Autunno del capitalismo, primavera dei popoli?
di SAMIR AMIN
Il capitalismo costituisce soltanto una parentesi breve nella lunga storia dell’umanità; ma una parentesi decisiva, perché ha soddisfatto le condizioni materiali (con uno sviluppo prodigioso delle forze produttive e delle conoscenze scientifiche) e culturali (con l’affermazione della modernità, fondata sul principio che gli esseri umani fanno la loro storia, che si sostituisce al principio tradizionale della fedeltà alle credenze degli antenati) che permettono di immaginare un futuro comunista, concepito come una tappa superiore della civilizzazione universale, che sostituisce i valori di uguaglianza e solidarietà (basi della democratizzazione autentica della gestione sociale in tutte le sue dimensioni) a quella della concorrenza al servizio del profitto immediato.
Tuttavia, oggi, l’opzione umanistica e razionale a favore del comunismo (attraverso una lunga transizione socialista) non ha il vento in poppa. L’opinione generale sembra acquisita all’idea che occorre vivere nel presente, farsi il proprio posto individuale, rinunciare a pensare al futuro. In quest’atmosfera di rassegnazione acconsentita, i popoli rinunciano all’azione collettiva necessaria e possibile “per cambiare il mondo”. Rinunciano dunque all’esercizio indispensabile dei loro diritti sovrani, alla democrazia, affermando le loro riserve sulla “politica”. Gli ostacoli sembrano loro insormontabili, tanto più che anche quando – eccezionalmente – riescono a realizzare alcune vittorie nel quadro delle loro istituzioni nazionali, le costrizioni della globalizzazione si incaricano di distruggere rapidamente le loro speranze. Sono allora fortemente tentati di dare credito a ideologie populiste, alla presunta “anti-politica” che ispirano loro nuove illusioni, antiquate.
E tuttavia la società capitalista mondializzata contemporanea è già visibilmente entrata in una crisi sistemica da cui non può uscire senza rimettere in discussione gli assiomi fondamentali del capitalismo. Ma l’autunno del capitalismo diventerà sinonimo di primavera dei popoli soltanto quando questi usciranno dalla loro rassegnazione per impegnarsi con l’esercizio democratico della loro autonomia in una strategia lucida ed efficace di transizione socialista al comunismo.
I popoli hanno vissuto in passato nell’ambito di sistemi stabili di lunga durata, secolare o millenaria. Il percorso storico del capitalismo fa contrasto: una lunga incubazione preparatoria alla sua nascita (dieci secoli), un tempo breve di splendente fioritura (il XIX secolo) seguita da un lungo declino che ha già occupato tutto il secolo scorso e potrebbe prolungarsi ancora a lungo.
La formazione dei monopoli della fine del XIX secolo, pone termine alla trasparenza della competitività dei mercati, sostituendola con l’opacità della loro gestione nelle mani appunto dei monopoli. Questo movimento è accelerato nel corso dell’ultimo terzo del XX secolo. La centralizzazione del potere di controllo dei monopoli ha ridotto tutte le attività economiche allo stato di subappaltatori; il valore creato da quest’attività è allora catturato per essere trasformato in entrate dei monopoli.
Questo sistema si chiude perciò in una contraddizione inevitabile. Con la diseguaglianza nella ripartizione del reddito e della ricchezza, in crescita permanente, una massa crescente delle entrate dei monopoli non può trovare più sbocchi nel finanziamento della crescita e deve darsi alla fuga in avanti della finanza speculativa. Le crisi normali del capitalismo erano a U: la stessa logica che aveva condotto alla recessione, dopo un breve periodo di limitate ristrutturazioni, imponeva la ripresa. La nostra crisi sistemica è a L, cioè la logica che ne è all’origine non permette più di uscire dal solco tracciato e le trasformazioni strutturali necessarie per permetterlo sono inaccettabili perché abolirebbero i vantaggi dei monopoli. Ma questi si sono appropriati di tutti i poteri: la permanenza del loro potere economico ormai è garantita dall’esercizio del loro potere politico esclusivo. In altre parole, non ci sono uscite possibili della crisi sistemica oltre all’opzione socialista. Non si tratta più di uscire dalla crisi del capitalismo, ma uscire dal capitalismo in crisi.
La possibilità di una presa di coscienza lucida del carattere inevitabile di questa contraddizione è fatta a pezzi dal discorso del “neoliberismo” che afferma che i mercati sono autoregolati. È scientificamente falso, ma il virus liberale ha convinto l’opinione pubblica! Nulla allora si oppone alla prosecuzione dell’esercizio del potere politico assoluto dell’oligarchia finanziaria (quel “1%” dei dimostranti di Occupy Wall Street). I partiti politici di destra e di sinistra ricongiunti dietro l’insegna dell’ordo-liberalismo perdono la loro credibilità e alimentano così “l’anti-politica”. Le elezioni non hanno più importanza. Sono del resto “legittime” soltanto nella misura in cui sono conformi alle esigenze dettate dal mercato. La democrazia rappresentativa elettorale, multipartitica, abolisce allora ciò che costituisce la benzina dell’esercizio del diritto democratico: quello di cambiare sistema. La democrazia a bassa intensità apre la via al successo dei discorsi demagogici dei populismi neofascisti e delle illusioni antiquate.
Essendo la possibilità della rimessa in discussione politica del sistema in questo modo distrutta, la contraddizione inevitabile in questione è superata dall’attuazione di mezzi di controllo della globalizzazione di una violenza estrema. L’espansione mondializzata del capitalismo è sempre stata fin dall’origine (e rimane) polarizzante. I centri del sistema – le potenze imperialiste – operano la globalizzazione attuando di politiche sistematiche ad ogni fase successiva del suo sviluppo. Le periferie sono in questo modo modellate da un aggiustamento strutturale permanente che è loro imposto. L’imperialismo e il capitalismo storico sono indissociabili. Al giorno d’oggi l’ordo-liberalismo mondializzato svolge questa funzione.
La contraddizione tra le nazioni ed i popoli delle periferie e le classi dominanti dei centri imperialisti è diventata la contraddizione principale del cambiamento possibile del mondo. Il Sud è la “zona delle tempeste” e non è dunque un caso se la prima ondata di rivoluzioni del XX secolo fatte in nome del socialismo è partita dalla Russia (“l’anello debole” diceva Lenin) e della Cina, prendendo una forma attenuata con le liberazioni nazionali dell’Asia e dell’Africa. Oggi un remake di questa storia potrebbe prendere forma, tanto più che il nuovo imperialismo collettivo della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone) non ha mezzi per perpetuare la sovranità mondiale dei suoi monopoli finanziari oltre alla guerra permanente contro le nazioni ed i popoli refrattari del Sud. L’obiettivo di questi interventi non è più di istituire sistemi di potere locali in equilibrio, ma distruggere le società interessate, come abbiamo visto in Iraq, Libia, Siria e Congo.
Un remake del XX secolo non risponde alle esigenze del nostro tempo. Il capitalismo non opera più attraverso “distruzioni costruttive” come lo immaginava Schumpeter. La sua dimensione triplicemente distruttiva, dell’individuo (ridotto allo status di consumatore), della natura, di società intere, ed i mezzi a disposizione di questa distruzione massiccia, impongono una strategia socialista concertata di tutti i popoli del Nord e del Sud, il coordinamento di progetti sovrani nazionali popolari con i quali il processo della trasformazione globale potrebbe innescarsi. In caso contrario, il peggio è probabile: la preparazione di sistemi neofascisti al Nord e al Sud. Bucharin diceva che i rivoluzionari sono opportunisti che hanno principi; sanno cogliere l’occasione di una situazione rivoluzionaria. Siamo in questa situazione, ma l’opportunità sarà persa se le sinistre radicali mancano dell’audacia necessaria per coglierla.
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