L’Europa dei padri non è quella dei figli
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Nicolas Fabiano)
I padri del progetto europeo si convinsero che l’integrazione economica avrebbe supplito alla mancanza di integrazione politica. Ma sessant’anni di Mercato Unico Europeo non hanno saputo sancire la morte dello Stato-nazione.
Sulle ceneri del fallimento di un’integrazione politica dell’Unione Europea (la Conferenza dell’Aja e la Comunità Europea di difesa per l’Unione degli eserciti 1953-1954) il 25 marzo del 1957 venne inaugurata il Mercato Europeo Comune di cui si celebra la ricorrenza dei 60 anni in questi giorni. Il Trattato di Roma sancisce l’inizio di una cooperazione fra i maggiori paesi europei che passa per l’unificazione economica. L’obiettivo più importante inizialmente fu l’unione dei regimi doganali, la fine del protezionismo economico che aveva concausato lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Una riflessione sempre attuale, visto che dove non passano le merci passano gli eserciti (Bastiat). I Trattati di Roma avevano quindi un’inconfondibile origine liberale, tanto è vero che tra i suoi maggiori promotori si annovera Gaetano Martino, all’epoca firmatario come Ministro degli Esteri italiano. L’intento principale non era quello di scardinare lo Stato westfaliano, ma di legarne le potenzialità in termini di sistema sociale in un connubio di regole uniformi e che avessero come principale vocazione lo sviluppo economico attraverso il libero commercio.
Per quanto concerne quest’ultimo aspetto andrebbe rilevata una caratteristica irredimibile del libero scambio, che i fautori della società aperta dimenticano troppo facilmente: il libero mercato – e lo dice la parola stessa – non ha come proprio valore fondante l’eguaglianza sociale, ma la libertà (politica ed economica). Questo significa che ci sarà sempre chi verrà maggiormente favorito dalla globalizzazione e chi no. In altri termini gli scambi economici rilevanti, specialmente quelli di natura bilaterale, non sono equi perché diverse sono le condizioni, le capacità e gli obiettivi dei singoli Stati che vi partecipano.
Con il procedere dell’integrazione economica a poco a poco le regole dei padri fondatori sono state disattese da quelle dei figli. Probabilmente senza neppure rendersene conto, a partire dal Trattato di Maastricht (1992), passando per l’istituzione dell’euro (2002), fino ad arrivare al più recente Fiscal Compact (2012) gli Stati hanno finito per accettare la schiavitù. Una schiavitù resa volontaria nel contesto di una crisi economica e sociale che ha finito per far prevalere il pessimismo della ragione all’ottimismo della volontà. I maggiori dividendi sono invece andati ai mercati finanziari, in chi controlla le agenzie di rating. Ma tra i beneficiari va annoverata anche una tecnocrazia europea dalle idee confuse e terribilmente post-politiche. Questo è l’inevitabile scenario di un’integrazione che passa attraverso l’economia, trascurando la legittimazione che in un modo o nell’altro è connaturata alla dimensione politica.
A dirla tutta, l’UE non funzionerebbe neppure con il pieno sviluppo di un sistema sovranazionale che rigetti i singoli Stati nazionali e si faccia promotrice della democrazia. Potrebbe suonare bene come favola ottocentesca. Ma oggi non è realizzabile perché se l’obiettivo – più o meno dichiarato – è quello di superare lo Stato nazionale attraverso un ibrido di convenzioni internazionali di tipo liberale fornendo una legittimità all’elaborazione di tali scelte, inevitabilmente e nello spazio di pochi anni le contraddizioni riemergerebbero. I cosiddetti populismi e nazionalismi altro non sono che una volontà di riscatto o semplicemente di ribellione da parte di coloro che condividono un sistema sostanziale e identitario di valori. Valori che sono inevitabilmente diversi perché diversa è la struttura dei singoli stati europei. Imprigionare Gulliver, come è stato fatto, con mille norme e convenzioni può anche dare l’illusione che lo Stato non esista più e che sia stato rimpiazzato da qualche regolamento promosso da élites senza nome, che finora sono state in grado di fronteggiare solo in modo temporaneo la componente finanziaria di una crisi che è anche economica, sociale e quindi drammaticamente politica.
Per restare dentro la metafora, non ci è dato sapere se Gulliver, cioè lo Stato, possa tornare a essere il luogo di una nuova stagione in Europa, liberandosi così dai lacciuoli dei vari nani privi della sovranità democratica. Certo è che nel bene e nel male lo Stato (nazionale) continuerà ad esistere essendo l’organizzazione politica più importante per la storia europea degli ultimi cinquecento anni. Renderlo ancora più disfunzionale svuotandone le principali funzioni non serve a nessuno. Tanto meno a quei figli dei Trattati di Roma che con il loro processo di integrazione involutiva hanno misconosciuto i propri padri.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/leuropa-dei-padri-non-e-quella-dei-figli/
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