l’editor di JPKE ci ha messo due anni a esprimersi…).
Ora, dopo aver guardato il bicchiere mezzo pieno (almeno oggi è passato di moda dar fuoco a chi non la pensa come te… ma se andasse al potere la piccola vedetta lombarda, non escluderei che ci facesse un pensierino!), voglio però sottolineare un punto. Forse un economista, ma diciamo, allargando l’obiettivo, un uomo, dovrebbe avere un obiettivo un pochino più ampio dei top journal. Certo, se gli parli di debito privato i top journal non ti pubblicano (per ora), e magari l’ANVUR ti valuta zero per rappresaglia i lavori che ne parlano (soprattutto ora che i loro amici sono stati costretti ad ammettere che avevano torto!), ma nella vita non ci sono solo i top journal.
Forse c’è una cosa che sfugge a certi miei colleghi, anche bravi. Siamo passati dal publish or perish al publish and perish: I publish (rubbish) and (you) perish.
Lo scollamento dell’accademia dalla realtà non è una cosa irrilevante. È un ingranaggio cruciale nella macchina delle fake news. Io non riesco più a prendermela con i giornalisti (limitandomi a non toccarli nemmeno con uno stecco) per le scemenze che dicono, quando vedo che personaggi nei quali loro hanno tutti il diritto e i motivi di avere la massima fiducia si esprimono in modo tanto impreciso. Pubblicare pattume conformista solo per far carriera poteva andare benissimo quando la nostra professione era irrilevante in termini di crescita sociale e civile di una nazione. Ma oggi le menzogne di certi economisti, lo stravolgimento della realtà fattuale, i riferimenti partigiani, incompleti e inattuali a teorie o studi economici datati, stanno avvelenando i pozzi della democrazia. Le imprese muoiono perché c’è qualcuno che si è divertito a raccontare che i moltiplicatori erano negativi, e che quindi tagliando redditi l’economia sarebbe cresciuta, quando gli studi che avvaloravano questa astrusa tesi si basavano su un sistematico e intenzionale travisamento della realtà (come dimostra, nel caso del Canada, questo studio di un collega parigino, che offro ai francofoni del blog).
Insomma: questa gente che ci racconta che paesi che hanno svalutato del 20% e fischia sono ripartiti “perché hanno fatto austerità” non può sottrarsi alla responsabilità morale e politica di aver mentito, ma soprattutto i loro allievi più giovani e bravi, come il de cujus, quello che ora uggiola nella muta di Scacciavillani, loro, dovrebbero prendere atto che se l’accademia è scollata dalla realtà, la colpa è anche loro, del loro conformismo, del loro desiderio di entrare nei “salotti buoni” accademici, della loro generale, assoluta e irredimibile mancanza di attributi.
Insomma: si parla ancora e solo di debito pubblico, nell’accademia e a ricasco nel dibattito, anche e soprattutto perché è il debito (che ti) pubblico se sono un editor di un top journal.
Resta il fatto che i top journal sono letti solo dai top economists, mentre i bottom journal sono letti (spesso) anche da chi ha problemi da risolvere. Ed è soprattutto questo che ai nostri amici comincia ad incutere qualche timore: sanno che presto saranno sorpassati, e non possono accettare che una vita passata a s’offrire possa essere così beffardamente ripagata dalla SStoria.
Me ne spiace per loro, ma non posso farci niente. Se si arriverà a una risoluzione violenta del conflitto in atto è anche e soprattutto in conseguenza della loro rinuncia a svolgere in modo minimamente spassionato ed equanime il loro ruolo di intellettuali. Il rischio di gravi perturbazioni dell’ordine democratico cresce ogni giorno di più (come dimostrano i tentativi di legge bavaglio), e in generale cresce ogni giorno di più il rischio che si arrivi alla violenza, al sangue, per la feroce determinazione del potere e dei suoi giullari di non riconoscere quello che la limpida razionalità economica aveva tanto chiaramente enunciato: una sola moneta per paesi diversi porta fatalmente al conflitto.
Peraltro, qui vediamo un’altra radice del male. I miei colleghi non sono solo dei Cuor di Coniglio, incapaci di prendere posizione contro l’ortodossia dalla quale dipendono le loro carriere, anche quando sanno che essa emette messaggi fuorvianti: sono anche piuttosto ignoranti. Che l’euro avrebbe portato ad un aumento di conflitti, e che quindi fosse tutt’altro che una garanzia contro un conflitto intra-europeo (cioè, in definitiva, che esisteva un serio rischio che l’euro portasse a spargimento di sangue) non è certo una mia idea: è stato argomentato in sedi prestigiose da un economista top ten. Il fatto che la piccola vedetta lombarda mi stia stalkerando citando una mia frase in cui ricordavo questa analisi (ed invitavo i miei colleghi a farsi una piccola iniezione di testosterone, ed esporsi, invece di continuare a sussurrarmi all’orecchio o nell’email che sono d’accordo con me…) dimostra solo che lo spessore etico di certi personaggi è commisurato all’estensione della loro cultura economica. Per un economista, soprattutto se “ortodosso”, non conoscere Feldstein non è esattamente un ottimo biglietto da visita.
Ma, e qui la chiudo veramente, oltre al conformismo e all’ignoranza il male ha una terza radice: l’ambizione politica. Se e quando rileggerete questo blog con calma, vedrete che tutti quelli che sono entrati inutilmente, sterilmente, tendenziosamente in polemica con noi avevano una cosa in comune: il bisogno di compiacere il potente (ma anche l’impotente) di turno per soddisfare la propria ambizione di essere parte attiva del processo politico (vuoi come rappresentante dei cittadini, vuoi come “consigliere” del “principe”).
Conformismo, ignoranza, ambizione…
Lasciamo dietro di noi questo miserando spettacolo, e prepariamoci alle vere sfide che ci attendono. Nervi saldi, e non rispondete alle provocazioni, come non faccio io, sapendo meglio di voi chi ho di fronte.
fonte: http://goofynomics.blogspot.it/
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