Critica della ragione europea
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alessio Trabucco)
Ci viene ripetuto che gli Europei hanno bisogno dell’Unione Europea. Ma la vera domanda è: l’Unione Europea ha bisogno degli Europei?
La storia d’Europa è storia di Stati-nazione, è un dato di fatto, quando non di esasperanti regionalismi. Il passato del Vecchio continente tutto ci mostra fuorché una tendenza accentratrice, anzi si può dire che la politica dei vari popoli europei sia sempre stata centrifuga. E non solo in Europa, in tutto il mondo si osserva una dinamica analoga: nel 1900 esistevano 65 Stati sovrani, oggi 196. Il progetto dell’Unione Europea è invece un progetto centripeto. L’ultima volta che tutto il continente europeo si è trovato a sottostare alle leggi di un unico Stato risale a duemila anni fa, quando le legioni di Roma invasero tutti i territori in cui riuscissero a issare le insegne dell’Impero. Da allora pochi furono i tentativi analoghi: quelli di Carlo Magno, Carlo V, Napoleone e Hitler, tutti falliti in poco tempo, infine dell’Unione Europea. Questi precedenti sono tutti esempi di unione coattiva e militare dei popoli europei, ad eccezione dell’ultimo, più complesso. Siccome le regole sono espressione dei rapporti di forza, su questo non c’è dubbio, sarebbe opportuno indagare quali furono i rapporti di forza sottostanti la nascita dell’UE. Solo così si può cercare di capire come si possa compiere un’istituzione sovrana paneuropea duratura che domini individualità nazionali così diverse tra loro per lingua, storia, cultura politica, organizzazione sociale, letteratura, in una parola tradizione, e così asimmetriche negli interessi economici, dato che risorse, produttività, comparti industriali, welfare, interventi pubblici, modernità d’apparato, sono estremamente frammentati e diseguali. Da un lato dunque l’internazionalismo, dall’altro il regionalismo: due opposte visioni non conciliabili. La vera domanda allora non è quella che a volte ci si pone, ossia se i popoli europei abbiano davvero bisogno dell’Unione europea, come se simulassimo (o realizzassimo) un quesito referendario. La vera domanda è: l’Unione europea ha bisogno degli europei?Se quanto scritto finora è corretto la risposta potrebbe essere “no”.
Quando si parla di Europa si fa sempre una gran confusione. Il grosso equivoco sta nel chiamare Europa l’Unione europea e nel considerare la seconda la sublimazione politica della prima. Nell’ottica progressista dell’unione a tutti i costi in effetti lo sarebbe, ma un conto è adottare un approccio ideologico, altro lo studio razionale dell’Unione Europea oggi, dopo sessant’anni dai Trattati di Roma. Il miglior modo per comprendere l’equivoco è il confronto con gli Stati Uniti d’America, poiché l’UE si è presentata come un sostituto minore dell’idea di Stati Uniti d’Europa. I primi sono nati seguendo quella direttrice storica propria di tutte le compiute federazioni del mondo (Usa, India, Canada, Australia): un vasto territorio è abitato da popoli indigeni; giunge una potenza straniera che fa scempio della popolazione e delle risorse naturali; si impianta un’amministrazione vassalla alla potenza conquistatrice mentre le élite locali vengono plasmate secondo la cultura degli invasori; il tempo passa, la colonia si sente sempre più indipendente e conquista infine, con più o meno violenza, la propria autonomia; degli indigeni oggi quasi non c’è più traccia (ad eccezione dell’India).
Quelli che noi chiamiamo americani, a ben vedere, non sono così tanto americani, essendo nipoti e pronipoti di europei, africani e latino-americani. Ad ogni modo, senza l’America, senza gli Stati Uniti, gli americani non esisterebbero, o non sarebbero quelli che conosciamo. Gli europei invece senza l’Unione europea esisterebbero comunque? Chiamiamo, per equivoco pericolosamente sedimentato, Europa un’istituzione sovranazionale partorita nell’ultimo mezzo secolo mentre la vera Europa è un’entità geopolitica dalla storia millenaria, il tessuto geografico ed etnico-culturale culla della civiltà occidentale. Si può essere europei senza far parte dell’Ue – come svizzeri, norvegesi e tra poco anche britannici – ma non è vero il contrario. Non si può identificare una civiltà o un crogiuolo di civiltà con un’espressione politico-amministrativa, altrimenti dovremmo dire che tutti i russi nati nell’URSS sono comunisti, il che è ovviamente falso. La storia europea non ha alcun tratto in comune con la storia di Usa, Canada, India e Australia. Bisognerebbe quindi star bene attenti quando si parla di Federazione europea o di Stati Uniti d’Europa, dal momento che potrebbe trattarsi di un progetto antistorico, nel senso più neutro del termine. Per capire come e perché noi Europei potremmo in fondo essere inutili al progetto dell’Unione dobbiamo seguire gli eventi che hanno portato alla nascita dell’Unione stessa, evidenziandone le spinte contrapposte e le tendenze di lungo periodo.
L’UE nasce alla fine del ‘900, un secolo che ha visto il terreno europeo mutarsi da capitale del mondo a faglia di conflitto internazionale. Prima due guerre mondiali, poi la Guerra Fredda: l’Europa si vede divisa da trincee prima e dalla Cortina di ferro dopo. Nel 1910 i capi di Stato di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti potevano comodamente incontrarsi a Parigi e decidere le sorti del mondo; dopo il 1945 non sarà più possibile. Il mondo si divide in blocchi e l’Europa con esso. Quando il blocco comunista collassa i conflitti tra le nazioni europee non sono ancora sopiti: dopo la caduta del Muro di Berlino Helmut Kohl, cancelliere della Repubblica Federale, annuncia la riunificazione della Germania. La storia europea muta il proprio corso. Alla notizia dell’annuncio di Kohl Francois Mitterand, presidente francese, diventa furente: incontra Margaret Thatcher, premier britannica, allarmata anche lei per la riunificazione. Mitterand teme che la Germania possa conquistare «più territorio di quello preso da Hitler, e l’Europa ne pagherà le conseguenze». Nel frattempo anche Andreotti esprime con umorismo la propria preoccupazione: «amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due». Tutti i leader europei si recano oltre Cortina per incontrare Michail Gorbačëv, presidente dell’URSS, e tutti gli chiedono la stessa cosa: opporsi con ogni mezzo alla riunificazione tedesca e mantenere saldo il Patto di Varsavia. Una richiesta del genere fatta a Mosca vuol dire una cosa sola: se necessario, prepara l’Armata Rossa. È il dicembre 1989, neppure tre anni dopo saranno firmati i Trattati di Maastricht.
Qualcosa non torna. Gli stessi leader che avrebbero fatto di tutto per lasciare la Germania divisa in due, la caricano poco dopo sul carro dell’Unione europea. Qui entra in scena l’Euro. Chi sostiene che l’Euro sia semplicemente una moneta o chi invece che sia un metodo di governo vessatorio non ne ha capito la reale natura: l’Euro è il cemento dell’edificio europeo. Senza di esso, dopo la riunificazione della Germania, l’UE non sarebbe potuta nascere. La funzione della moneta unica, nella testa dei leader francesi e britannici in primis, sarebbe dovuta essere quella di tenere a bada la Germania imbrigliandola in un sistema monetario guidato dalla Bce, una banca indipendente dai governi e dall’Ue. Includere la Germania nelle varie istituzioni – Commissione, Parlamento e Consigli – avrebbe inoltre consentito a tutti i governi europei di concertare le politiche continentali, così che il potere tedesco ne risultasse arginato. Prova ne è che il progetto sull’Euro viene osteggiato apertamente dai governatori delle banche centrali – nonché sconsigliato da buona parte della comunità scientifica internazionale – i quali pronosticano che la moneta unica, impedendo l’aggiustamento del tasso di cambio, porterà i paesi deboli a diventare più deboli e i forti più forti. Nonostante ciò Delors – allora presidente della Commissione – gestisce egregiamente l’opposizione: incarica i governatori di decidere quali regole sui bilanci pubblici introdurre qualora la discussione politica intorno all’Euro maturi in un suo compimento. I governatori, consci che sarebbe stato difficilissimo tenere in piedi l’Euro, non hanno dubbi: bisognerebbe seguire il modello della Bundesbank tedesca, il più rigido, che ha come scopo principale la stabilità dei prezzi, ossia combattere l’inflazione. Quello che è per i banchieri un puro esercizio tecnico di cui non sono convinti diventa realtà: prima con aggiustamenti dell’Ecu (un regime di cambi fissi per le transazioni internazionali) che serve a testare la stabilità della moneta unica, poi con la definitiva introduzione dell’Euro, prima come unità di conto, poi come moneta ufficiale. È il 2002.
Nei primi anni l’Euro subisce una drastica svalutazione che consente ai paesi periferici di respirare, inoltre le condizioni globali sono favorevoli, non ci si rende conto dell’intrinseca debolezza della moneta unica che si manifesta invece fin dallo scoppio della crisi del 2008. Ma cos’ha l’Euro di così problematico da essere stato dichiarato insostenibile da molti economisti di diverse scuole di pensiero? Banalmente il valore di una moneta deve riflettere lo stato di salute dell’economia sottostante; avere un’Europa a due o più velocità con una moneta unica causa disfunzioni tra i diversi paesi. Le varie implicazioni dell’Euro, comunque, sono ben più sottili. Nel 1957, quando cioè tutto il mondo era legato al dollaro da un regime di cambi fissi noto come Sistema di Bretton Woods, James Meade (premio Nobel per l’economia) scrisse che l’Europa non poteva permettersi di vincolarsi a cambi fissi se avesse voluto procedere all’integrazione economica, perché avrebbero costretto i paesi deboli a importare le politiche deflazionistiche dei paesi forti. Questa semplice verità economica è stata ribadita decenni dopo da altri Nobel come Paul Krugman e Joe Stiglitz, rimasti evidentemente inascoltati dai politici che, intendendo portare a compimento il “sogno europeo” secondo l’approccio funzionalista, hanno finito per dar vita a un gigantesco super-stato privo di quei tre requisiti fondamentali che rendono un’istituzione uno Stato sovrano: il monopolio dell’uso coercitivo della forza; il monopolio fiscale; il monopolio del battere moneta. Piccola parentesi nazionale: la nascita dell’Ue è stata salutata con molto favore dagli italiani, convinti che entrare nel super-stato avrebbe costretto i governi italiani a “rigare dritto” e avrebbe rafforzato l’economia grazie all’Euro. È il cosiddetto vincolo esterno. Pochi però si resero conto che entrare in un sistema disfunzionale avrebbe minato le basi dell’economia italiana. Ancora oggi parte dell’intellighenzia italiana non ha capito le implicazioni dell’UE e dell’Euro, visto che continua a elogiare il modello tedesco e a rafforzare l’idea che bisogni svolgere i “compiti a casa”.
Gli squilibri commerciali tra i paesi europei sono esplosi con la crisi e il siffatto Euro non può essere una soluzione – come anche Prodi e Amato, tra i promotori dell’Euro, hanno in buona sostanza ammesso -, il perché risiede nelle parole di Meade. Importare le politiche deflazionistiche vuol dire adattarsi al modello tedesco – il quale ha delle caratteristiche elementari opposte al modello italiano. Da decenni in Germania si tengono artificialmente bassi i salari, non adeguandoli alla produttività del lavoro, che invece cresce costantemente. Il surplus così ricavato equivale a profitto per i capitalisti e a merci e servizi da piazzare nei mercati esteri – essendo compressa la domanda interna. Per rendere allora i prodotti tedeschi competitivi si mantiene (è questo il compito della Bundesbank) il livello dei prezzi sistematicamente più basso rispetto ai paesi esteri. In altre parole, essendo l’inflazione tedesca sistematicamente più bassa, le merci tedesche sono competitive (costano meno di quelle dei paesi concorrenti) sui mercati internazionali. In condizioni di flessibilità del cambio questo gap si colma, almeno inizialmente, attraverso un automatico aggiustamento del tasso di cambio, per cui il marco si apprezza rispetto alle altre valute, che di riflesso si svalutano rispetto al marco, riportando il prezzo di merci simili ad un livello equivalente. Con l’introduzione della moneta unica questo meccanismo di aggiustamento ovviamente viene meno: il modello tedesco risulta allora aggressivo, scoordinato e minatorio rispetto ai sistemi economici dei paesi concorrenti – Francia e Italia in primis. Non potendo attivare la leva del cambio i paesi europei devono procedere per svalutazione interna, ossia con l’abbattimento del costo del lavoro, che vuol dire taglio dei salari, esuberi, licenziamenti. Solo così si può guadagnare la competitività persa. Nel frattempo però l’intero tessuto industriale italiano è stato frantumato per l’azione congiunta di svalutazione interna e crisi economica globale, senza che la BCE potesse far qualcosa, dovendo per statuto occuparsi della stabilità dei prezzi, sacrificando a questo obiettivo tutti gli altri, occupazione compresa: ecco il significato di «importazione delle politiche deflazionistiche». Per dirla con le parole del prof. Luigi Zingales, i tedeschi, «col costo del denaro che è la metà del nostro, possono permettersi di venire in Italia, comprare le nostre fabbriche e chiuderle per sbarazzarsi della concorrenza. Il rischio è di trasformarsi nel Sud d’Europa: come il Meridione italiano è stato soffocato dall’imposizione delle leggi piemontesi, così l’Italia rischia di essere soffocata dalle leggi europee». Come se le disfunzioni strutturali dell’eurozona non bastassero, l’Italia ferita dalla crisi è stata costretta dall’Ue – di cui la Germania stessa è nel frattempo diventata leader indiscussa – a introdurre una serie di politiche di austerità che hanno aggravato le condizioni economiche, come il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente ammesso. Giungiamo così ai nostri giorni, in cui siamo costretti a vedere un Governo elemosinare uno zero virgola di flessibilità sul bilancio pubblico per poter costruire alloggi temporanei per i terremotati.
Come si è potuto constatare da questa brevissima ricostruzione storico-economica, la fondazione dell’Ue è strettamente legata alla divisione in blocchi dell’Europa, quella dell’Euro alla paura per la riunificazione tedesca, quella della Bce alla rigidità del modello tedesco. La conclusione cui si deve giungere non è che bisogna scatenare i peggiori sentimenti anti-tedeschi oppure che uscire dall’Euro sia la panacea di tutti i mali. Ciò che occorre è innanzitutto consapevolezza: consapevolezza del fatto che quella che molti credono essere l’incarnazione del “sogno europeo” è il frutto di mille calcoli politici divergenti e scoordinati, che hanno generato un mostro burocratico a tutto svantaggio dell’economia dei paesi periferici, tra cui l’Italia. La carica valoriale positiva del “sogno” si scontra con la realizzabilità pratica del progetto, i cui limiti sono invisibili solo agli analfabeti economici. Possiamo decidere che tutto sommato ci sta bene, a conti fatti l’integrazione europea ha garantito settant’anni di pace; ma se tutto quanto è stato espresso in questo articolo ha un fondamento, alla pace in senso bellico si è sostituita una guerra in senso economico. Quale sia la strada più saggia da perseguire saranno i popoli europei a deciderlo e nei prossimi anni sicuramente vedremo scombinarsi l’Unione così com’era ed è tutt’oggi. Preso atto che l’Europa nella quale viviamo oggi è il frutto di decenni di mastodontici equivoci, di storture storiche e di calcoli nazionalistici, ciò che ciascun europeo può fare è interrogarsi a proposito del proprio ruolo all’interno di questo progetto e tornare a chiedersi: l’Unione europea ha bisogno di noi europei?
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/critica-della-ragione-europea/
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